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I comuni italiani, così come la Chiesa Madre e le pie associazioni dei fedeli, crearono una propria geografia sacra. Gli studiosi, occasionalmente, hanno sottolineato la natura profondamente religiosa delle repubbliche italiane, ma in quanto organismi religiosi, esse rimangono un mondo largamente inesplorato. Ciononostante, gli studiosi preferiscono, quasi esclusivamente, studiarle quali primi esempi, in Italia, di “stati” laici, non governati dall’impero. Questi governi subirono un grande cambiamento nel tempo, che a sua volta influenzò la struttura religiosa. Ogni comune ebbe una storia unica, ma tutti condivisero simili stadi di sviluppo politico. Quando le città si liberarono dal controllo imperiale, nacquero regimi repubblicani, ma oligarchici. Questo accadeva agli inizi del XII secolo; a Bologna, per esempio, il governo dei conti imperiali venne meno nel 1113- 1114. Le strutture politiche repubblicane, che sostituirono il governo imperiale, furono discontinue da esso, dando origine a creazioni nuove. Comunemente, due o più consoli presiedevano l’amministrazione cittadina, nella quale un gruppo ristretto di ricchi mercanti e di giudici dominava la vita politica, attraverso un certo numero di assemblee o consigli. I sovrani tedeschi non riconobbero formalmente l’indipendenza de facto delle città o la loro legittimità fino alla Pace di Costanza nel 1183, e anche allora lo fecero a malincuore. La dilagante faziosità costrinse le città a sperimentare un governo con un singolo dirigente (podestà), solitamente scelto per un breve periodo, di sei mesi o un anno. Bologna scelse il suo primo podestà nel 1147 e rese tale sistema permanente nel 1175. Il podestà fu l’unico dirigente cittadino, nella speranza che la sua mancanza di legami con il posto potesse isolarlo da faziosità e favoritismi. La partecipazione popolare

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al governo rimase molto limitata fino alle cosiddette rivoluzioni del Popolo, agli inizi del XIII secolo. Queste determinarono una graduale espansione della partecipazione mediante l’inclusione di varie corporazioni civiche nel governo. Gli italiani settentrionali costituirono tali corporazioni per scopi militari ed economici. Come un gruppo, essi formarono il Popolo, il quale, con le sue proprie assemblee, prese posto accanto ai più vecchi organi di governo cittadino. A Bologna, le corporazioni del Popolo elessero un “Capitano del Popolo” come loro capo per la prima volta nel 1223. Qui, come altrove, questo ufficiale prese posto accanto al podestà come suo secondo. Come i comuni, anche le corporazioni del Popolo ripresero poco o nulla delle strutture politiche precedenti.

IL PARADISO E I PRIMI COMUNI

Ma partiamo dall’inizio. Quando le città italiane si liberarono dal controllo imperiale, agli inizi del XII secolo, alcuni vescovi, nominati dagli imperatori tedeschi resistettero. Più comunemente, le città e i vescovi diedero vita ad una relazione collaborativa. Qualcuno, come il vescovo Ubaldo di Gubbio, difese la libertà del luogo contro gli “stranieri”, come egli fece con l’imperatore Federico Barbarossa. I cittadini di Gubbio si aspettavano che il loro vescovo, come un buon cittadino del comune, sollevasse la sua spada spirituale a difesa della loro città. In un’occasione, durante un conflitto locale, il vescovo Ubaldo si rifiutò di scomunicare, su richiesta del comune, i nemici cittadini, e le autorità cittadine organizzarono un boicottaggio. Scoperto che egli non poteva celebrare la Messa, dal momento che nessuno era venuto a servirlo, il vescovo, “con spirito sereno”, si tolse i paramenti, salì sul pulpito, e predicò un “duro

sermone”5. Vi era un limite alla sua identificazione con la città; i cittadini

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rimasero impressionati. Conflitti del genere tra vescovo e comune potevano degenerare in violenza. A Piacenza, le autorità ecclesiastiche e secolari si scontrarono nel 1204, e il clero piacentino abbandonò la città per tre anni. A Bologna, nel 1193, dove il vescovo Girardo di Ghisello Scannabecchi era stato eletto dirigente cittadino, i quattro consoli del comune litigarono col vescovo-podestà. Una fazione si organizzò attorno al vescovo. Ben presto le fazioni comunali ed episcopali si riversarono nelle strade, incendiandosi la casa l’un l’altro. Il conflitto rappresentava una faziosità politica, non una lotta tra clero e laicato.

Altri vescovi furono meno restii nel cooperare. Il vescovo era l’unica figura che potesse rappresentare la società locale sia di fronte all’imperatore che al papa. Quando fu collaborativo, egli rappresentò il capo naturale dei primi comuni. Nel corso del XII secolo, i vescovi rimodellarono le loro residenze che iniziarono a chiamare palazzi. I primi governi comunali si riunivano in questi nuovi edifici piuttosto che costruirne di propri. In tal modo, i governi comunali svilupparono una prossimità fisica con la corte del vescovo, ovvero la curia. Per il teologo e giudice laico Albertano di Brescia, “sacro” e “secolare”, sebbene distinti in teoria, furono un tutt’uno. Al termine del governo imperiale, i canonici della cattedrale cominciarono ad eleggere uomini del posto per il vescovado. Tali vescovi - eletti appartenevano alla stessa classe sociale di coloro che avevano dominato la vita dei primi comuni; essi erano uomini del posto. L’elezione bolognese del vescovo Girardo all’ufficio comunale avvenne naturalmente. A Pisa e Milano, invece, emerse una compenetrazione delle funzioni ecclesiastiche e civiche che appare insolita in età post Gregoriana. Vescovi giudicarono casi civili, e tribunali cittadini presero decisioni in merito alle decime – senza tener conto del conflitto di giurisdizione. Anche nelle città in cui ci fu minore collaborazione rispetto a Milano e Pisa, l’uso dell’ordalia nei tribunali penali, una pratica abolita solamente nel 1215 dal Concilio Laterano,

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richiedeva la presenza dei vescovi per la benedizione del ferro caldo o dell’acqua fredda. La suddivisione delle funzioni ecclesiastiche e civili si sarebbe fatta attendere fino alla metà del 1200.

Fu solo a seguito di una rivolta che causò l’incendio degli uffici inquisitoriali a Parma, nel 1278, con conseguente interdetto papale, che la città adottò realmente una legislazione punitiva nei confronti del clero. Parma proibì regali quali donazioni di immobili ai chierici, sequestrò le proprietà di coloro che divennero chierici, e impose pene a coloro che osavano presentare casi civili presso tribunali ecclesiastici. Questa palese ostilità fu rara, e inusuale. Più facilmente, le autorità secolari ed ecclesiastiche cooperarono nel governo, per oltre la metà del XIII secolo. Nel 1237, il vescovo Francescano di Milano, Leo de’ Valvassori di Perego, rappresentò la città con l’imperatore Federico a Lodi. Durante lo stesso incontro, Piacenza fu rappresentata dal suo vescovo cistercense, Dom Egidio, e dal suo priore Domenicano, Fra Giacomo. Le città regolarmente coltivarono alleanze con importanti ecclesiastici, garantendo loro la cittadinanza, come fece Bologna col vescovo Tommaso di Imola nel 1254, e di nuovo col potente abate di Nonantola nel 1259. Nel 1254, il vescovo - eletto di Ravenna, Filippo, servì la sua città come podestà, promulgando statuti atti a garantire la pace interna. Filippo e la sua città collaborarono anche per la sua difesa: il vescovo fu responsabile del mantenimento della torre sopra Porta San Mama.

L’unità fu l’interesse principale della città e del vescovo. All’inizio del XIII secolo, il loro reciproco nemico, l’imperatore Federico II, cospirò per dividere comuni e vescovi. Nel 1219, egli confermò il diritto di Parma, sancito dalla Pace di Costanza, di abolire la giurisdizione temporale del suo vescovo, Obizzo Fieschi – che stava poi felicemente collaborando con il governo comunale. Il podestà Negro di Mariano accettò la provocazione ed espulse il vescovo. Come rappresaglia, il 25 Novembre 1220, un legato

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papale scomunicò il comune - con la calorosa approvazione dell’imperatore Federico, il quale era alla ricerca dell’incoronazione papale. L’anno seguente, il nuovo podestà, Torello di Strada giunse ad un accordo con il vescovo, il quale prevedeva, tra le altre cose, la restituzione delle proprietà episcopali, la promessa di affidare al vescovo il controllo sul clero e sulle decime, e la conferma della sua giurisdizione nelle aree disputate. Il vescovo acconsentì a che l’esercito avesse un libero passaggio nelle sue terre, che il comune ricevesse la metà delle ammende episcopali, e all’astensione da forme di ingerenza in casi di tutela. Tale divisione di giurisdizioni fu tipica dell’età dei comuni più tardi, sebbene qualche sovrapposizione rimase sempre.

Nel 1233, i nuovi statuti cittadini di Parma stabilirono che comune e vescovo agissero insieme nella mediazione dei conflitti. Sin dall’arrivo del movimento la Pace di Dio in Lombardia, durante il 1042, la pace possedette un valore sacro. Durante il periodo comunale, ecclesiastici e penitenti cercano di mantenere una situazione pacifica. Nel 1204 e nel 1207, Fra Alberto di Mantova predicò la pace e riconciliò le fazioni in lotta a Bologna, un compito ripreso nuovamente, nel corso degli anni ’30, dal Domenicano Guido di Brescia. Nel 1231, il Francescano Antonio di Padova associò la pacificazione alla cancellazione del debito, svuotando le prigioni padovane dei suoi poveri. Durante il movimento di rinascita conosciuto come l’Alleluia, nel 1233, i predicatori Domenicani e Francescani organizzarono una pacificazione tra le fazioni in lotta e le città in guerra. I vescovi e i governi comunali sostennero il tentativo e così il rituale religioso di pacificazione, il “Bacio della Pace”, entrò a far parte degli statuti cittadini. I predicatori pressarono le città affinchè istituissero leggi contro l’eresia, che entrambi combatterono come fonte di divisione e a protezione dell’ortodossia. Il mantenimento della pace, nel tardo XIII secolo, rimase la prerogativa di predicatori come Fra Lorenzo a Bologna

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nel 1287 e dei movimenti religiosi laici come i flagellanti nel 1260. Fino alla fine del periodo comunale, le città fecero affidamento sul proprio clero per gestire i giuramenti di pace e porre fine ai conflitti interni.

A partire dagli anni ’40 del secolo XIII, i governi civili svilupparono un’identità distinta, e i vescovi cominciarono a perdere il loro ruolo all’interno del governo comunale. Negli anni ’20 del secolo XIII, i veronesi bloccarono le richieste di convocazioni presso i tribunali episcopali, sebbene continuarono a rispettare le esenzioni clericali inviando casi di chierici accusati al vescovo. Dopo la metà del secolo, almeno nelle questioni giuridiche, la distinzione tra l’amministrazione civile ed ecclesiastica divenne chiara ed esplicita ovunque. Nel 1250, Bologna vietò il ricorso presso i tribunali episcopali in questioni secolari. Tuttavia, il comune continuò a convocare i chierici condannati dal tribunale episcopale in materia ecclesiastica. Gli interventi di Bologna definirono le differenti sfere d’autorità; essi non ridussero il potere episcopale di per sé. Teoricamente, i comuni rigettarono, rigorosamente, la richiesta ecclesiastica che i chierici accusati fossero soggetti unicamente ai tribunali della chiesa. In pratica, i vescovi cedettero l’autorità su questi casi al comune ed elaborarono accordi. A Padova, il vescovo acconsentì a ridurre allo stato laico i chierici condannati e a consegnarli nelle mani del comune. Il vescovo Ottaviano di Bologna agevolò la sua città in materia e consegnò i chierici per il processo civile. Egli, inoltre, applicò la legge civile, scomunicando i chierici di ogni chiesa o monastero che avessero ospitato criminali ricercati dal comune e permise agli uomini del podestà di entrare nei conventi e nelle chiese per arrestare i membri del clero incriminati. Vicendevolmente, i comuni del tardo XIII secolo adottarono una legislazione volta a favorire i “diritti della Chiesa”, promettendo di proteggere la proprietà ecclesiastica, e di favorire la disciplina (e l’esecuzione) degli eretici.

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La crescente divisione della giurisdizione ecclesiastica e civile condusse, paradossalmente, il comune ad alimentare una maggiore moralità. Nel momento in cui i vescovi cominciarono ad essere meno presenti all’interno del governo e le città cominciarono a costruire i propri edifici pubblici, il comune cessò di condividere la santa aura della Chiesa Madre. I comuni “secolarizzati” necessitavano di una propria divina legittimità. La cercarono in cielo, invocando la protezione dei nuovi santi patroni, e sulla terra, riempiendo le proprie leggi, assemblee, e istituzioni comunali di sacra retorica, simbolismo e rituali. Avevano poca scelta. Essi avevano bandito il loro vecchio sacro signore imperiale, e non vi era nessuno sulla terra che potesse sostituirlo come fonte di legittimità. Quando i comuni costruirono ed elaborarono le loro istituzioni repubblicane e democratiche non poterono attingere né alle modalità imperiali né a quelle “secolari” per la propria legittimità.

Sebbene nate dalle guerre, le repubbliche italiane manifestarono poco entusiasmo per il fervore crociato che si sviluppò in Europa intorno al

1200. I cronisti bolognesi affermano che “duemila”6 crociati lasciarono

Bologna per Gerusalemme, nel 1188, e che “molti” andarono ad est dopo la caduta di Damietta nel 1219. Probabilmente esagerarono; forse duecento crociati lasciarono la città nel 1188, e qualcun altro, una manciata, nel 1219. La guerra sacra non smosse i cuori. Gli italiani combatterono, non per difendere la lontana Terra Santa, ma per le proprie città. In tutto il nord, la guerra contro l’imperatore Federico Barbarossa, negli anni ’70 del XII secolo, fu una guerra religiosa, combattuta con intensità e determinazione. Piacenza combattè la pro imperiale Cremona nel 1215 sotto “protezione divina”. I padovani parlarono della loro guerra contro Ezzelino da Romano usando un linguaggio tipico del Primo libro di Samuele. Ezzelino era il Filisteo Golia, la piccola Padova era Davide: Dio concesse la vittoria sui

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potenti. La retorica del favore divino e della guerra santa implicava che Dio e i suoi santi guidassero il comune nella battaglia. I poteri celesti garantivano il favore, ma il beneficiario poteva cessare di meritarlo. Il vescovo Sicardo di Cremona osservò che sebbene san Marco l’Evangelista avesse scelto di essere seppellito ad Alessandria, ove aveva predicato, la città perse il suo favore quando accolse l’eresia. L’evangelista scelse la Cattolica Venezia come suo rinnovato luogo di riposo, permettendo ai veneziani di portare via le sue ossa, presumibilmente nel IX secolo; anche le altre città italiane potevano misurare il favore di Dio. La prova di tale favore era la vittoria sul campo di battaglia. La vittoria dimostrava la speciale relazione tra cielo e terra. Secondo il vescovo Sicardo, la devozione dei milanesi per i martiri Gervasio e Protasio nacque, non per la miracolosa scoperta che sant’Ambrogio fece delle sue ossa, ma a causa della stupefacente conclusione delle Guerre Lombarde nel giorno della loro festa. I santi avevano dimostrato la loro intercessione, coronando il loro giorno con la vittoria. I milanesi sapevano cosa aspettarsi. Essi cambiarono il canto di apertura della Messa dei martiri per commemorare la vittoria che avevano dato alla città. Anche i santi toscani rivelarono il loro favore attraverso vittorie. I fiorentini risalirono all’origine della loro devozione per san Giovanni Battista, ovvero il giorno della sua festa nel 401, quando, grazie alla sua intercessione, la città sconfisse l’invasione dei Goti. Secoli più tardi, dopo la vittoria fiorentina a Campaldino, l’11 Giugno 1289, il comune adottò come uno dei suoi patroni cittadini (ve n’era sempre più di uno) san Barnaba, il santo che, quel giorno, segnò la vittoria. La sconfitta invece poteva indicare disapprovazione, ma questa conclusione non fu avanzata facilmente. I modenesi furono restii ad andare in guerra di Lunedì e Martedì, poiché avevano subito umilianti sconfitte in quei giorni. In caso di disgrazia, la causa della sconfitta veniva attribuita al giorno settimanale, non al santo.

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I comuni modificarono o aggiunsero patroni a seguito delle vittorie. San Giorgio, il santo guerriero, divenne un patrono di Siena dopo la sua grande vittoria su Firenze a Montaperti; a Faenza, san Cassiano divenne un patrono cittadino dopo la vittoria Guelfa che ristabilì il comune nel 1280; anche le sante donne concessero vittorie nei giorni delle loro feste – come la serva san Zita fece per Lucca nel 1278 e la laica penitente Margherita per Cortona nel 1298. Esempi del genere potevano essere moltiplicati all’infinito. Anche nell’arte, i santi proclamarono le loro vittorie in guerra. In tutta la Toscana, specialmente a Firenze, i santi talvolta figuravano nelle pale d’altare con un ramo di ulivo in mano, assente nella loro usuale iconografia. Ciò significava che la città ove tale immagine fu dipinta avesse ottenuto una vittoria nel giorno della festa del santo. Nessuna santa vittoria può essere paragonata a quelle che San Sisto diede a Pisa. Questo papa del II secolo ripetutamente salvò gli eserciti di Pisa in campali battaglie combattute il 6 Agosto, nel giorno della sua festa. Intorno al 1216, il comune costruì una cappella in suo onore. Annualmente, la cittadinanza lo onorava con il suono delle campane e l’offerta di candele. San Sisto fu identificato con il comune stesso tanto che, a partire dagli anni ’80 del secolo XIII, le assemblee cittadine si riunivano nella sua chiesa e non nella cattedrale.

Nel corso della prima metà del XIII secolo non vi era alcun pericolo per le libertà repubblicane a nord, a parte la tirannia di Ezzelino da Romano, vicario dell’imperatore Federico II. La santa guerra contro Ezzelino e Federico rivelò nuovi amici celestiali del comune. A Vicenza, la liberazione del comune avvenne il 29 Settembre 1264, ovviamente per l’intercessione di san Michele. L’arcangelo divenne un patrono cittadino, e il comune diede £ 50 agli Agostiniani per costruire una chiesa in suo onore. La città aggiunse la sua immagine a quella degli altri patroni cittadini sopra le porte. A Milano, nel tardo XIII secolo, la città commissionò a Giovanni

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di Balduccio il compito di decorare Porta Ticinese con i protettori del comune: san Lorenzo, sant’Ambrogio, sant’Eustorgio, san Pietro di Verona, e posta al centro, la Vergine Maria col Bambin Gesù. A Bologna ove il comune catturò il figlio di Federico, Enzo, nella battaglia di Fossalta, le autorità stanziarono cinque anni di elemosine per la costruzione della chiesa Agostiniana, che essi speravano venisse ridedicata a sant’Agostino (non lo fu e ancora oggi rimane san Giacomo Maggiore). La città aumentò la sua offerta da £ 40 bon. a £ 50 l’anno seguente; la guerra stava andando bene. Nel corso degli anni ’50 del XIII secolo, Ezzelino entrò a Padova, espulse il governo repubblicano e stabilì il proprio regime. L’esercito della Lega Lombarda ordinò, attraverso il legato papale Filippo Fontana, arcivescovo di Ravenna, di assediare la città, ma senza successo. Fra Bartolomeo di Corradino, il sacrista, stava vegliando, il 19 Giugno 1252, presso la tomba del Francescano Antonio da Padova, pregando per la liberazione della sua città; in un sogno o visione - la fonte non è chiara - Fra Bartolomeo sentì una voce promettere la liberazione della città prima dell’ottava festa del santo, ovvero entro il giorno successivo. E così avvenne. Come riconoscimento per la liberazione da Ezzelino, i padovani traslarono il suo corpo e lo posero in un’arca sorretta da colonne nel 1263. Il santo confermò il suo favore con un miracolo – la grande lingua del predicatore fu trovata miracolosamente incorrotta. Ma il giorno della festa di sant’Antonio nel 1272, le forze pro imperiali di Faenza e l’esiliata fazione bolognese dei Lambertazzi sconfissero l’esercito del comune

bolognese, presso la battaglia di Porta San Procolo. Presenti sia nelle

vittorie che nelle sconfitte, i santi potevano presiedere anche alla pace. Nel 1286, il cardinale Latino riuscì a porre fine alla lunga guerra tra Parma e Modena. La bozza del trattato invocava i patroni di entrambe le città, la santa Maria Vergine e san Giovanni Battista; tuttavia, questi santi non furono abbastanza specifici per identificare le parti coinvolte, e così i

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comuni aggiunsero sant’Ilario per Parma e san Giminiano per Modena. San Pietro fu il santo amato da tutti, disse il cardinale; egli scelse, quindi, la festa di san Pietro, per siglare il trattato. Fu un ottimo giorno per far pace. Ovunque, la Vergine Maria rivendicò uno posto speciale come protettrice e patrona, rivelandosi imparziale nelle vittorie e universale protettrice nella pace. All’inizio del XIII secolo, i senesi avevano già una particolare devozione per la Vergine, tanto da inserire i canti Mariani per la tradizionale Aspersione di acqua santa nelle domeniche Pasquali. Al di fuori del periodo Pasquale, l’aspersione usava il canto tradizionale, ma le processioni cominciavano presso l’altare di Maria. Nel 1260, la Vergine premiò la devozione senese.

Prima di intraprendere la guerra con Firenze e i suoi alleati Guelfi, i senesi dedicarono la loro città alla Vergine. Quando lei concesse loro la vittoria, le

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