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LE CITTA' DI DIO LA RELIGIONE DEI COMUNI ITALIANI 1125-1325 DI AUGUSTINE THOMPSON, O. P. (PRIMA TRADUZIONE PARZIALE IN ITALIANO)

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN STORIA

LE CITTÀ DI DIO

LA RELIGIONE DEI COMUNI ITALIANI 1125-1325

DI AUGUSTINE THOMPSON, O. P.

(PRIMA TRADUZIONE PARZIALE IN ITALIANO)

Tesi di Laurea in

“Antichità e Istituzioni Medievali”

Candidata: Relatore:

Federica Criniti Chiar.mo Prof.re Mauro Ronzani

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INDICE

Augustine Thompson, O. P. Le città di Dio

La religione dei Comuni Italiani, 1125-1325

Prefazione ... I Vita e Opere ... III Premessa ... IV Note Allo Stile ... V Introduzione ... VIII

Parte I. La Città Santa: Geografia Sacra ... 1

Capitolo Primo ... 2

La Chiesa Madre ... 2

Il Centro Di Culto ... 3

La Casa Della Città ... 11

Il Grembo Del Comune ... 17

Quartieri e Cappelle ... 26

Il Clero Della Città ... 39

Capitolo Secondo ... 48

Dalla Conversione Alla Comunità ... 48

Dalla Conversione Alla Penitenza ... 49

Riconoscimento Ecclesiastico e Secolare ... 58

La Vita Penitenziale ... 63

Penitenti In Preghiera ... 73

Servigio Reso Alla Città e Alla Chiesa ... 78

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Capitolo Terzo ... 89

La Città Santa ... 89

Il Paradiso e I Primi Comuni ... 90

Patroni e Patriottismo ... 102

Immagini Sacre e Spazi Sacri ... 111

Dio e Il Popolo ... 120

La Città Santa Legifera ... 129

Capitolo Quarto ... 134

La Formazione delle Famiglie, dei Quartieri, delle Città ... 134

La Nascita di Una Famiglia... 134

Comunità In Processione... 145

Le Candele ed Il Comune ... 160

Onorare La Vergine e La Città ... 168

I Suoni Dell’Ordine Urbano ... 179

Capitolo Quinto ... 183

Sante Persone e Santi Luoghi ... 183

La Conversione Per La Penitenza ... 185

Riconoscere Un Santo ... 195

Servizio, Cittadinanza e Santità ... 200

La Città Genera Un Santo ... 209

I Santi e I Loro Luoghi ... 218

La Nascita Di Una Speciale Relazione ... 224

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PREFAZIONE

Nell’Alto Medioevo italiano gli uomini e le donne erano soliti concepire se stessi non come individui solitari, ma come membri di un corpo sociale: la chiesa, la famiglia, la parentela, il vicinato, la confraternita, la corporazione, il villaggio, la città erano tutti luoghi ove l’individuo si muoveva intrattenendo relazioni che portavano solidarietà ma anche vincoli sociali; oltre alla religione. Non si trattava di pura retorica. Quando le città del centro nord italiano si liberarono dal controllo imperiale e ripristinarono la loro originale forma di governo, il comune, la parola che usarono per definire la città (civitas-citade) esprimeva l’idea che essa fosse la sede di un vescovo. La città: la chiesa. La chiesa: il vescovado; e la loro relazione con l’identità civica. I comuni furono, dunque, contemporaneamente entità religiose e politiche, i cui governi laici, lungi dall’essere secolarizzati a causa della loro separazione con la cattedrale, giunsero ad esprimersi attraverso una retorica e forme organizzative religiose sempre più esplicite, rivendicando una propria legittimità, sacralizzando il tempo e lo spazio, coltivando il culto dei santi patroni, plasmando le persone. Gli ideali e i lessici - la retta fede, la carità, la pace, l’onestà, l’amore, il bene comune, la giustizia - furono strumenti concettuali che andavano a conformare l’animo e il comportamento dei buoni fedeli, ma anche dei buoni cittadini. La pratica regolare di carità pubbliche e di preghiere comunitarie incoraggiava l’individuo a credere in se stesso come promotore di valori civici. Tutto ciò presuppose la formazione di associazioni volontarie, associazioni religiose nate nel clima della cultura della penitenza, popolata dai conversi, uomini e donne che scelsero di vivere una vita ascetica pur rimanendo nel mondo secolare. Le loro confraternite fornirono il modello per altre associazioni, soprattutto per quelle che avrebbero dato origine alle società del Popolo. Le confraternite furono quindi luogo di educazione religiosa e di formazione

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sociale, ove impartire norme finalizzate al miglioramento spirituale e civico, secondo l’idea che una collettività volta al reciproco aiuto potesse contribuire

alla comunità intera. La fraternitas poteva anche innalzarsi a communitas.

L’ideale di molte confraternite fu infatti l’integrazione dell’individuo nella comunità, attraverso la sua compartecipazione alla costruzione della società; i progetti volti all’assistenza caritativa e spirituale rafforzavano il senso di appartenenza comunitaria e aumentavano la consapevolezza di una responsabilità condivisa all’interno di questa. Ma anche all’interno dello spazio civico, mediante l’inserimento nei rituali collettivi, quali le processioni o le offerte di candele. Le confraternite si proposero dunque quali ponti fra la città materiale e quella spirituale, fra la città degli uomini e la città di Dio. Le processioni, le offerte, il suono delle campane reclamarono uno spazio pubblico, rendendo tangibile l’ordinamento cittadino, attraverso il quale la città esprimeva se stessa. Non stupisce quindi che questo contesto abbia generato un particolare tipo di santità, uomini e donne cha catturarono l’attenzione dei loro contemporanei mentre erano ancora in vita e il cui culto si sviluppò subito dopo la loro morte. D’altra parte il Medioevo non conosceva gli odierni passi del processo di canonizzazione; un santo diveniva tale per acclamazione. La devozione al santuario locale divenne sinonimo di patriottismo civico; il santuario di riflesso diede onore alla città che lo aveva generato e ciò la rese di per sé una città santa.

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VITA E OPERE

Augustine Thompson, O.P., nato il 21 luglio 1954 a New York, è un frate Domenicano. Attualmente detiene la cattedra come professore ordinario di Storia presso la Facoltà Domenicana di Teologia e Filosofia, a Berkeley, CA. È membro della Società Storica Cattolica Americana, dell'Associazione Storica Americana, della Società Americana di Storia della Chiesa, dell'Accademia Medievale dell'America e dello Iuris Canonici Medii Aevi Consociatio (Società Internazionale di Diritto Canonico Medievale). Tra i suoi libri, ricordiamo: Francesco d’Assisi: Una Nuova Biografia, Ithaca:

Cornell University Press, 2012. Traduzione it.Bari: Edizioni di Pagina, Bari,

2016 e Predicatori e politica nell’Italia del XIII secolo, Oxford: Clarendon Press, 1992. Traduzione it. a cura di Stefano Flores. Fonti e ricerche 9. Milano: Edizioni Biblioteca Francescana, 1996.

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PREMESSA

Nel mio profano lavoro da traduttrice alle prime armi mi sono resa conto quanto sia complesso e a volte insidioso esplicitare in un’altra lingua, in questo caso l’italiano, un lavoro storiografico redatto in inglese. Dapprima mi sono lasciata coinvolgere dal demone dell’entusiasmo, per poi realizzare che per la corretta comprensione e traduzione del testo fosse innanzitutto necessario evitare di lasciarsi sviare dal suono di parole che all’apparenza sembravano simili a quelle italiane. Basta citarne una come esempio: “actual”, che non significa attuale, ma vero, reale, precisamente un significato diverso. Questo mi è servito per capire che avevo bisogno di abbandonare per un momento la nostra lingua e immedesimarmi in un contesto idiomatico differente, non tralasciando di verificarne dubbi e perplessità. Ma ancora prima di questo ho appreso che bisogna comprendere appieno il contesto, il significato del mondo che l’autore ha descritto, il codice in cui lo ha reso. Interpretare erroneamente anche solo uno di questi aspetti, significa non rendere reale o meglio non riconoscere il valore della ricerca e del lavoro svolto dallo scrittore. Se tutto questo, al primo impatto, mi è parso disorientante e complesso, nel prosieguo del mio lavoro è divenuto via via più facile, più comprensibile. Le frasi che all’inizio del primo capitolo mi apparivano fuorvianti, già nel secondo assumevano forma e significato. Quanto più velocemente ci si immedesima nella realtà descritta, tanto più ne siamo trascinati al suo interno. In questo senso, la scoperta della religione dei comuni italiani è stata graduale e affascinante, e ancor di più lo è stato rimanerne completamente coinvolti.

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NOTE ALLO STILE

Nelle mie note, ho riprodotto testi latini e italiani medievali tratti da edizioni stampate e manoscritti, con tutte le loro peculiarità ortografiche e grammaticali. Per i manoscritti, ho modernizzato la punteggiatura e le maiuscole, ma non ho tentato di introdurre accenti e apostrofi mancanti nell’originale, dal momento che si tratta di trascrizioni, non di edizioni; di conseguenza, i testi appaiono molto particolari e talvolta addirittura sgrammaticati. Probabilmente si tratta di un esito positivo, poiché fornisce al lettore un contatto più immediato con le parole scritte dalle persone prese in esame. Tutte le traduzioni sono mie, salvo diversa indicazione.

Normalmente rendo i nomi propri, tratti sia da fonti latine che italiane, nella loro probabile veste dialettale. La presenza della parola fu tra un nome e un patronimico, come “Giovanni di fu Pietro”, significa che il padre era morto al momento della scrittura. Qualche volta un nome è preceduto da “Don” o “Donna”, ovvero dominus e domina nell’originale latino. Questi titoli di cortesia sono stati usati da onorevoli laici e dal clero, soprattutto dai sacerdoti. Se il chierico era un monaco, ho adeguato il titolo come “Dom”, seguendo il comune uso inglese. “Fra”, che significa frater (in latino), indica un membro dell’ordine mendicante o un penitente laico (l’uso precedente). La forma femminile di questo titolo è “Sor” o “Sora”. I laici aristocratici sono talvolta indicati col titolo di “Ser” (come l’inglese “sir”), che è un po’ più elevato di “Don”.

Ho fatto alcune eccezioni. Se il nome indicava il luogo di origine, come in Giovanni di Vicenza o Guido da Vicenza, ho trasformato la preposizione in “di”, poiché questo è il suo significato. Ho riportato i nomi dei Padri della Chiesa, famosi santi e papi in inglese, ma ho inserito i nomi dei santi nella veste italiana, poiché è in questo modo che gli altri li conoscevano. Ho fatto

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un’eccezione per San Francesco, sarebbe stato davvero sviante fare altrimenti.

Il denaro, nei documenti del XIII secolo, indica generalmente la moneta di conto piuttosto che la moneta reale. In teoria le “denominazioni” erano le seguenti:

£ = libra (lira; in inglese, “pound”); s. = solidus (soldo; in inglese, “shilling”); d.= denarius (denaro; in inglese, “penny”). £1 = 20s. = 240d. Una tipica moneta di conto era la “lira imperiale” (£ imp. = libra imperialis). Le città

avevano le loro valute ipotetiche: £ bon. = libra bononinorum, la lira di

Bologna; £ fer. = la lira di Ferrara; £ flor. = la lira di Firenze; £ flor. parv. = la lira più piccola di Firenze; £ mil. = la lira di Milano; £ mut. = la lira di Modena; £ parm. = la lira di Parma; £ pis. = la lira di Pisa; £ placen. = la lira di Piacenza; £ rav. = the lira di Ravenna; £ reg. = la lira di Reggio; £ ven. gros. = la lira più grande di Venezia; £ ven. parv. = la lira più piccola di Venezia. Tre di queste lire erano di solito uguali ad una lira imperiale. I documenti del nord d’Italia indicano a volte semplicemente lire, senza alcun riferimento al tipo specifico. Infatti, le monete coniate dalla maggior parte delle città furono quasi sempre i tradizionali denari. Le città del nord d’Italia cominciarono a coniare monete più grandi, chiamate grossi, ai primi del 1200. Questi contenevano circa due grammi di fine argento – da quattro a ventisei volte il corrispettivo presente nei più vecchi piccoli. Questi piccoli e grossi si rispecchiano nelle maggiori e minori denominazioni delle monete di conto sopra elencate. Questo significa che la moneta di conto, la “lira” di ogni città, aveva un valore diverso, e le differenze variarono in base a quanto le città svalutarono le monete. I vari “tassi di cambio” per le differenti monete cittadine, dopo la metà del 1200, sono riportati nel Manuale di Borsa Medievale di Peter Spufford (Londra: Boydell & Brewer, 1986), il quale rappresenta una risorsa eccellente per coloro che necessitano di ulteriori informazioni. Per quanto riguarda il potere d’acquisto, una modesta casa

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nella città di Bologna valeva circa £200 bon., intorno al 1290, dopo un secolo d’inflazione moderata. Lo stipendio tipico per la Messa, negli statuti bolognesi del XIII secolo, era di 6d. bon., e si suppone che facesse fronte ai bisogni materiali giornalieri di un sacerdote.

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INTRODUZIONE

Questo libro tratta della vita religiosa di persone comuni nell’Italia del pieno Medioevo. Come tale, si tratta di un’escursione in un mondo in gran parte inesplorato, quello dell’esperienza vissuta della religione ortodossa nelle città italiane. Alcuni lettori potrebbero trovare questa caratterizzazione sorprendente, persino scioccante. Nulla potrebbe essere conosciuto meglio di ciò che significò essere Cristiani “Cattolici” nell’Italia di san Francesco e di Dante. Gli storici della religione medievale, a lungo, hanno rivolto il loro sguardo e la loro ricerca altrove. In occasione della mia prima avventura nel mondo della religione italiana del XIII secolo, più di quindici anni fa, rimasi sorpreso dallo scoprire quanto poco fosse stato studiato il mondo ortodosso quotidiano. I vecchi studiosi hanno elaborato studi sulle politiche papali e la teologia scolastica, ma questi testi trattavano unicamente di una élite ecclesiastica. Nel suo classico studio dei movimenti religiosi medievali, Herbert Grundmann suggerì per primo l’idea che l’eresia del pieno medioevo, i mendicanti e il misticismo femminile fossero parti di un tutt’uno, e che meritassero maggiore attenzione. Gli studiosi successivi si sono concentrati, quasi esclusivamente, su quei tre fenomeni. Uno sguardo alla trattazione della religione medievale nella Storia d'Italia Einaudi, opera di un eminente studioso, ci offre un panorama religioso alquanto strano. La tradizionale suddivisione impera: una sezione sulla Riforma Gregoriana, seguita da sezioni dedicate all’eresia e alla sua repressione (pp. 609-733), gli ordini mendicanti (pp.734-874), e le crisi istituzionali della Chiesa nel corso del XIV secolo (pp. 874-974). Eretici, papi, teologi, Francescani, e santi. Dove sono tutti gli altri?

Tra le aree di interesse di Grundmann, gli eretici furono tra i primi a generare un settore accademico, già vitale negli anni ‘60. La bibliografia sull’eresia

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nel medioevo italiano è vasta ed ancora in espansione. Vi è inoltre una crescente consapevolezza che l’eresia non possa essere compresa separatamente dalla religione che essa rifiutava. Nonostante il rilievo nei moderni studi, gli eretici rappresentarono unicamente una piccola percentuale della popolazione medievale italiana. A partire dal 1980, l’interesse di Grundmann per il misticismo del XIII secolo, è stato trasformato, in gran parte grazie al lavoro di André Vauchez, in un ricco e ampio campo di studio, quello dei santi e della santità. Ma ancora una volta, come per gli eretici, i santi rappresentarono solamente una piccola percentuale, sebbene molto importante, di coloro che vissero nelle città medievali italiane. Recenti studi sulla “religione popolare” e la “religiosità laica”, inizialmente, sembrarono essere molto promettenti; ma l’esperienza religiosa studiata in questi libri tende a dissolversi in una religiosità disincarnata, la quotidianità reale viene persa in generalizzazioni e astrazioni. Questo testo non è un studio sulla “religione popolare”, né sulla “religiosità laica”, esposta in altri volumi. Spero che esso sia qualcosa di più grande, una ricostruzione del mondo religioso di tutti coloro che, nelle città italiane, si considerarono Cristiani ortodossi. La religiosità laica medievale è incomprensibile senza considerare i sacramenti e il clero, ma la “religione popolare” è raramente trattata come parte del vasto mondo della pietà e della fede ortodosse. Probabilmente la sua forte impronta giuridica “legittimità” e la sua ordinarietà rendono la complessità della vita cristiana alquanto sfuggente. La scarsità delle fonti e l’opacità di quelle esistenti non possono giustificare il mancato perseguimento di tale studio, anche se spesso si fa così. Infatti, Vauchez ha già indicato la strada verso il recupero della religione concreta e vissuta in Italia, nonostante la mancanza di fonti.

I comuni furono, simultaneamente, entità religiose e politiche. Questo può sembrare un luogo comune, ma date le traiettorie dei moderni studi, questa prospettiva rappresenta un nuovo orientamento. Gli storici dell’Italia

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comunale, un tempo, si focalizzavano sulle città come precorritrici degli stati centralizzati dell'Europa nella prima età moderna, e questa prospettiva politica oscura ancora la natura religiosa dell’Italia comunale per molti osservatori moderni. Recentemente, gli storici dell’Italia medievale hanno oltrepassato una visione incentrata sul progresso politico, enfatizzando, invece, la faziosità, la primitività, l’oligarchia, il particolarismo, la dipendenza agraria delle città, la loro natura “arcaica”. Tanto di guadagnato. Eppure, nelle storie dei comuni, la religione rimane stranamente aliena dalla vita civica. Nel recente studio di 673 pagine di Philip Jones sulle città-stato italiane, l’autore dedica appena diciassette pagine alla loro vita religiosa – e queste pagine sono per lo più dedicate ai conflitti fra la giurisdizione ecclesiastica e quella secolare. La migliore descrizione dei comuni, disponibile in inglese, asserisce: “I comuni italiani…furono essenzialmente apparati secolari il cui particolarismo fiorì nonostante una religione universale e le rivendicazioni di un impero universale”. No, non lo credo. Quello che l’opposizione fra sfera clericale e sfera laico nasconde è che la città fu una entità unica, anche se giurisdizione e governo erano divisi. E il suo governo laico, lungi dall’essere “secolarizzato” dalla separazione dalla sua cattedrale e dal suo vescovo, giunse ad esprimersi e comprendersi attraverso una retorica religiosa e rituali sempre più espliciti. I comuni furono capaci di distanziarsi dall’impero medievale poiché essi, come l’impero, rivendicarono una legittimità sacra. È stato sostenuto che la vicinanza del papato e le guerre con i papi abbiano costretto i comuni a sviluppare un’identità religiosa, per giustificare le politiche indipendenti dal papato; ma questo si scontra con le politiche e l’identità comunale della prima Lega Lombarda. Piuttosto furono le guerre delle città con l’impero che indussero i cittadini a sacralizzare il comune. Le città utilizzarono le forme di organizzazione religiosa, cercando legittimità attraverso il culto dei santi patroni, concettualizzando il loro tempo e spazio in termini sacri, e queste

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realtà religiose, a loro volta, plasmarono le persone. La città italiana come entità religiosa merita maggiore attenzione.

Vorrei sottolineare, sin dall’inizio, che ho scelto di tenere i Francescani in disparte e quindi di lasciare che la religiosità scaturita da Francesco parli per sé. Non vi è probabilmente nessun altro periodo e luogo nella storia Cristiana in cui persone comuni ebbero un impatto maggiore sulle forme devozionali che nelle repubbliche comunali d’Italia. Il mondo dei comuni si venne a trovare tra il governo dei conti-vescovi del vecchio impero e il successivo governo dei principi. Le città diedero vita a una cultura religiosa veramente propria. L’Italia comunale produsse anche la più elevata concentrazione di santi laici nella storia Cristiana, età moderna inclusa. Questo libro vuole essere incentrato sul popolo che "produsse" san Francesco, non i suoi imitatori o coloro che egli influenzò.

Gli studiosi di storia religiosa antica e moderna hanno già elaborato ottime ricostruzioni riguardo i Cristiani e la loro religiosità vissuta – i loro riti, le loro credenze, e le loro devozioni. Questi risultati mettono in discussione il modo in cui noi medievalisti italiani facciamo il nostro lavoro. Un simile studio è atteso da tempo per l’Italia comunale. Se il mio libro è riuscito a recuperare questo perduto mondo, anche in parte, allora è un bene. Se esso ha fallito, allora spero che convincerà altri a rinnovare il tentativo.

PARTE I: GEOGRAFIA SACRA.

La prima parte di questo libro presenta una geografia religiosa dei comuni, le repubbliche autonome dell’Italia, durante il loro classico periodo, 1125-1325. La mia scelta geografica non è stata arbitraria, come diventerà chiaro con il prosieguo della lettura. Finchè libri come questo non appariranno per Francia, Inghilterra, Germania, Spagna, e il resto dell’Italia, i raffronti

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sostenuti sono impossibili. Ma è già chiaro che la vita religiosa dei comuni Italiani fu unica, in vari modi. Solo nel centro e nel nord d’Italia, il culto pubblico si concentrò sulla ripresa dell’antica pratica dei battesimi collettivi Pasquali presieduti dal vescovo. Altrove, in Europa, le diocesi erano semplicemente troppo grandi per tale consolidamento. Gli studiosi che si occupano del sud d’Italia mi assicurano che lì questa ripresa non si verificò; infatti, le città italiane del sud furono piuttosto differenti nelle loro forme ecclesiastiche, commerciali e politiche. Solo nella regione studiata in questo libro, inoltre, le città medievali costruirono nuovi e imponenti battisteri monumentali per i loro riti Pasquali. Questo particolare incentrarsi della vita religiosa cittadina sul complesso della cattedrale, distingue anche la religione dei grandi comuni dalla campagna italiana – ove tale consolidamento fu impossibile.

All’interno del centro nord italiano, mi concentro principalmente su quelle città che raggiunsero l’autonomia durante le battaglie del XII secolo contro il potere imperiale tedesco. Questo significa che ho ben poco da dire su Venezia, così unica in molti modi, o sulle città degli Stati della Chiesa, con le loro singolari relazioni con la vicina sovranità papale. A rischio di anacronismo – ancora oggi l’Italia è un paese dal forte regionalismo – chiamerò, in una parola, i cittadini di queste città "Italiani". Sebbene essi certamente pensassero di essere prima di tutto fiorentini o bolognesi, milanesi o senesi, questi comuni avevano marcate somiglianze culturali e politiche, e avevano già iniziato ad usare l’aggettivo italiani per distinguersi dai loro aspiranti signori tedeschi.

Le divisioni cronologiche, come quelle che ho scelto, sono sempre arbitrarie, ma forniscono un ragionevole quadro dell’età delle città stato repubblicane in Italia. Nel 1125, l’imperatore Enrico V morì; duecento anni più tardi, soltanto due comuni del nord d’Italia, Padova e Parma, mantenevano ancora l’indipendenza repubblicana. Nel 1328, anch’esse caddero nelle mani di

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famiglie signorili, i della Scala e i Rossi. La morte di Enrico V segnò il declino del potere imperiale nel nord e l’istituzione di governi indipendenti, un processo che si andò completando verso il 1140. Già prima della caduta di Padova e Parma, l’arrivo delle Signorie aveva spazzato via ogni forma repubblicana. In Toscana, come a Venezia e a Genova, tali forme continuarono, ma queste città divennero delle oligarchie, avendo poco in comune con i comuni di popolo del Duecento. I gruppi dominanti hanno sempre usato una cerimoniale pubblico per i loro scopi. Il mondo rituale della Firenze tardomedievale, così provocatoriamente descritto da Richard Trexler, con il suo sapore aristocratico evocativo dei Medici, sembra abbastanza differente da quello degli altri comuni del pieno medioevo. Sospetto che l’ascesa delle Signorie e oligarchie stia dietro questo cambiamento, sebbene questa sia solo una congettura in attesa di un altro libro che la confermi.

I primi cinque capitoli di questo libro mappano la “geografia” religiosa e civica delle città stato. Il primo descrive le istituzioni ecclesiastiche della repubblica e la loro relazione con l’identità civica. Il vescovo, la cattedrale, la diocesi precedettero il comune, e sopravvissero ad esso. Gli storici hanno prestato molta attenzione allo sviluppo economico e politico dei vescovati italiani. Possediamo molti studi su territorio e giurisdizione della Chiesa, sull’amministrazione della diocesi, ma ben poco sull’identificazione della gente con la chiesa cittadina. Spero di andare al di là di queste indagini e di presentare i vescovi, le cattedrali, il clero, e l’organizzazione parrocchiale come lo sfondo del mondo religioso cittadino. Sono particolarmente interessato ai modi con i quali essi fornirono il contesto per la nascita e lo sviluppo dei primi comuni, politicamente, culturalmente e spiritualmente. L’ascesa dei comuni presupponeva la formazione di associazioni volontarie, in particolare le associazioni religiose che crebbero nella cultura della penitenza, popolata dai conversi – laici penitenti, spesso sposati - che

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spontaneamente scelsero di vivere una vita di moderato ascetismo, pur rimanendo nel mondo. Il capitolo due tratta di questo movimento e delle sue forme. Il capitolo si basa sul noto lavoro di Fr. Giles Gérard Meersseman, con l’aggiunta, solo di tanto in tanto, di nuovi elementi tratti da fonti manoscritte. I conversi iniziarono già ad unirsi in gruppi alla metà del secolo, prima di ricevere una “regola” nel 1210. Le loro società e confraternite fornirono un modello per altre associazioni volontarie, specialmente per quelle che avrebbero dato origine alle società di Popolo nell’età d’oro della democrazia comunale.

Il terzo capitolo si concentra sul comune stesso e sulla sua autocoscienza religiosa. La precoce democrazia dei comuni è fin troppo conosciuta per richiedere altri commenti. Recentemente, gli studiosi hanno rivalutato l’ideologia delle repubbliche medievali e scoperto una teoria politica di grande complessità, rispetto alla quale l' “umanesimo civico” del Rinascimento, appare piuttosto limitato e gerarchico. Ma anche gli apprezzamenti più evocativi della teoria politica comunale oscurano il suo carattere Cristiano. Le istituzioni ecclesiastiche e civili formarono un unico organismo comunale, e questo capitolo va inteso come complementare, non in contrasto, al primo capitolo. Gli stessi governi laici comunali amplificarono i loro aspetti “sacri”, associando le loro città ai santi patroni e, soprattutto nell’età del Popolo, adottando completamente il linguaggio, i riti e le forme religiose. Vescovo e comune, clero e laicato qualche volta furono in profondo disaccordo, ma vissero nello stesso spazio e condivisero la stessa cultura.

Il capitolo quattro valuta in quale modo le città usarono i riti per formare e “immaginare” se stesse. Molto è stato scritto sui rituali dell’Italia tardo medievale, ma non per quella del periodo precedente. Spero che questo capitolo apra la strada in questa direzione. Le processioni, le offerte di candele, il suono delle campane dominarono le espressioni rituali della vita

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pubblica nelle repubbliche italiane. Tali cerimonie reclamarono uno spazio pubblico per l’unità “naturale” della città, la famiglia, modellando l’ordinamento sociale dei quartieri, e infine dando un’identità alla città stessa. I rituali resero tangibili i modelli e ordinamenti della vita cittadina; attraverso questi, la città esprimeva la sua composizione, le sue fonti di autorità e potere, i suoi limiti.

La religiosità cittadina diede vita ad un peculiare tipo di santità. L’ultimo capitolo della Parte 1 si concentra sulla caratteristica spirituale più distintiva dei comuni, i santi laici. Anche la santità medievale è stata oggetto di molti studi storici e antropologici negli ultimi anni. In questo modo, anche il contesto cittadino dei santi medievali sta ricevendo l’attenzione che merita. Ancora oggi, la figura imponente di San Francesco - ed il suo ordine - dominano talmente il paesaggio, da farci dimenticare che egli personificò uno stile comune di santità laica. Gli uomini e le donne sante delle città meritano una descrizione a parte, dal momento che essi rappresentano la santità venerata dai loro contemporanei. I santi non sono una controfigura della normale religiosità laica. In primo luogo essi erano santi, e dunque figure eccezionali. Non c’è dubbio che una certa, più o meno proporzionata, percentuale della popolazione non fosse pia e che molti fossero addirittura indifferenti. In secondo luogo, con un paio di eccezioni, i santi furono molto influenzati dal tradizionale ascetismo monastico e molto distanti da molti aspetti della vita normale, come i bambini e il matrimonio. Le eccezioni riguardano san Facio di Cremona, san Pietro Pettinaio di Siena, e sant'Omobono di Cremona; pur essendo asceti, essi non divennero penitenti a tempo pieno. I santi laici furono soprattutto buoni vicini, eccezionali soprattutto per l’intensità con cui vissero la comune religiosità. Le sante donne non entrarono nei chiostri o non si unirono a ordini religiosi organizzati. Gli uomini praticarono professioni mondane o si dedicarono ad opere caritatevoli. Anche gli eremiti, come san Giovanni Buono di Mantova

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e san Galgano di Siena, non smisero mai di far parte del tessuto cittadino. I loro vicini reagirono di fronte a questi importanti individui "canonizzandoli", cioè, pregando per loro dopo la morte e aspettandosi miracoli. Le città incoraggiarono i loro culti, erigendo santuari e favorendone la devozione. A volte i devoti interpellarono il papato per avere il riconoscimento di un santo, ma questo non era né necessario né comune. Una rete di santuari locali impose una sovrapposizione “carismatica” sulla geografia religiosa delle istituzioni civiche ed ecclesiastiche. Il santo, vivendo a casa o soprannaturalmente presente nel suo santuario, divenne una componente fissa della geografia religiosa cittadina.

La parte 1 di questo libro si basa molto sugli statuti cittadini ed ecclesiastici, elenchi di decime, contenziosi giudiziari, e agiografie. Ho usato studi sul significato dei nomi che gli italiani davano ai loro bambini, come quelli relativi alla popolarità relativa dei santi patroni, ogni qualvolta erano disponibili, anche se soprattutto l'ho fatto in mancanza di meglio, vista la scarsità di documentazione sulle istituzioni e gli atteggiamenti religiosi. La trasposizione dai testi giuridici e amministrativi alle realtà vissute, e dai comuni luoghi agiografici alle persone reali, è irta di insidie. Comunque, anche se particolari santi non compirono i prodigi attribuiti loro, i loro biografi dovevano assimilare i santi ai modi convenzionali della santità. E quello è esattamente il nostro soggetto. Inoltre, enfatizzando il miracoloso, i biografi non poterono nascondere la convenzionalità che raccomandava i santi a coloro che li canonizzavano. Nei testi giuridici, una società spesso parla a se stessa di ideali e paure condivise.

The Pennsylvania State University A.T. University Park, Pennsylvania 2005

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Augustine Thompson, O. P.

LE CITTÀ DI DIO

La religione dei comuni italiani 1125-1325

Parte Prima

La Citade Sancta

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CAPITOLO PRIMO

LA CHIESA MADRE

In un sermone sull’Annunciazione, il predicatore domenicano Bartolomeo di Braganza, più tardi vescovo di Vicenza, divagò e lodò le città natali, per quanto piccole fossero. Egli contrappose la piccola Nazareth di Cristo alle grandi città che aveva visitato. “Era stato a Parigi, poi giunse a Bologna, poi andò a Roma, e infine fu inviato a Gerusalemme. Ma in questa festa, il Figlio di Dio, attraverso Gabriele, ci insegna che dovremmo glorificare la nostra città più di tutte le altre. Dio nel Vangelo ci dice: “Andate e sedetevi nel posto più basso!”. Bartolomeo aveva ragione. Per un italiano del XIII secolo, nessun posto poteva essere paragonato al luogo di nascita, quantunque umile. La città natale era di per sé sacra. Non che maestosi edifici, possenti mura, un vivace commercio, un potente esercito e una splendida posizione non contassero. Tanto meglio! Le Laudes Civitatum del XII e XIII secolo, poemi che esaltavano le città italiane, ci dicono quanto i cittadini ne glorificassero la maggior parte: ampie e numerose chiese, famosi vescovi, tombe di potenti santi, e grandi spettacoli pubblici. Questi testimoniavano la gloria delle città, l’orgoglio dei cittadini. Le chiese più erano imponenti, e meglio era, così come, per i santi, la fama internazionale superava di gran lunga la mera devozione locale. Il frate francescano Salimbene di Parma visitò i monaci

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benedettini neri di Cluny nel 1247. Egli commentò, con dispiacere, che i Benedettini francesi avessero offuscato i loro fratelli in Italia: essi avevano sia la chiesa che il monastero più grande in Europa.

IL CENTRO DI CULTO

La città: la chiesa. La chiesa: il vescovado. Quando le città italiane del nord e del centro si liberarono del controllo imperiale e stabilirono la loro originale forma di governo, il comune, la parola che essi usarono per definire la città (civitas-citade) esprimeva l’idea che essa fosse la sede di un vescovo. Avere un vescovo significava essere completi come chiesa, come città. L’autorità del comune e del suo vescovo si estendeva insieme nel contado, cioè nella campagna. Le autorità cittadine di Parma usavano le parole

episcopatus (vescovado) e civitas (città) come sinonimi nel giuramento del

loro podestà, nelle leggi e negli statuti. In senso stretto, l’episcopatus, la sede del vescovo, era la sua cattedrale. Lì si svolgevano le splendide pubbliche cerimonie e i riti amati dai poeti. Le grandi liturgie episcopali la resero l’Ecclesia Matrix, la Chiesa Madre della diocesi. A Bergamo nel 1187, durante un’inchiesta per identificare la vera l’Ecclesia Matrix della città, il canonico di san Vincenzo Oberto di Mapello spiegò che nella sua chiesa: “Il vescovo è eletto, il santo crisma è consacrato, le ordinazioni hanno luogo, gli scrutini sono compiuti, e le penitenze pubbliche sono date.” Il suo amico sacrista, Don Lanfranco di Monasterolo, aggiunse che san Vincenzo era anche il luogo per i battesimi, e più malauguratamente, per le scomuniche. Il battesimo rendeva i laici Cristiani e l’ordinazione creava il clero. Entrambi gli ordini di persone, clero e laicato, erano nati presso la Chiesa Madre, il grembo della loro città. Su questi riti presiedeva il vescovo, il pastore della chiesa cittadina.

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La cattedrale forniva il modello per il resto della diocesi. Chiunque avrebbe potuto identificare una chiesa senese, quantunque lontana nella campagna, in quanto essa modellava le sue cerimonie e culti su quelli della cattedrale della Gloriosa Vergine. Il clero di Piacenza era d’accordo: i riti piacentini identificavano una chiesa piacentina. La conformità alle tradizioni rituali della cattedrale era una regola antica, sancita dal diritto canonico. Il villaggio di san Cesario apparteneva a Bologna o Modena? Bisogna solo controllare i libri liturgici della parrocchia: la festa di san Petronio superava in grado quella di san Geminiano di Modena. Il luogo era bolognese. La liturgia, più della geografia, delineava la campagna. Nel 1123, a Piacenza, il vescovo Arduino, apparentemente per la prima volta, rese la sua cattedrale l’unica pieve (chiesa battesimale) per l’intera città. Egli ordinò che le congregazioni delle diciotto cappelle urbane e delle sette chiese suburbane, da quel momento in poi, presenziassero alla vigilia Pasquale e ai suoi battesimi presso il duomo. Questo portò effettivamente alla conclusione, per le pievi suburbane almeno, della pratica più consueta di una pieve: l’amministrazione del battesimo. Il vescovo di Bergamo, Lanfranco Civola, provò anche, qualche tempo dopo, a concentrare le funzioni pastorali nella sua chiesa cattedrale. Egli provò a subordinare le quattro cappelle suburbane dipendenti dalla chiesa di sant’Alessandro alla cattedrale di san Vincenzo. Il risultato fu che, dentro e fuori le mura, tutti frequentavano duomo nelle feste più importanti. Nel corso del XIII secolo, tuttavia, la chiesa collegiata di santa Maria Maggiore, “la Cappella della Città”, ancora rivaleggiava con la cattedrale di san Vincenzo come centro religioso della città e della diocesi. Era veramente insolito in una data così tarda. Nel 1136, il vescovo di Ferrara, Landolfo, celebrò la consacrazione della sua nuova cattedrale - la cui magnifica facciata ancora incanta i visitatori- emanando questo editto: “Nessuno, sia in città che nel suburbio, avrà il coraggio di battezzare, di cresimare, di dare penitenza pubblica o approvare testamenti”, senza la

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volontà dei canonici della cattedrale. Così fece centralizzare i riti del battesimo, penitenza e morte nella sua nuova cattedrale e iniziò lo spostamento delle vecchie chiese battesimali nei sobborghi di Ferrara. Durante i decenni che seguirono, i preti ferraresi, come Don Giovanni di san Marco di Fossanova nel 1143, avrebbero ancora portato occasionalmente i neonati dei loro parrocchiani alla vecchia cattedrale di san Giorgio, per gli scrutini durante la Quaresima e per il battesimo a Pasqua. Il vescovo Landolfo ammise qualche eccezione solo come gesto di rispetto verso la vecchia chiesa, dove, dopotutto, egli viveva ancora. Con il Duecento, tuttavia, i grandi riti del battesimo divennero monopolio di un unico luogo, la sua nuova santa Maria, la Chiesa Madre di Ferrara.

I canonici della cattedrale di Ferrara rivendicarono con zelo la loro nuova competenza esclusiva sul battesimo. Nel 1211, i sacerdoti di santa Maria In Vado, una vecchia chiesa battesimale, iniziarono nuovamente a impartire il battesimo a Pasqua. Precedentemente si erano adattati alla nuova situazione ed avevano presenziato, presso la nuova cattedrale, ai battesimi e alle più importanti feste dell’anno ecclesiastico. Ritualmente, la loro ripresa dei battesimi li mise in concorrenza con la cattedrale. Sembra che la loro scusa per ricominciare i battesimi fosse il quarantesimo anniversario del miracolo eucaristico che si supponeva fosse avvenuto nella loro chiesa. Ma i miracoli non contavano contro l’Ecclesia Matrix in questa controversia. Il tribunale ordinò che i preti di santa Maria in Vado desistessero e ritornassero alla cattedrale, sotto pena della scomunica. A Bergamo, l’antica chiesa collegiata di sant’Alessandro condivise i diritti battesimali con la cattedrale di san Vincenzo. Poi, durante gli anni ’80 del secolo XII, il clero della cattedrale andò in tribunale contro sant’Alessandro per rivendicare il diritto esclusivo al titolo di Ecclesia Matrix. Il cardinale Adelardo di san Marcello, legato di papa Urbano III, giudicò la causa. Il 23 dicembre del 1189, egli risolse la disputa a favore della cattedrale e unì i due gruppi del clero in un unico corpo.

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La cattedrale divenne l’unico centro religioso della città. Come nel rituale, così nella legge civile. Nel 1224, Volterra promulgò nuovi statuti e così decretò riguardo alla propria cattedrale: “poiché la chiesa è il capo e l’autorità per tutta la città di Volterra e il suo distretto, ne consegue che, per l’onore della Beata Vergine, della città e del distretto del Comune di Volterra, noi dovremo per prima cosa trattare le questioni ecclesiastiche in queste costituzioni.” Essi non indugiarono molto sugli statuti della cattedrale, ma il punto di vista era stato espresso. La cattedrale divenne prima in autorità e onore. Quasi ovunque, nel corso del XIII secolo, la concentrazione dei principali riti religiosi nella cattedrale era stata completata. Questo consolidamento del rituale e della vita sacramentale presso la cattedrale diede al vescovo l’esclusiva responsabilità relativa alla cura delle anime nella sua città. Si potrebbe leggere questo come imperialismo episcopale, con i vescovi che cercano di riacquistare nella sfera spirituale l’autorità civile che stavano perdendo in favore del comune. Ma l’identificazione della chiesa e della città creò il consolidamento secolare del comune e il consolidamento spirituale del vescovo, due facce della stessa medaglia.

La città era un’unica entità sacra. Il vescovo era il suo pastore, la sua cattedrale era la chiesa parrocchiale: la casa (duomo) della città. Nessun governo comunale mise mai in dubbio questo. A Bologna, nel 1222, san Francesco D’Assisi tenne il suo famoso sermone ad una folla gremita nella piazza del comune. Il duomo di Bologna, san Pietro, si trovava a pochi isolati di distanza, nella sua propria piazza. Questa separazione dello spazio era precoce. Fino alla fine del XIII secolo, quando la maggior parte delle città aveva completato i propri palazzi comunali, la piazza del duomo e la piazza del comune erano la stessa cosa. La piazza del duomo era una zona privilegiata, diversa da tutte le altre. Gli edifici che la costeggiavano, a volte anche piccole chiese, furono rimosse a spese della città, per aumentarne le

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dimensioni e la bellezza. Quando la demolizione coinvolgeva una vecchia chiesa, tuttavia, la città erigeva una croce sul posto per ricordare ai passati che stavano calcando una terra consacrata. A Parma e a Pisa, il duomo e la sua piazza erano entità giuridiche, con confini attentamente definiti, protetti da leggi speciali contro violenze e insulti. A Modena, un bando perpetuo puniva coloro che avevano profanato il duomo o la sua piazza. Il giuramento d’ufficio del podestà senese, prima di tutto, lo impegnava a proteggere fisicamente e giuridicamente gli spazi religiosi e le istituzioni della città, soprattutto il duomo della Gloriosa Vergine. Quando si verificava un oltraggio nel centro di culto, la reazione poteva essere viscerale e violenta. A Bologna, nel 1262, dei ladri portarono via soldi e una piastra dalla chiesa, uccidendo Don Enrico, il sagrestano di san Pietro, e suo nipote Bernardino. I sette responsabili furono arrestati mentre tentavano una fuga dal tetto. I cittadini gettarono un malfattore dalla cima del palazzo episcopale; quattro furono squartati (stasinati) nella piazza. I due rimanenti fuggirono di notte dalla prigione. L’uomo posto alla loro custodia, un servitore del vescovo, venne torturato e morì sotto tortura. Il luogo del crimine, più che le sue vittime, determinò questo selvaggio castigo.

Come la maggior parte delle città, Padova fissò pesanti multe per tenere il suo centro di culto puro, pulito da residui maleodoranti. In altre città, il vescovo e il comune collaborarono ed assunsero un custode per pattugliare l’area e pulire l’immondizia. Nel 1277, Brescia assunse un vir religious per mantenere la chiesa di san Pietro pulita. Questa città vincolò il podestà sotto giuramento ad impedire che gli scarti di pergamena fossero gettati dalle finestre degli uffici comunali sul duomo. Egli avrebbe potuto multare gli sporcaccioni fino a 40 soldi. Le autorità cittadine della piccola Biella, vicino Vercelli, protessero la dignità del loro centro religioso con un vigore eguale a quello dei grandi comuni. Nel 1245, imposero una multa di 22 soldi a chiunque avesse osato scalare la facciata di una chiesa della città - si possono

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immaginare i giovani ragazzi! - a meno che, naturalmente, lo scalatore non stesse facendo delle riparazioni. Non in modo atipico, Biella escluse i giocatori d’azzardo e le prostitute dal suo centro di culto. La città impedì severamente le attività indecenti, specialmente le battaglie di pietre tra gruppi di giovani, a causa dei possibili danni ai preziosi monumenti cittadini. Le città cercarono, in vari modi, di proteggere la dignità della loro Chiesa Madre. Alla fine del secolo, l’arcivescovo del duomo di Modena fece una petizione alla città per chiedere che fossero acquistati nuovi abiti per Antonio, il poveretto incaricato di spazzare, accendere le luci e agire da sorvegliante serale della cappella di san Geminiano nel duomo. La città già stava provvedendo per altri due custodi regolari affinchè fossero decentemente vestiti, “per l’onore di san Geminiano” e, naturalmente, per l’onore di Modena. Aggiunsero quindi felicemente Antonio alla loro sovvenzione.

La cattedrale apparteneva tanto alla città quanto al vescovo. I comuni monopolizzarono la sua costruzione, ricostruzione e abbellimento. Nel 1267, le autorità cittadine di Siena organizzarono l’Opera del duomo, un ufficio responsabile della manutenzione materiale della loro amata santa Maria. Dopo aver finanziato la lampada votiva cittadina davanti all’altare di Maria, le autorità stabilirono gli uffici, i giuramenti d’ufficio, i finanziamenti e la responsabilità dell’istituzione. Nel corso degli anni ’90 del secolo XIII, gli ufficiali dell’Opera furono nominati direttamente dai Nove, il comitato esecutivo del comune. Due volte l’anno essi requisivano tutti gli animali da soma in città per trasportare marmo per la costruzione del duomo. La città provvide al cibo per i lavoratori e alla protezione per gli animali da soma. Altre città si comportarono similmente. Nel 1264, Vicenza assunse un supervisore per la sua cattedrale e stabilì un sussidio annuale per la sua decorazione e manutenzione. A partire dal 1286, Pisa mise in piedi, per la cattedrale di santa Maria Maggiore e la sua già famosa torre, un sistema

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ancora di più ampia portata rispetto a quello di Siena. Quando la città nominò Giovanni Scorcialupo di Ser Ranieri a capo dell’Opera, lo fornì di un segretario, un avvocato, tre servitori, due cavalli, e una casa. Era così importante il suo servizio che la città gli vietò di impegnarsi in qualsiasi altro lavoro o attività durante il suo mandato. Le città si contesero gli architetti, pittori e scultori più famosi. Modena ebbe la fortuna di commissionare al famoso Tommaso di Fredo la scultura del pulpito della cattedrale. Pisa vantò uno dei più grandi artisti del periodo, Giovanni di Nicola Pisano. La città si assicurò i suoi servizi come capomaestro di santa Maria, concedendogli l’esenzione fiscale e la promessa di poter licenziare qualunque membro del personale dell’Opera con il quale non riuscisse ad andare d’accordo. Come simbolo della città, il duomo divenne il primo destinatario della carità municipale. Nel 1262, Siena limitò le elemosine ai poveri a soli 10d. al giorno, in questo modo le autorità poterono deviare fondi per acquistare calcestruzzo per la cattedrale. Esse accordarono all’Opera di santa Maria i diritti di foraggio nei boschi della città e assunsero un sorvegliante serale per il cantiere. A Bologna un fuoco distrusse la vecchia cattedrale nel 1131. Quando il vescovo non aveva ancora cominciato la ricostruzione, circa 34 anni più tardi, le autorità cittadine presero il controllo del progetto. Essi completarono la nuova costruzione in appena quattro anni. Le cronache e la legislazione cittadina ricordano la sollecitudine di Bologna per la sua Chiesa Madre. Quando le volte della cattedrale crollarono nel giorno di Natale del 1228, le autorità cittadine ingaggiarono il Maestro Ventura per ripristinarle, un compito che egli completò nel 1232. Nel 1250 stanziarono 15 lire bon. – autorizzando un aumento dei costi fino a 10 lire - affinchè il nuovo

capomaestro Alberto potesse acquistare marmo per abbellire il duomo,

nonché la sua torre e il chiostro. Il campanile ebbe un tetto in piombo nel 1254. Forse questi progetti furono eccessivi per le capacità organizzative dell’intraprendente Alberto. Nel 1259, la città ordinò la restituzione di tutti i

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fondi non spesi entro due mesi dalla promulgazione dello statuto e commissionò una revisione. La loro preoccupazione era di impiegare rapidamente gli stanziamenti. La legislazione successiva non si dimostrò riluttante a elargire fondi per la Chiesa Madre. Nel 1260, la città affidò ad Alberto il compito di rifare la piazza che circondava il battistero di san Giovanni, che stava direttamente davanti al portale occidentale della cattedrale, per consentire maggiore luce e mostrare la facciata. Una volta che questa costruzione fu finita, mantennero Alberto sul libro paga della città per provvedere a fornire manutenzione e riparazioni.

Comunque, la cura del centro rituale era una questione che riguardava tutti, non solo le autorità cittadine, e i privati cittadini raccoglievano gratitudine e riconoscimento pubblico contribuendo ai lavori. Due donne di Orvieto, Milita di Monte Amiata e la sua amica Giulitta, si guadagnarono la reputazione di grandi patrone del duomo procurando un tetto nuovo. Come segno di gratitudine, la confraternita del clero della cattedrale incluse i loro nomi nelle pubbliche preghiere. Immaginate l’orrore del vescovo Riccardo (1169-1200) quando scoprì che entrambe le donne erano attive Catare e che la loro buona cittadinanza aveva fatto chiudere gli occhi di fronte alle loro opinioni eterodosse. Se uno è un buon cittadino di Orvieto, allora è anche un buon Cattolico, il vescovo aveva pensato. Beh, forse no. Alla fine la loro cittadinanza contò più per le persone delle idiosincrasie teologiche. Le due donne avevano dimostrato di essere orgogliose della città e avevano speso il loro denaro per l’onore di Orvieto.

All’inizio del XIII secolo, Don Guidolino di Enzola, un ricco cittadino di Parma, si ritirò in città così da poter vivere vicino alla cattedrale e al suo splendido battistero. Salimbene lo aveva visto seduto nella piazza “migliaia di volte”, davanti alla cattedrale della Beata Vergine:

Ogni giorno ascoltava la messa nella cattedrale e, quando poteva, gli Uffici Divini di giorno e di sera. E quando non assisteva agli uffici ecclesiastici,

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egli sedeva con i suoi vicini sotto il portico della comunità, vicino al palazzo del vescovo, parlando di Dio e ascoltando gli altri parlare di Lui. Egli inoltre era solito fermare i ragazzi della città che gettavano pietre contro il battistero e la cattedrale, distruggendo i bassorilievi e gli affreschi. Ogniqualvolta vedeva un ragazzo farlo, lo avrebbe inseguito e frustato con la sua cintura, agendo come se fosse il custode ufficiale, sebbene lo facesse puramente per zelo nei confronti di Dio e per amore divino... Una volta alla settimana preparava una cena caritatevole, a base di pane, fagioli e vino, nella strada vicino casa sua, per tutti i poveri della città che desideravano andare.1

La religiosità di Don Guidolino e l’orgoglio civico erano una cosa sola. Azioni da parte del comune stesso mostravano una simile unità. Quando il comune di Parma finanziò i restauri e la costruzione del proprio duomo, le autorità si preoccuparono di celebrarlo con una targa commemorativa. Tali benefici abbellivano la chiesa e di riflesso davano onore al comune.

LA CASA DELLA CITTÀ

Tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII, prima della nascita dei primi edifici pubblici comunali, la cattedrale serviva come luogo per le più importanti funzioni civiche. Ciò era naturale dato che la navata, prima della moderna invenzione delle panche, era certamente lo spazio interno più largo della città. Là, nella navata, i consoli e gli altri ufficiali di governo giuravano; il vescovo e il clero benedicevano le bandiere e il carro di battaglia, il

carroccio. A Brescia, il carroccio stesso era custodito lì, contro un pilastro

della navata, assicurato da catene. Le assemblee cittadine vi deliberavano e proclamavano ufficialmente i loro trattati con altri comuni. La consacrazione

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di un altare nel duomo poteva condurre importanti personaggi provenienti da lontano, rafforzando la statura della città. A Bologna, nel 1261, quando il cardinale Ottaviano consacrò il nuovo altare di san Pietro, gli arcivescovi di Ravenna e di Bari e non meno di altri tredici vescovi lo assistettero. L’installazione di porte monumentali, per l’uso esclusivo nelle cerimonie civiche, rese visibile il collegamento fra comune e cattedrale. Una tale porta esiste ancora oggi sul fianco del duomo di Modena, accanto ad una più piccola per uso ordinario. Questa si apre sul lato meridionale della Piazza Comunale. Essa veniva aperta soltanto una volta l’anno, quando gli ufficiali della città entravano in processione per offrire ceri al patrono della città, san Geminiano, presso la sua tomba altare nella cripta. La cattedrale di Ferrara aveva una simile porta, la porta dei Mesi, di cui oggi rimangono soltanto vestigia. Nel 1222, i bolognesi costruirono la loro porta cerimoniale sul fianco meridionale di san Pietro, la famosa Porta dei Leoni. Purtroppo, rimangono solo i leoni scolpiti da Maestro Ventura, ora esposti all’interno delle porte occidentali dell’edificio.

La navata apparteneva a tutte le persone della città, non solo ai suoi governanti. Vari gruppi crearono i propri spazi semi privati, costruendo cappelle lungo le navate laterali e dotandole di altari. Il duomo di Bologna aveva almeno otto cappelle, ognuna dotata di un cappellano. Le cappelle si moltiplicarono nelle cattedrali e nelle chiese più grandi nel corso del Duecento. Città e corporazioni commerciali li costruirono; famiglie ricche li dotarono come sostituti delle vecchie cappelle gentilizie nelle loro proprie case. Questo segnala, forse, l’integrazione della vecchia aristocrazia nel nuovo regime repubblicano. Tali cappelle erano piccole chiese, separate dalla navata da una griglia di ferro o di legno, che le lasciava visibili dall’esterno. All’interno, i patroni si ritrovavano in uno spazio intimo, stando in piedi a pochi passi dall’altare. Ogni cappellano era obbligato a recitare l’Ufficio e la Messa, e in quell’epoca, in cui la Messa Parlata ancora non

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esisteva, egli la cantava. Qualche volta chi celebrava presso una delle cappelle avrebbe potuto sentirci la musica proveniente da altre parti dell’edificio. Se i celebranti avessero provato ad accordarsi l’un l’altro in volume, la mattina, la navata, si sarebbe presentata ai visitatori con una santa dissonanza.

Dopo i servizi mattutini, la navata ritornava al laicato. Era un posto naturale per condurre gli affari, almeno quando i servizi diurni non avevano luogo, mai di domenica e, almeno a Reggio Emilia, nemmeno di sabato. L’aspettativa di Faenza per questo tipo di affari nella navata era così importante che la città, nel 1195, aveva le sue unità di misura intagliate nella pietra e poste presso la porta della chiesa. Nel 1222, Volterra, sebbene non cercasse di evitare l’uso della cattedrale come mercato, spostò il legno immagazzinato nella cattedrale, di notte. Dalla metà del XIII secolo, voci sempre crescenti cominciarono ad esprimere preoccupazione circa il fatto che la compravendita e la vendita togliesse sacralità all’edificio. Reggio rimosse le sue misure ufficiali fuori nel cortile nel 1259. Parma fece lo stesso nel 1255, ponendo un freno allo stoccaggio nel duomo. Il clero tentò una azione simile a Ravenna, ordinando che il grano e gli animali non fossero lasciati a lungo nella chiesa maggiore. Ogni sacco di grano lasciato veniva confiscato. Nel 1262, la città di Bologna affidò ad Alberto il compito di controllare che il duomo, “il capo della città stessa”, non fosse usato come mercato e che né legno né grano venisse immagazzinato lì. Nondimeno, nessuna città del XIII secolo, oltre Bologna, tentò di chiudere i mercati nella navata. Questo aspetto apparteneva al laicato ed era un suo proprio uso. Quando, nel 1311, il consiglio provinciale di Ravenna tentò finalmente di porre fine ai mercati, alle assemblee pubbliche e ai processi secolari nelle chiese, i vescovi dovettero accettare di fare delle eccezioni in tempi di necessità, come in caso di guerra.

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A est della navata si trovava il coro, la parte della chiesa riservata al clero. Galvano Fiamma, un cronista contemporaneo, ci offre ampie descrizioni dell’interno di una grande chiesa di un ordine religioso del periodo comunale, sant’Eustorgio a Milano. Come in molte cattedrali, un tramezzo separava il coro, che apparteneva al clero (qui i frati domenicani), dalla navata, che apparteneva ai fedeli. In questa grande chiesa, il tramezzo era una struttura imponente, che prendeva la forma di un alto muro, sul quale si apriva una porta centrale, affiancata da due larghe finestre per la visione dell’elevazione dell’Ostia. I dipinti su di esso mostravano san Domenico che inviava i suoi confratelli a Milano. Un grande pulpito, per cantare il vangelo e predicare, sporgeva dal tramezzo sul lato nord. Il diacono vi accedeva con una scala dal coro. Il tramezzo aveva tre altari di navata collegati ad esso, per le messe meno solenni con i fedeli. Sopra la porta d’ingresso al coro, al centro del tramezzo, stava un grande crocifisso, che mostrava il sacrificio di Cristo. La Messa solenne sull’altare maggiore, appena visibile sotto la croce, attraverso la porta del tramezzo, rendeva quel sacrificio presente ogni giorno nel principale atto di culto della chiesa. Il coro di sant’Eustorgio conteneva ventotto stalli, quattordici su ogni lato rivolti verso il centro, per la recitazione dell’ufficio del clero. Durante i restauri del 1246, il priore, Pietro di Verona, sollevò l’altare maggiore all’estremità orientale del coro su vari gradini e l’abbellì con una fine pala d’altare che raffigurava san Giorgio; egli inoltre ripavimentò il coro e la navata. Dopo la morte di Pietro, il laicato della chiesa commissionò una nuova pala d’altare per mostrare il santo martire e decorò le mura della navata con un ciclo di affreschi che mostravano la sua vita. Anche in una chiesa conventuale, la navata rimaneva appannaggio speciale dei laici.

Un'altra disposizione usuale, soprattutto nelle chiese più grandi e nelle cattedrali, prevedeva un coro sopraelevato sulla cripta nell’estremità orientale. Questo era un modello vecchio e molto copiato, originario del

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restauro che Papa Gregorio aveva voluto a san Pietro a Roma. L’ingresso nella cripta avveniva scendendo una mezza rampa di scale; si poteva risalire al coro dalla mezza rampa nelle navate laterali. I visitatori possono vedere oggi una disposizione di questo tipo nella cattedrale di Fiesole. Le chiese monastiche più vecchie, come quella di san Miniato a Firenze, conservano una simile disposizione. Anche chiese più piccole, come la chiesa del Crocifisso, nel complesso di santo Stefano a Bologna, potevano avere questa disposizione. L’esempio più sorprendente oggi si trova nella cattedrale di Modena, dove gli arredi del coro del XIII secolo sono stati conservati intatti. C’era un muretto ad altezza delle ginocchia sormontato da graziose colonne accoppiate e un’architrave che racchiudeva il coro sopraelevato. Il vescovo Sicardo di Cremona, un commentatore della liturgia del XII secolo, amava specialmente l’idea di un divisorio di colonne accoppiate, come quelle a Modena. Queste colonne gli ricordavano le coppie di apostoli inviate a predicare, così come la separazione del clero e laicato ricordava le molte dimore nella casa di Dio Padre. Il colonnato di Modena, che si estende anche attraverso il parapetto anteriore del coro, serve meno a nascondere il coro che a delimitarne lo spazio. All’interno del coro, su ogni lato rivolto verso l’interno, ci sono gli stalli dei canonici. I canonici di più alta dignità avevano i loro posti sul lato nord, la direzione verso la quale il diacono cantava il Vangelo durante la Messa; quelli con maggiore anzianità trovavano assegnati loro posti più vicino alla navata centrale. Tuttavia il vescovo, quando presiedeva, aveva il suo seggio nel centro dell’abside ad est.

A Modena, dopo essere asceso al coro dalle scale laterali, il visitatore entra in un piano superiore delle navate laterali, con un accesso esterno nelle cappelle private e una vista interna verso l’altare maggiore nel coro. Quello di Modena è sicuramente un altare maggiore che si staglia all’altezza del torace di un uomo medievale. Come gli antichi altari cristiani, questo altare è a forma tabulare, sgombro da pale d’altare dipinte o dossali. Nell’età

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comunale, i panni d’altare, i candelabri rimovibili e i reliquiari fornivano i paramenti. Durante la messa con il vescovo, chiamata Messa Pontificale, la decorazione più squisita avrebbe dovuto essere il grande Messale Pontificale di Modena, che può essere ancora visto nella Biblioteca Palatina di Parma. I secoli d’uso del libro possono essere evinti dalle macchie di grasso presenti su ogni foglio, negli angoli in basso, residui di molti anni di dita episcopali. Il libro è grande, 225 x 300 mm, riccamente illustrato, di mano particolarmente fine, chiaramente una mano del tardo XII secolo. La sua leggibilità e l’altezza dell’altare devono essere stati una benedizione per vescovi affetti da presbiopia. Il libro stesso è un monumento dell’orgoglio civico: la grande miniatura mette in evidenza la Messa del patrono della città, san Geminiano; essa è molto grande e più splendida delle miniature del Natale e della Pasqua. Dietro l’altare maggiore si trova il seggio del vescovo, che si eleva al di sopra del coro e della navata centrale. Sebbene il vescovo sul suo seggio non fosse nascosto a quelli nella navata, i canonici nel coro, sopraelevandosi al di sopra delle teste dei fedeli, non sarebbero stati visibili durante il loro canto dell’ufficio e messa solenne. A meno che non avessero salito le scale del coro, i fedeli avrebbero vissuto la liturgia pontificale principalmente attraverso le melodie del canto e l’evocativo odore dell’incenso che brucia.

La cattedrale nel suo complesso ricordava al vescovo Sicardo tre realtà. Era un modello del tabernacolo di Mosè, ove Dio andò a dimorare; era una presentazione dell’intero ordine del cosmo, la machina mundi. Le sue parti coordinate la rendevano una rappresentazione “dell’esercito del popolo di Dio”. Nel complesso, la cattedrale evidenziava gli ordini della chiesa, la società e il comune. I teologi medievali videro nella Ecclesia Matrix il modello della Gerusalemme celeste scesa sulla terra. Questa era la Casa di Dio, la Città Santa e la Porta del Paradiso.

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IL GREMBO DEL COMUNE

Nel 1187, quando a Don Lanfranco Mazzocchi, canonico della cattedrale di san Vincenzo a Bergamo, venne chiesto di spiegare la relazione della sua chiesa con il battistero di santa Maria, egli spiegò che le due erano una singola entità; e dal momento che i battesimi cittadini erano compiuti in questo, entrambe insieme formavano l’Ecclesia Matrix, la Chiesa Madre. Il battesimo, soprattutto, identificava la prima chiesa della città. Anche per gli italiani del XIII secolo, il cuore religioso del comune non era la cattedrale, ma il battistero. Nella sua Commedia, quando Dante incontra il suo antenato Cacciaguida nel Paradiso e parla con lui della loro città natale, il poeta si riferisce ai suoi compagni fiorentini come al “gregge di san Giovanni”, la prole del battistero della città:

“Ditemi dunque, cara mia primizia, quai fuor li vostri antichi, e quai fuor li anni

che si segnaro in vostra puerizia: ditemi dell’ovil di San Giovanni quanto era allora, e chi eran le genti

tra esso degne di più alti scanni.”2

L’attaccamento al battistero era quasi fisico, certamente esperienziale. Da piccolo, il francescano Salimbene sentì da suo padre, Guido di Adamo, come, quando la costruzione del nuovo battistero di Parma iniziò nel 1196, egli e altri uomini della città misero pietre nelle fondamenta come memoriali delle loro famiglie. Il progetto di costruzione fu lungo; il battistero aprì vent’anni più tardi per i battesimi Pasquali del 1216. Quelli che lo visitano oggi concorderanno nel dire che è valsa la pena aspettare. La casa di Fra Salimbene era proprio accanto alla porta. Nella sua cronaca, il frate registra

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orgogliosamente il proprio battesimo avvenuto lì, a Pasqua, nel 1221. L’attaccamento civico al battistero sopravvisse alla fine del Medioevo. Nel 1472, per esempio, i cittadini di Perugia sostennero i restauri e le riparazioni della loro cattedrale principalmente a causa del loro battesimo condiviso lì. Il monopolio della Chiesa Madre sui battesimi perdurò nel periodo moderno. Bologna, per esempio, non ebbe chiese battesimali nei suoi sobborghi fino al tardo XVII secolo. Fino alla metà del XX secolo, tutti i fiorentini ricevevano il battesimo presso il battistero cittadino di san Giovanni.

Il battesimo legava la persona ad un posto, il luogo del battesimo determinava molte responsabilità. Il battistero non era meramente il luogo dei battesimi. Altri servizi religiosi, pubblici e privati, avvenivano lì. Alla fine sostituì la cattedrale come luogo per conservare il carroccio e le bandiere militari della città - e coloro che venivano catturati come nemici in battaglia. Il battistero era il santuario della Repubblica. Nel 1262, dopo che Vicenza si liberò dalla tirannia di Ezzelino da Romano, uno dei primi atti del governo repubblicano restaurato fu quello di commissionare la costruzione di un nuovo battistero. Lo collocarono nella piazza tra la cattedrale di santa Maria e il palazzo episcopale. Lo spazio intorno al battistero era sacro: nessuna esecuzione poteva avvenire lì. Affreschi all’esterno del battistero, come a Verona, commemoravano importanti, e qualche volta spaventosi, eventi della storia cittadina. Privati cittadini potevano decorare i muri interni con dipinti di ex voto che commemoravano preghiere adempiute. Tali ex voto possono ancora essere visti nel battistero di Parma. I Medici, principi del Rinascimento fiorentino, riconobbero che il loro san Giovanni era un sacrario repubblicano: prendendo il potere, essi ripulirono il battistero dei suoi ornamenti comunali, rimuovendo e distruggendo le immagini votive, le bandiere, le candele offerte dal regime repubblicano. Questi manufatti erano

cose pubbliche, simbolo di antiche vittorie e dell’espansione della città e

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Satana odiava il fonte battesimale ed era più probabile che esso venisse attaccato rispetto ad ogni altro oggetto sacro. Le acque del fonte battesimale erano potenti. Imponenti coperte le proteggevano affinchè non venissero usate per qualche magia. Ogni italiano, ricco o povero, era rinato come Cristiano in quella medesima acqua, la quale, dopo essere stata benedetta a Pasqua, veniva usata per i battesimi nell’intero anno. Solo in casi urgenti, il ministro poteva usare altra acqua – profana - per il battesimo. Gli italiani facevano i loro più sacri voti sulle acque del fonte, come nei tempi di invasione, quando il comune era minacciato. Il cronista Dino Compagni si rivolse ai suoi amici fiorentini davanti al fonte del loro battistero nel 1301: “Cari e capaci cittadini, che avete ognuno di voi ricevuto il santo battesimo da questo fonte, forze di ragione e vincoli vi costringono ad amarvi come fratelli; voi possedete anche la più nobile città del mondo…. Su questo sacro fonte, donde riceveste il sacro battesimo, giurate un’armoniosa e perfetta pace tra di voi, così che il signore che ci sta attaccando trovi tutti i cittadini uniti”. A Parma, quando Berardo Oliviero di Adamo morì nella battaglia di san Cesario nel 1229, combattendo contro gli odiati bolognesi, il Comune non poteva pensare ad un più grande onore di quello di porre il suo corpo presso il fonte battesimale. Quando l’esiliato Dante immaginò il ritorno in trionfo a Firenze e l’acclamazione come cittadino modello e poeta onorato, egli immaginò che l’accoglienza sarebbe avvenuta nel suo amato san Giovanni. L’identificazione italiana del battistero con la città salvò le massicce strutture comunali dall’abbattimento successivo al Concilio di Trento, quando le chiese battesimali proliferarono e il battesimo privato divenne la norma cattolica.

Molte città italiane ereditarono antichi battisteri e continuarono a usarli. La medievale Ravenna usò il battistero Neroniano, che si trovava nella usuale posizione dell’antico battistero, fuori dal transetto nord della cattedrale; il vecchio battistero Ariano era stato da tempo trasformato in una chiesa.

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