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DALLA CONVERSIONE ALLA COMUNITÀ

Il laicato dei Comuni creò una geografia spirituale propria accanto alle strutture delle parrocchie e diocesi. Ciò che nel Medioevo era chiamato “cultura della penitenza” ispirò questa creazione, sebbene le sue radici siano molto più vecchie. Durante la Riforma Gregoriana, molti laici dell’Italia settentrionale erano già alla ricerca di una vita Cristiana più intensa. Nel corso dell’XI secolo, questi individui furono chiamati “conversi” (convertiti) o “penitenti”. La parola converso, originariamente, indicava un laico che si era legato ad un ordine monastico e che aveva fatto una “conversione di vita” o un “oblazione” di se stesso. Vale a dire era diventato membro della “famiglia” monastica ed aveva servito i monaci come fratello laico. In senso più stretto, un “penitente” era una persona alla quale la Chiesa aveva imposto una penitenza pubblica per un grave peccato. Più semplicemente, era una persona laica che più o meno spontaneamente aveva scelto una vita ascetica. Nel corso del XII secolo, persone celibi o sposate intrapresero una varietà di pratiche di ascetismo, a volte per conto proprio, ma spesso sotto una guida spirituale presso una chiesa o monastero. Documenti del primo periodo comunale registrano esempi di conversi che privatamente si votavano ad una “conversione di vita” davanti la loro prete locale, ma che continuavano a vivere nelle loro case. Agli inizi del XIII secolo, la distinzione tra conversi e penitenti era stata offuscata e spesso le parole venivano scambiate. Originariamente, le persone sposate potevano divenire penitenti soltanto separandosi, perché sin dall’inizio lo stato di penitenza richiese il celibato. Nel periodo comunale, i conversi sposati superarono del 50 % le oblazioni. A Lucca, per esempio, il 53% dei conversi erano coppie sposate; il 20% donne sole (più della metà vedove) e il restante uomini soli. Si trattava di una

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trasformazione importante che diede una grande spinta al movimento. Non tutti i conversi sposati si sono avvalsi dei “diritti” matrimoniali. I voti privati della castità erano tipici tra le coppie che avevano superato l’età fertile ed erano comuni tra due conversi non sposati.

Nel periodo comunale, individui che praticavano la penitenza apparvero in Lombardia, lungo la Via Emilia, da Santarcangelo sotto Cesena fino a Milano; a nord del Veneto, a Vicenza e attorno a Firenze, in Toscana. Esempi isolati esistettero anche nelle Marche e a Roma, ma la vera terra della cultura della penitenza fu l’Italia del Nord e del Centro. Dopo il 1160 o giù di lì, conversi e penitenti cominciarono a “unirsi insieme” in associazioni per l’aiuto spirituale ed il supporto materiale e, prima del 1210, essi avevano già, con l’aiuto clericale, scritto “regole” o forme di vita. Papi come Innocenzo III incoraggiarono questo ascetismo laico e il numero di coloro che scelsero questa vita si moltiplicò rapidamente. Un momento importante ci fu con la bolla di Papa Gregorio IX, il 21 maggio del 1227, nella quale egli riconobbe uno speciale stato canonico per le associazioni dei conversi, chiamandoli per la prima volta “Fratelli e Sorelle della Penitenza”. In questa bolla, il papa approvò forme e pratiche vecchie di una generazione e in qualche modo riconobbe lo stato ecclesiastico a gruppi di penitenti non dipendenti da un monastero o chiesa. Queste comunità di “Fratelli e Sorelle della Penitenza” divennero una struttura permanente della vita comunale comunitaria, rimanendo laica e indipendente dal controllo clericale diretto, almeno fino all’ultima decade del XIII secolo.

DALLA CONVERSIONE ALLA PENITENZA

L’ascetismo fu il fondamento della vita dei conversi. Il biografo di san Ranieri di Pisa ci racconta che una volta un demone apparve al santo uomo, spiegandogli che anche i diavoli avrebbero potuto essere salvati, se solo

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avessero posseduto un corpo per fare penitenza; ma siccome avevano solo una natura spirituale e nessun corpo da mortificare, sarebbero rimasti per sempre bloccati nell’inferno. Per un laico sottoporsi a “conversione”, cioè diventare un converso, significava intraprendere la pratica dell’ascetismo, facendo penitenza. Alla fine del XII e inizi del XIII secolo, la conversione all’ascetismo era un atto individuale, la cui organizzazione era molto informale. Nel 1204, i cronisti ci raccontano che un certo “Fra Alberto di Mantova” predicò per sei settimane a Bologna, e “molte persone si convertirono”. Sebbene molti si convertirono da tendenze eretiche, ciò significò anche che molti furono ispirati ad entrare nello stato di penitenza, cioè a diventare conversi. La quasi contemporanea conversione di Francesco d’Assisi, se guardata sullo sfondo delle conversioni precedenti, appare notevolmente tradizionale. Il santo, rinunciando alla sua eredità, scelse una vita di penitenza sotto la protezione e giurisdizione del vescovo Guido d’Assisi. Tale scelta garantì a Francesco il privilegium fori, privilegio di diritto, come “una persona ecclesiastica”. Quando la discepola di Francesco, Chiara abbandonò la sua ricca famiglia per imitare il “Piccolo Povero Uomo”, lei stessa descrisse la sua decisione di entrare in uno stato di penitenza, cioè facendo penitenza (paenitentiam facerem).

Alcuni conversi adattarono forme monastiche di mortificazione, includendo pratiche estreme anche per i monaci più austeri. Benvenuta Boiani indossò un cilicio dall’età di dodici anni, insieme ad una “veste fatta di peli”, che miracolosamente si ruppe durante la crescita. Evitò il vino e non dormì mai in un letto, si flagellò, almeno fin quando il suo confessore non lo impedì. Anche il giovane Pietro da Foligno si flagellò, apparentemente senza alcuna obiezione da parte del suo confessore. Il suo biografo ci dice che Pietro si era dato una disciplina in segreto – forse il suo confessore non ne sapeva nulla. Durante il processo di canonizzazione, testimoni della vita del converso mantovano Giovanni Buono commentarono la sua tunica sgualcita,

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che egli indossò in estate e in inverno; ricordarono i suoi piedi nudi, gli zoccoli di legno, e l’asse sulla quale dormiva. Giovanni non esaltò la sua povertà, ma per la sua semplicità poteva rivaleggiare con i primi Francescani. Le sue penitenze personali furono selvagge. In un’occasione, tormentato dal ricordo di un’ex amante, si infilò schegge sotto le unghie e si colpì le dita con una pietra; svenne dal dolore per tre giorni, Quando si riprese, le tentazioni lo abbandonarono definitivamente. Nessun testimone si è soffermato ampiamente su tali stravaganze, dal momento che essi ritenevano che la sua regolarità nella preghiera e nei digiuni ne facessero di lui un santo. L’ascetismo moderato era la normale strada da seguire per la santità.

La semplicità fu essenziale alla vita di penitenza, ma essa non implicò l’assoluta povertà di Francesco, Chiara e di molti altri del movimento Francescano, sebbene i conversi praticassero l’ascetismo e professassero voti davanti ad un prete locale, essi rimasero persone laiche che continuarono a vivere nelle proprie case, a guadagnarsi da vivere e a mandare avanti gli affari; i conversi necessitavano di risorse sufficienti per sostenersi. Quando Umiliana dei Cerchi divenne una conversa, distribuì cibo e vestiti, persino la sua biancheria da letto, ai poveri e dispose di poter recitare la Messa quotidianamente per i suoi peccati, ma mantenne abbastanza per poter sopravvivere. Quando dieci anni più tardi Bona da Pisa chiese di diventare una devota, come le penitenti donne pisane si chiamarono, la sua richiesta fu rifiutata, perché era troppo giovane e non aveva abbastanza denaro per comprarsi l’abito tipico dei penitenti, e men che meno per sostenersi. A casa, i conversi potevano contare sull’aiuto degli altri membri familiari. I domestici assistettero Umiliana dei Cerchi durante l’ultima malattia, sebbene ella continuò a trattarli come servi; una donna a servizio trovò le costanti richieste d’acqua della donna così fastidiose che colpì la santa donna sul capo con una brocca.

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Già prima del 1220, i penitenti avevano cominciato ad unire le loro risorse e a vivere in piccole comunità. A Firenze, donne penitenti affittarono case nell’area di santa Maria Novella e ricevettero patrocinio finanziario dai Galli, una famiglia guelfa della zona. Esse si rivolsero ai domenicani come guide spirituali e divennero ben presto note come le “sorelle e madri dei frati del convento”, pur mantenendosi indipendenti in materia finanziaria, organizzativa e materiale. I penitenti potevano divenire oggetto di carità, come a Vicenza, ove la città fornì elemosine ai Fratelli della Penitenza che vivevano presso l’ospedale di santa Croce di Porta Nuova, in modo che potessero comprarsi biancheria da letto.

La carità penitenziale poteva svilupparsi in forme di servizio sociale – i penitenti Ranieri di Pisa e Raimondo di Piacenza fondarono e gestirono ospedali. Documenti databili tra il 1230 e il 1244 rivelano acquisti di terreni e donazioni relativi all’ospedale che le penitenti fiorentine stabilirono vicino santa Maria Novella. Alla metà del secolo i servizi caritatevoli dei penitenti si diffusero ovunque. In alcune città, come Bologna, la vita penitenziale rimase sempre più individualistica, destrutturata e slegata dalle istituzioni; infatti i penitenti bolognesi pare che non si diedero forme di vita stabili almeno fino al 1250.

Il loro stato religioso creò malumori presso le autorità religiose. Il sinodo diocesano di Lucca del 1300 cercò di regolare i conversi cittadini. Entro quindici giorni dalla promulgazione dello statuto, tutti coloro che si dichiaravano conversi erano tenuti a presentarsi di fronte al vescovo e a mostrare la prova scritta dei loro voti, un instrumentum conversarie rilasciato dal pastore della loro cappella. I pastori ricevevano voti da conversi che continuavano a vivere a casa propria, a condurre gli affari e a lavorare per mantenersi. I conversi potevano vivere per conto proprio, mandare avanti il commercio, ma non potevano gestire il denaro. Ci si chiede in che modo il sinodo si aspettasse che essi facessero fronte ai propri bisogni.

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Le associazioni religiose del devoto laicato, con forme simili a quelle del periodo comunale, esistevano già nel tardo periodo carolingio. Probabilmente i primi esempi di laici che fondarono una società, con scopi devozionali, nel contesto italiano, si svilupparono alla metà del IX secolo. Tale società diede vita ai matricula, ovvero un elenco di appartenenza, in cui risultavano presenti tutti coloro che donavano 1d. annualmente per le luci votive nella locale chiesa. Diversamente dai gruppi del periodo comunale, essi non professarono alcuna osservanza religiosa, oltre al pagamento delle candele e del petrolio. Negli anni sessanta dello stesso secolo, una confraternita di chierici e laici, dedicata a San Giacomo, la Congregatio

Sanctae Veronensis Ecclesiae, fu fondata a Verona e, nel decennio

successivo, si sviluppò in ambito urbano e rurale. La Congregatio era una confraternita sacerdotale. Il laicato ne condivideva solo i benefici spirituali, non l’organizzazione o lo stile di vita. A san Cassiano d’Imola, intorno al 1160, laici fondarono una rurale confraternita che si incontrava annualmente in occasione della festa di san Giacomo. I ministri raccoglievano donazioni, si recavano in processione per offrire candele, partecipavano alla Messa solenne in onore del loro patrono e distribuivano elemosine ai poveri. Il gruppo si occupava anche di fornire assistenza ai membri più poveri, anche in caso di malattia o morte. A differenza dei due esempi precedenti, quest’associazione fu, virtualmente, identica, nelle attività e organizzazione, alle prime comunità documentate di penitenti laici. L’organizzazione del gruppo fu ampiamente simile alle società di quartiere che dominarono i comuni del XIII secolo. Si può presumere che le società comunali modellarono le loro strutture dalle società pie, come questa o un'altra.

Come il gruppo di san Cassiano, le primitive società di conversi furono comunità rurali. Un gruppo, ben documentato, di conversi si riunì intorno alla chiesa di san Desiderio, nel contado vicentino. Furono attivi dal 1187 al 1236 e ci forniscono un ottimo esempio della struttura e obiettivi di

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un’associazione laica. Questi penitenti formarono una comunità volontariamente e si sostennero mediante il lavoro dell’agricoltura. Inondazioni nelle pianure, che distrussero il loro sostentamento, probabilmente spiegano la loro scomparsa negli anni ’30. Alcuni membri si sposarono, ebbero figli, coltivarono i loro campi in comune e praticarono un ascetismo basato sulla penitenza pubblica canonica (ad eccezione del celibato). L’associazione fu spontanea e volontaria. La loro identità religiosa fu fondamentale. Essi si consacrarono ad una conversione di vita, indossando un tipo di abito (saio), recitando le ore tradizionali, se istruiti, o in caso contrario il Padre Nostro. Si incontravano per le Messe periodiche, i sermoni e i “capitoli di colpe”. Possedettero proprietà in comune, ma non furono monaci, né furono legati ad un monastero.

Un documento del 21 Novembre 1222 ricorda l’auto oblazione di Adriano di Grancona e di sua moglie, Richelda, presso la comunità di san Desiderio. La coppia diede la sua proprietà al gruppo, compresa la dote di Richelda, che il testo elenca con attenzione. Fortunatamente, il documento include anche la descrizione della cerimonia di oblazione della coppia. Dopo l’offerta della propria proprietà, i conversi della chiesa avvolsero la coppia con i panni d’altare di san Desiderio, simboleggiando in tal modo che il patrono avesse preso i nuovi membri sotto la sua protezione. Questo gesto è sorprendentemente simile a quello del vescovo Guido d’Assisi, che avvolse il suo mantello intorno a san Francesco, come segno di protezione ecclesiastica, quando egli da uomo laico si convertì alla penitenza, alleggerendosi delle proprie proprietà e vestiti.

Sebbene i conversi dell’XI secolo furono “liberi professionisti”, essi cercarono comunque di avere sponsorizzazioni dalle autorità ecclesiastiche del luogo. La svolta del XIII secolo fu assai fertile per nuove affiliazioni. Escludendo il loro comune possesso di proprietà, il modo di vita del gruppo di san Desiderio assomigliava molto alle indicazioni sulle forme di vita

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approvate da papa Innocenzo III per gli Umiliati laici terziari (1201), un testo da cui attinse la prima regola dei Fratelli e Sorelle della Penitenza (1221). Nel 1188, i penitenti di san Desiderio ricevettero una propria chiesa dal capitolo della cattedrale di Vicenza. Essa divenne il loro centro amministrativo e cultuale. Il possesso di una chiesa implicava l’esercizio della giurisdizione, qualcosa che i laici non potevano gestire. Il capitolo, quindi, si assunse la responsabilità a nome del gruppo, lasciando loro le questioni religiose. I conversi ebbero il diritto di cercare un prete-cappellano da sottoporre al capitolo; in cambio dimostrarono la loro sottomissione al

capitolo mediante il pagamento annuale di una tassa di 20s.(nomine census

pro signo obedientie). Quest’offerta veniva posta sull’altare della Vergine

nella cattedrale. Alla fine, il gruppo ricevette l’approvazione episcopale. I conversi di san Desiderio non furono un caso isolato. Essi rappresentarono una delle tante associazioni di conversi che apparvero tra la fine del XII e inizi del XIII secolo con l’autorizzazione ecclesiastica. La gerarchia Cattolica estese la protezione anche a gruppi di penitenti formati da eretici riconciliati, come i Poveri Cattolici (1208) e i Poveri Lombardi (1210). Le autorità chiesero unicamente in cambio agli ex eretici che vivessero la loro vita comunitaria di penitenza come Cristiani ortodossi, all’interno del seno della Chiesa. All’inizio del XIII secolo, la transizione da penitenti che sceglievano voti privati a rudimentarie associazioni private e infine a istituzioni religiose erette canonicamente fu notevolmente accelerato. Il primo passaggio da voti privati ad associazioni riconosciute canonicamente ci fu quando il numero dei membri arrivò a tredici – dodici membri e un capo – il numero evangelico di Cristo e dei apostoli. Tredici fu il numero stabilito nel diritto canonico e fu il numero raggiunto da san Francesco e dai suoi primi seguaci, quand’egli, per la prima volta, chiese l’approvazione ecclesiastica. All’inizio del XIII secolo, le associazioni laiche e volontarie furono abbastanza comuni tanto che i notai dovettero riformulare i testi,

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adattandoli sia a scopi religiosi che secolari. Sebbene il concilio Lateranense del 1215 proibì la composizione di nuove “regole” per la vita religiosa, gruppi clericali e laicali diedero vita, con trasporto, a nuove “costituzioni” e “statuti”, senza incontrare una reale resistenza da parte della gerarchia ecclesiastica. Le associazioni dei conversi trassero ispirazione dalle primitive e rurali associazioni, come quella di san Desiderio, il loro linguaggio legale dai libri notarili, la loro disciplina dalla penitenza canonica e dai tradizionali ordini religiosi. La moltiplicazione di tali gruppi non passò inosservata. Alla metà del XIII secolo, il canonista Enrico di Susa, meglio

noto come l’Ostiense, commentò che fosse “assurdo”(absurdum) consentire

la moltiplicazione di conversi liberi e indipendenti in associazioni laiche religiose – il vescovo avrebbe dovuto, egli disse, regolamentare i conversi e imporre loro una standardizzazione dell’abito e della regola.

I laici penitenti avevano già anticipato la lamentela dell’Ostiense. Il cosiddetto “Propositum” dei Penitenti Lombardi del 1215 è la prima raccolta di statuti riguardanti un gruppo di penitenti italiani urbani e riflette il fertile clima legislativo esistente tra i gruppi religiosi all’inizio del XIII secolo. Sebbene il testo originale sia andato perduto, la sua forma e i suoi contenuti non sono difficili da ricostruire dalla legislazione più tarda. I penitenti ingaggiarono un anonimo canonista del nord d’Italia per stilare il documento, probabilmente in seguito alla predicazione di san Francesco durante il 1215. Il canonista prese eccessivamente in prestito elementi dalle disposizioni di Innocenzo III per gli Umiliati terziari del 1201. L’uso, nel documento, della moneta di Ravenna, ci suggerisce un’origine Romagnola, forse di Faenza. Il “Propositum” prevedeva una convocazione mensile per la predicazione e la Messa nella chiesa patronale dell’associazione; organizzava gli aiuti ai membri poveri e malati e richiedeva che tutti facessero testamento, “per la paura di morire intestati”. I membri dovevano contribuire al mantenimento della pace interna. Questa legislazione fu abbastanza comune. Identiche

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disposizioni per la Messa e le lampade votive sono state trovate negli statuti di associazioni “secolari”, come l’associazione degli insegnanti e studenti bolognesi che si accordarono con i monaci Camoldolesi, affinchè provvedessero ai servizi religiosi all’incirca alla stessa ora.

Il “Propositum” rifletteva la vita penitenziale del gruppo. Adattandosi alle preoccupazioni secolari, il “Propositum” proibiva ai membri di partecipare a spettacoli, danze, attività indecenti e altre attività mondane. Il più primitivo degli abiti, ovvero mantelli chiusi di una stoffa non tinta, simboleggiava l’impegno dei membri ad una vita austera. I fratelli si impegnarono a recitare i Divini Uffici, se fossero stati istruiti e avessero avuto i testi per farlo; in caso contrario, se illetterati o durante gli spostamenti, avrebbero recitato sette Padre Nostro e sette Gloria per ogni ora. A Prima e a Compieta, avrebbero aggiunto un Credo e il salmo del “Miserere”, se lo avessero conosciuto a memoria. Tutti recitavano il Padre Nostro prima e dopo i pasti. Durante la Quaresima, e da san Martino (11 novembre) fino a Natale, tutti partecipavano ai servizi mattutini presso la chiesa locale. Gli statuti diedero ottime disposizioni di governo. Della responsabilità furono investiti due fratelli, che servivano come “ministri”. Questi ministri, il tesoriere, e il portavoce richiedevano ai fratelli le annuali nomine per gli uffici dell’anno successivo. Come loro ultimo atto, essi nominavano i nuovi capi dalla lista dei candidati. Gli ufficiali esaminavano i candidati, garantendo dispense da varie disposizione della regola quando necessario; un nuovo membro necessitava del permesso di sua moglie per entrarvi. Coloro che si votavano divenivano membri permanenti della comunità, a meno che non l’avessero lasciata per divenire religiosi regolari. I ministri avevano il potere di espellere i membri incorreggibili, sia in caso di violazione della regola che per eresia. Il “Propositum” elaborò disposizioni anche per i suffragi dei morti. Quando un membro moriva, i fratelli chiamavano un prete affinchè cantasse una Messa da Requiem, nel corso della settimana della morte; i

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membri istruiti recitavano cinquanta salmi e gli illetterati cinquanta Padre Nostro. Ogni anno, i preti affiliati dicevano tre Messe, i letterari l’intero Salterio e tutti gli altri un centinaio di Padre Nostro per i dipartiti.

Breve e poco strutturato, il “Propositum” imita le strutture e le devozioni delle confraternite rurali dell’XI secolo. Le più tardive società urbane, sebbene confraternite religiose o corporazioni comunali, perpetuarono le stesse forme. Tuttavia, in pratica, il passaggio da questa forma di associazione ad un’organizzazione sviluppata avvenne lentamente. Il movimento penitente arrivò a Vicenza intorno al 1222, ove a metà del secolo, testimoni e altri registrano singoli penitenti laici. Il più vecchio testamento

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