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CAPITOLO QUARTO

LA NASCITA DI UNA FAMIGLIA

All’inizio del periodo comunale, il vescovo francese Ildeberto di Lavardin disse ai vescovi riuniti per il Concilio di Chartres: “Nella città di Dio ci sono tre sacramenti che precedono tutti gli altri nel tempo della loro istituzione e che sono i più importanti per la redenzione dei figli di Dio: il battesimo, l’Eucarestia ed il matrimonio. Di questi tre il primo è il

matrimonio”21. Sebbene vivesse in Francia, egli parlò a nome degli italiani

dell’età comunale. Il matrimonio non era solo un atto sacramentale, ma era anche un atto civile, che dava origine ad una più piccola unità all’interno della società, la famiglia. I suoi rituali gettavano le basi dell’ordine civico.

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Al di sopra della famiglia vi era il padre, suo capo e patriarca. Coloro che erano uniti da legami di sangue componevano il resto delle relazioni, famiglie allargate o clans, ma queste relazioni non davano origine all’unità domestica. Essa era composta dalla coppia, marito e moglie, insieme ai loro figli e dalle relazioni senza legami, i domestici, e da tutti coloro che vivevano sotto lo stesso tetto. La subordinazione al padre patriarcale riguardava anche i novelli sposi, o coloro che erano sposati da molto tempo, fin quando essi condividevano gli stessi spazi coi loro genitori. La responsabilità della nascita di una nuova famiglia era delegata al padre o, in caso di assenza o morte, al più anziano tra i fratelli o agli zii. Il matrimonio dei figli era un progetto familiare, e, in quanto tale, erano i padri dei futuri sposi ad organizzarlo. Qualche volta i padri tennero in considerazione i desideri dei propri figli; d’altra parte, il diritto ecclesiastico richiedeva esplicitamente il libero consenso delle parti coinvolte, in mancanza del quale il matrimonio non era considerato valido.

Lo stato dei futuri sposi mutava una volta sposati, dal momento che andavano formando una famiglia. Il cambiamento era visibile soprattutto nelle donne; una donna nubile poteva portare i capelli scoperti, una donna sposata invece li nascondeva sotto un velo. Francesco Piperino, guardando agli anni precedenti al 1300 a quella che riteneva essere stata l’età d’oro del pudore femminile, negli anni ’30 e ’40 del XIII secolo, descrisse l’abito adatto ad una vergine. Ella doveva indossare una tunica chiara, il sotano, di stoffa semplice e sopra di essa porre un mantello di lino, la socca. Piperino lamentava che nei tempi andati le giovani donne mostrassero i loro capelli, senza le eccessive acconciature dei giorni nostri. I capelli erano il chiaro simbolo di una vergine, segno della sua disponibilità al matrimonio. Certamente le donne, in cerca di marito, cercarono di rendersi attraenti. Ovviamente le donne che non desideravano sposarsi, agivano all’opposto; alla metà degli anni ’50 del XIV secolo, la giovane Caterina di Siena

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annunciò il suo rifiuto al matrimonio tagliandosi i capelli. I capelli non velati stimolavano l’attenzione maschile. Intorno agli anni ’70 del secolo XIII, Verona proibì alle donne di pettinarsi nei portoni o sotto i portici; inoltre proibì anche di tessere in pubblico. Una generazione precedente, a Vercelli, le autorità avevano lamentato che le giovani donne avessero preso l’abitudine di filare per le strade. Queste vennero punite con una multa fino a 2d. e unitamente furono puniti quegli uomini che avessero gettato il lavoro delle donne nel fango. Probabilmente, le donne stavano cercando un compagno, esplicitando in tal modo la propria disponibilità; ma tali apparenze pubbliche sortirono l’effetto di mandare in tilt il “corretto” modo di trovare marito, ovvero attraverso le negoziazioni tra i patriarchi.

Si richiedeva che le nuove famiglie fossero create con decenza e con attenzione ai bisogni e all’ordine civico. Il matrimonio con uno straniero significava la perdita cittadina della ricchezza relativa alla dote della donna. Vicenza emanò delle nuove leggi per evitare tali perdite. I diritti dei padri potevano anche essere ostacolati. Caterina di Siena non fu l’unica ad opporsi al progetto matrimoniale che la famiglia aveva in serbo. Quando Oringa Cristiana raggiunse l’età da marito, i suoi fratelli pensarono di maritarla. Ella allora si gettò nel fiume Guisciana: “con lodevole zelo, ma senza rifletterci” (ex bono zelo, licet non secundum scientiam). Le piante acquatiche miracolosamente formarono una stola che le permise di raggiungere l’altra sponda e di scappare senza bagnarsi o, almeno, questo racconta la storia. Le leggi milanesi del primo XIII secolo, tra le prime legislazioni comunali sul matrimonio esistenti, difendevano la decisione paterna in questi conflitti.

Sarebbe stato impensabile che una donna “decente”, ovvero un’adeguata futura moglie, non si sottoponesse al controllo paterno. Persino i figli dovevano dimostrare lo stesso rispetto; il potere genitoriale si estendeva ai figli, quanto alle figlie, almeno fin quando non avessero raggiunto i sedici

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anni. Parma arrivò a multare ogni uomo che fosse abbastanza sciocco da sposarsi senza il consenso paterno, con una multa pari a £300 parm. Certamente, la città non poteva avere il controllo su coloro che non avessero avuto padri o fratelli e così si proibì alle donne indipendenti di contrarre matrimonio fino all’età di dodici anni; un’età piuttosto tenera per essere indipendenti. Un altro modo per sabotare le decisioni paterne era il rapimento (raptus). La Chiesa definiva il rapimento come “il trasporto di una donna con la forza per il bene del matrimonio”. Il diritto canonico riteneva che questo di fatto rendesse nulla l’unione; specificava inoltre che la “forza” non dovesse essere necessariamente fisica e che essa potesse essere usata contro la donna, suo padre o entrambi. Il rapimento con la forza usata solo nei confronti del padre rappresentava una fuga d’amore, per cui le città determinarono che tale trasgressione all’autorità paterna fosse un reato civile; dividendo le multe addotte per tale reato a metà tra la città e il padre offeso. Bologna punì anche il rapimento dei maschi – forse perché alcune donne usufruirono dell’aiuto dei parenti maschili, qualora il loro padre non si fosse dimostrato collaborativo.

Supponendo che siano state osservate le convenienze civili ed ecclesiastiche, il processo del matrimonio riguardante una figlia aveva inizio quando il padre stabiliva la somma da destinarle in dote. Sia nel canone romano che negli statuti italiani, tale somma diveniva e rimaneva proprietà della figlia, non di suo marito. In pochi e più piccoli comuni rurali, alcuni matrimoni avvennero senza che vi fosse una dote, seguendo la legge longobarda. Secondo quella legge, la moglie infatti donava la sua proprietà personale al marito la mattina successiva al matrimonio. Lentamente, i comuni abbandonarono l’uso di tale pratica, sostituendovi quella del diritto romano; per cui la dote veniva concessa per il bene del matrimonio, e i padri si aspettavano che venisse usata per tale scopo. Quando la vedova Umiliana dei Cerchi scelse di non risposarsi, il padre le

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chiese la restituzione della dote; in realtà non poteva avere nessuna pretesa. Ciononostante, ella decise di restituirla, sebbene si rifiutò di firmare un atto notarile con il quale rinunciava al suo diritto. Per Umiliana i giuramenti su questioni temporali poco si adattavano a colei che era divenuta una Sorella della Penitenza. Suo padre fu, comunque, soddisfatto della restituzione del denaro e le permise di trasferirsi nella torre di famiglia, ove la conversa riadattò la sua stanza in un “oratorio”, una cella quasi monastica. Dopo il matrimonio, l’uso della dote passava al marito, sebbene rimanesse di proprietà della moglie (iure peculii); ella infatti avrebbe potuto chiederne la restituzione ai creditori, qualora il marito fosse scomparso da dieci anni. Una donna con un buon carattere, un’ottima reputazione e una dote adeguata era ciò che un padre richiedeva per il matrimonio di suo figlio. Soltanto a seguito della negoziazione dei due padri, la promessa di matrimonio poteva avvenire. Elaborate norme di diritto canonico stabilivano i periodi in cui era vietato contrarre matrimonio, i gradi ammessi di affinità e consanguineità, e il divieto di sposare i padrini e anche i figli e i genitori dei padrini. Dopo il IV Concilio Laterano del 1215, il prete parrocchiale era tenuto ad annunciare i nomi dei futuri sposi nella chiesa parrocchiale, per assicurarsi dell’assenza di ostacoli al matrimonio stesso. Quasi tutti (ad eccezione dei sacerdoti, dei monaci e delle suore) contraevano matrimonio e questo veniva eseguito in conformità ai requisiti ecclesiastici. Anche gli illetterati conoscevano, almeno in linea generale, le regole che governavano il matrimonio religioso. Fra Salveto di Cesena riferì che Don Leto, un canonico di Cesena con una laurea in diritto canonico, era solito visitare il penitente Giovanni Buono di Mantova presso il suo eremo. Giovanni era un ex sacerdote che non parlava latino. I due amavano discutere sulla legge matrimoniale, e il canonista portò con sé un codice di decreti papali per dimostrare le sue opinioni. Per quanto tentasse, egli non riuscì a trovare il testo che desiderava citare. Dopo aver girato

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qualche pagina, Giovanni invece trovò la pagina corretta a dimostrazione della sua tesi – il punto di vista del penitente ebbe la meglio, mentre il canonista ebbe la peggio. Solitamente, i sacerdoti parrocchiali si sentivano competenti nel giudicare i casi di matrimonio, una pratica che sia i sinodi sia le città provarono a proibire. Le autorità cittadine avevano a cuore il tema della santità del matrimonio tanto quanto la Chiesa, poiché riguardava direttamente l’onore dei cittadini e dei propri familiari. Esse quindi punirono l’adulterio, la bigamia, l’incesto, esplicitando qualche volta che il linguaggio di “genere neutro” riguardasse anche gli uomini. Il matrimonio creava le famiglie; esso era il fondamento della società; era un affare per tutti.

Il primo passo pubblico verso il matrimonio era dato dal fidanzamento. Quando Ezzelino da Romano si fidanzò con Salvaza, la figlia dell’imperatore Federico II, nel 1238, la cerimonia fu celebrata la Domenica di Pentecoste di fronte alle porte della grande chiesa di san Zeno a Verona. Comunemente, la cerimonia e le promesse di matrimonio si celebravano presso la casa della sposa. Lo sposo giungeva in processione assieme al padre, ai fratelli, ai parenti maschi e ai servitori. Le figure principali, il padre e lo sposo, vi giungevano su un cavallo riccamente addobbato, mentre gli altri camminavano al seguito. Le famiglie più potenti e più ricche dimostravano la loro importanza attraverso lo splendore e la dimensione di tale processione. Presso la casa della sposa, le sue amiche e i suoi parenti si riunivano in un corteo ugualmente impressionante per accogliere il futuro sposo. Nel tardo XIII secolo, le autorità limitarono tali dimostrazioni, solitamente ponendo un limite di venti membri per ciascuna parte, un limite che probabilmente fu applicato agli ospiti che non avevano legami di sangue. Il fidanzamento poteva durare anni, ma qualche volta anche solo mesi, prima che il matrimonio avesse luogo. Alcuni genitori fidanzarono i loro figli prima del raggiungimento dell’età giuridica per il

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matrimonio; a volte anche in culla. La legge ecclesiastica proibiva il fidanzamento degli infanti e i genitori sostituirono il “fidanzamento” con un contratto di fidanzamento per i loro figli da ratificare in una data futura, solitamente quando i bambini raggiungevano l’età dei sette anni, ovvero l’età giuridica per il fidanzamento.

I canonici richiedevano che coloro che si fidanzassero prima della pubertà fossero liberi di ratificare o rigettare l’unione una volta raggiunta la maturità (dodici anni per le donne e quattordici per gli uomini), ma i genitori conoscevano ampi metodi di persuasione. Almeno in teoria, il matrimonio doveva avvenire quando la coppia fosse stata abbastanza grande da agire per conto proprio. Questa cerimonia, così come il fidanzamento, prevedeva un’imponente processione, sebbene ora l’attenzione fosse rivolta alla sposa e non allo sposo. Il matrimonio era una grande occasione anche per le altre donne di mostrarsi in pubblico. L’eleganza e le buone maniere della sposa riflettevano lo status della famiglia. Inoltre, almeno fin quando la legislazione non cercò di porre un freno, i capelli della sposa erano abilmente acconciati per quel giorno, l’ultimo in cui li avrebbe mostrati in pubblico. Si trattava di un’occasione anche per le altre donne, anche quelle sposate, di rivelare la loro bellezza, sebbene i sermoni dei predicatori erano presi sul serio. Lo stereotipo considerava la vanità come una tentazione per gli uomini. In una versione, la tentatrice (inconsapevolmente) si accordava con il demonio per il proprio trucco ma, scoprendo che i cosmetici l’avessero rovinata, alla fine moriva di angoscia. Il suo corpo morente divenne motivo di imbarazzo per suo marito, per la sua famiglia, e la sua dama di compagnia – per non parlare della gioia dei pettegolezzi. I predicatori erano più indulgenti nei confronti della sposa, poiché ella simboleggiava la ricchezza della famiglia e rifletteva l’onore del marito e del padre. Ella indossava una corona tempestata di gioielli e perle, e un abito sontuoso, il più sontuoso che la

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famiglia potesse permettersi, preferibilmente con un lungo strascico portato da paggi. Anche la pelliccia era abbastanza popolare; così come riccamente ricamata era anche la borsa, con perle, che simboleggiava la sua dote. Opportunamente vestita, la sposa e la sua scorta giungevano in processione per le strade fino alla casa dello sposo. Se possibile, ella, i suoi genitori e le damigelle cavalcavano a cavallo; mentre gli altri vi camminavano accanto. Non più di venticinque uomini potevano costituire il corteo d’onore. Quando Pisa intorno al 1310 cercò di controllare tali processioni ed eventi, ponendo un limite al numero del corteo a soli due uomini, ci furono proteste popolari che obbligarono le autorità a raddoppiare il numero degli uomini del corteo. Le vecchie abitudini sono dure a morire, o almeno quasi tutte.

Sebbene il diritto ecclesiastico medievale riconoscesse il semplice scambio di voti tra un uomo e una donna perché avesse luogo un matrimonio, anche senza testimoni, il modo corretto di contrarre matrimonio rappresentava un evento pubblico. I “matrimoni clandestini” non erano in definitiva migliori delle fughe. La legge canonica li condannò, pur ammettendone la validità. Sinodi locali punirono i contraenti con la scomunica, concedendo qualche volta la possibilità di assoluzione da parte del vescovo. Le prime legislazioni comunali proibirono i matrimoni clandestini. Il corretto scambio di voti avveniva in pubblico, e non durante i periodi di penitenza, come la Quaresima, l’Avvento o i giorni di Rogazione. La coppia si scambiava i voti al mattino, in modo che potesse seguire una Messa. Il matrimonio reale, lo scambio di voti stesso, non avveniva in chiesa. Sebbene i matrimoni sui gradini della Chiesa fossero leciti, l’usuale sede di scambio era la casa presso la quale la sposa giungeva in processione, ovvero quella del suo coniuge. La coppia si scambiava i voti nella loro temporanea o futura casa, quella in cui avrebbero allevato i propri figli - o forse dapprima lo scambio avveniva di fronte ad un notaio, soprattutto se vi

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era di mezzo del denaro, dal momento che il matrimonio era anche una transizione giuridica. Questo tipo di cerimonia informale fu probabilmente tipico di ogni coppia e più probabilmente di quelle più ricche. Successivamente poteva esserci una Messa nuziale, recitata da un sacerdote, la cui presenza, a testimonianza dello scambio di voti, era richiesta dal diritto canonico, sebbene in definitiva il matrimonio poi venisse considerato valido anche in sua assenza. La cerimonia si poteva concludere con lo scambio di anelli, il velo della sposa, e la cerimonia nella quale la coppia veniva legata insieme con cordone rosso e bianco pieghettato, simbolo della loro unione di corpo e spirito. Nei rari casi in cui fu seguita la legge longobarda, la sposa offriva al marito una spada come simbolo di sottomissione, invece della solidale partecipazione allo scambio di anelli prevista dalla legge romana. In casi di famiglie di straordinario prestigio o influenza, il vescovo stesso poteva presenziare ai voti. Lottieri della Tosa, vescovo di Faenza, presenziò al matrimonio di Maurino di fu Domenico di Bologna e Giacomina di fu Alberto Cavini di Trentola, il 6 Maggio 1291. Queste forme di solennità furono rare, lo stesso vescovo Lottieri registrò solo tre casi. In ogni caso, insieme ai genitori, folle di amici e parenti giungevano a testimoniare la professione di voti.

Quando Donna Mabilia, figlia del conte Ludovico di San Bonifacio, si sposò a Reggio il Venerdì antecedente la Domenica di Settuagesima nel 1283, la coppia professò i propri voti presso la casa del conte. Immediatamente dopo essi andarono ad ascoltare la Messa in onore della Beata Vergine presso la chiesa Francescana. Ne seguì un lauto banchetto. Questa cerimonia era tipica del periodo, sebbene più sontuosa del solito. Dopo i voti, la coppia giungeva in processione presso la chiesa. Questa processione, alla quale prendevano parte i familiari di entrambe le parti, esprimeva una pomposità maggiore rispetto a quella relativa unicamente alla sposa. Dodici uomini a cavallo e quattro fanti potevano accompagnare

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la coppia in chiesa. Sebbene la coppia potesse richiedere qualche Messa aggiuntiva in base alle devozioni personali, i libri liturgici includevano una Messa nuziale (Missa pro sponso et sponsa). Questa Messa inseriva speciali preghiere per la coppia. Se non era avvenuta durante lo scambio dei voti, il sacerdote impartiva la benedizione nuziale durante la Messa, dopo la recita del Padre Nostro. Questa benedizione invocava la cura di Dio per gli sposi e richiedeva che gli sposi fossero conformi a tutte le sante coppie della Scrittura. Secondo l’antica tradizione il matrimonio Cristiano poteva avvenire una volta soltanto, per questo motivo la benedizione veniva conferita soltanto al primo matrimonio, anche se ne seguiva un altro in caso di morte di uno dei due coniugi.

Al termine della Messa, la processione rientrava presso la casa dello sposo, per il banchetto nuziale. Ancora oggi, in Italia, il banchetto è molto più importante delle solennità in Chiesa. Stranamente, nel Medioevo, la coppia abbandonava il banchetto, lasciando i festeggiamenti ai familiari e ospiti. Probabilmente i neo sposi avevano altro a cui pensare. Durante il festeggiamento, una portata seguiva l’altra, e il vino scorreva liberamente. Le famiglie che potevano permetterselo ingaggiavano mimi e menestrelli per intrattenere gli ospiti. Vi erano balli, e allorquando la folla aumentava e diveniva chiassosa, vi potevano essere dei problemi. Dopo che Don Scanabecco de’ Ramponi di Bologna sposò la figlia di Don Scappo de’ Scappi, il suo fedele servitore Gurono di Sala versò il sangue di un ospite della famiglia della sposa, Bartolomeo de’ Beccadelli, poiché quest’ultimo aveva eseguito una danza con una “donna poco onesta” (domicella minus

honesta). In tal modo, egli aveva disonorato la famiglia e la coppia.

Probabilmente Bartolomeo voleva scherzare, ma i parenti di entrambe le parti sguainarono le loro spade. Il podestà in persona dovette intervenire per riconciliare le parti. Di certo il matrimonio permetteva la nascita di una famiglia, ma poteva anche essere causa di faide. Si trattava sempre di

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questioni pubbliche. Tali preoccupazioni portarono i comuni del tardo XIII secolo a limitare il numero degli invitati al banchetto; si fece un’eccezione per gli uomini di rango, come i dottori, gli avvocati e i professori universitari, escludendoli dal limite del numero degli ospiti.

COMUNITÀ IN PROCESSIONE

Come le famiglie, anche le più grandi comunità di quartiere e le città crearono ed espressero il proprio ordine e la propria unità mediante rituali pubblici. Così come le famiglie in occasione del matrimonio, le processioni rivelavano un’espressione finemente sintonizzata della propria identità corporativa. Chiunque poteva prendere parte alla processione, laicato e clero, uomini e donne. Una processione rappresentava un rito nel quale laicato e clero si trovavano sullo stesso piano, se non in una posizione di pari onore. Non vi era bisogno di essere stati ordinati o di conoscere il latino per marciare in processione. Dal 1100 in avanti, le processioni

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