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Il Capo dello Stato tra neutralità e interventismo politico

Il Capo dello Stato nella prospettiva

2. Il Capo dello Stato tra neutralità e interventismo politico

Vorrei iniziare ad esaminarla partendo dal giudizio di un giurista che è stato anche un sensibile storico delle Costituzioni (il che non è affatto – in genere, ma tanto più in questo caso –, una deminutio visto che il tema della forma di governo o del regime politico dev’essere affrontato essendo appun- to nutriti di forte senso storico) e che bisognerebbe, secondo me, rileggere (come qualcuno, di recente, ha giustamente suggerito) dopo averlo trascura- to, fin qui, negli anni successivi alla scomparsa.

Si tratta di Giuseppe Maranini, secondo il quale «La Costituzione italiana è come una lastra fotografica, sulla quale un operatore distratto abbia scatta- to due fotogrammi: il fotogramma francese, della IV Repubblica (quindi:

pluripartitismo, governi di coalizione, instabilità dell’Esecutivo, parentesi e

corsivo miei), appena messa la lastra nel bagno di sviluppo si è subito rivela- to; ma il secondo fotogramma, quello americano (e quindi: presidenzialismo,

federalismo, divisione marcata dei poteri, ancora una volta la sottolineatura è

di chi ora scrive) è rimasto latente».

C’è una ragione profonda di questo giudizio, a mio parere, nella comune origine europea dei modelli costituzionali moderni, che derivano tutti da un’unica radice: la monarchia costituzionale britannica, impiantatasi tra la metà e la fine del Seicento. Essa si è evoluta, negli Stati Uniti d’America e poi nella parte meridionale di quel continente, in presidenzialismo – con ciò in- tendo dire che quando si verificò la rivoluzione dei coloni americani contro la madrepatria essi avevano presente lo stesso modello costituzionale là vi- gente, che tradussero però in chiave repubblicana e federale (e dunque con elezione diretta del Capo dello Stato e sua identificazione col Capo dell’Ese- cutivo, divisione dei poteri, bicameralismo fondato però non su una base di classe, bensì sulla valorizzazione delle identità territoriali) –; ha invece dato luogo, nella stessa Gran Bretagna e in Europa, al parlamentarismo, prima bi- lanciato e quindi monistico (a prevalenza dell’Esecutivo o delle Assemblee, a seconda delle esperienze); è giunta infine alla razionalizzazione che se ne è operata tra le due guerre mondiali e nelle costituzioni del secondo dopoguer- ra, nell’àmbito dello Stato sociale e nell’epoca del pluripartitismo di massa.

Quando si parla, cioè, di forme di governo resta comunque riconoscibile l’impronta originaria, per così dire: come quando, in una famiglia – per quanto si sia estesa – rimane pur sempre possibile il gioco delle somiglianze di un individuo col padre, col nonno, con lo zio lontano e così via.

Quanto alla forma di governo italiana introdotta dalla Costituzione del 1948 ed a proposito, in particolare, del ruolo che in essa gioca il Presidente della Repubblica, è a lungo prevalsa una lettura “imparzialistica” e garanti-

stica di tale istituto, di derivazione constantiana (mutuata, cioè, dal pensiero postrivoluzionario francese di carattere liberale moderato) e che era specula- re alla sostanziale disomogeneità – sociale, politica, economica –osservabile all’epoca nel nostro Paese. Un fondamentale saggio di Giuseppe Guarino del 1951 ha per l’appunto, come chiave di lettura, l’idea che una società cosiffat- ta, perdipiù nel mondo della «guerra fredda», dei blocchi contrapposti, delle diverse «scelte di civiltà», vale a dire di modelli socioculturali ed istituzionali fortemente contrapposti – ha bisogno di un Presidente della Repubblica di garanzia; un’interpretazione – questa – ripresa poi con nettezza da Galeotti e più problematicamente da altri, come ad esempio ha fatto Paladin.

Questa lettura ha ricacciato all’indietro la configurazione tradizionale del Capo dello Stato come vertice effettivo dell’Esecutivo, che ancora dominava nei primi commenti della nuova Costituzione: si veda per esempio l’analisi di Teodosio Marchi nel Commentario della Costituzione diretto da Calamandrei e Levi, nella parte che qui appunto ci interessa, dove l’Autore disegna l’istituto quasi come la traduzione repubblicana del re sabaudo che, come sapete, specialmente in politica estera e in tema di difesa nazionale voleva contare effettivamente, esercitando antiche prerogative dinastiche.

Egualmente minoritarie, inoltre, rimasero ricostruzioni realistiche del Ca- po dello Stato come organo dotato di un potere personale e di un ruolo mol- to forti e per nulla neutrali, per cui – nel caso di crisi dei poteri ordinarî dello Stato – esso espande, come sottolineava Carlo Esposito, la sua azione o co- munque, quando la garanzia di attuazione e protezione della Costituzione è debole, può svolgere una funzione di indirizzo politico costituzionale, secon- do la nota tesi argomentata da Paolo Barile ancora sulla scorta del suo mae- stro (era stato infatti lo stesso Calamandrei a parlare già in Assemblea Costi- tuente della figura come della «voce viva della Costituzione»). Per compren- dere queste preoccupazioni, che miravano a superare per tal via le tiepidezze e le inerzie del continuum maggioranza di governo – maggioranza parlamen- tare, bisogna in verità ricordare quanto a lungo l’Italia conobbe quello che sempre Calamandrei chiamò «l’ostruzionismo di maggioranza» e come venne ritardata l’entrata in funzione di istituti fondamentali, quali la Corte costitu- zionale, il CSM, le Regioni, mentre avevano corso visioni molto restrittive circa i diritti fondamentali e lo stesso valore giuridico delle disposizioni di principio della Carta fondamentale.

Finché non è entrato in crisi il sostrato partitico della Repubblica e sono rimaste relativamente solide le maggioranze, il modello dominante ha tenuto, benché la variante non precisamente «notarile» facesse già capolino, sulla ba- se dei comportamenti dei diversi titolari dell’organo, fin da Einaudi (con le questioni sul rinvio delle leggi alle Camere per loro mancata copertura ai

sensi dell’art. 81), quindi con Gronchi, che tentò – specialmente in politica estera – posizioni personali distinte dal Governo ed ancora con Segni, sotto il quale si ebbe un discusso ed oscuro movimento di sciabole (il caso «De Lo- renzo-Sifar») o con Saragat, che per suo conto già esternava molto e condi- zionava perfino nella formula partitica la composizione dei Governi.

Tale variante, con Pertini e con Cossiga si è ulteriormente espansa in mi- sura notevole, anche se gli studiosi l’hanno pur sempre ricondotta alla nozio- ne di garanzia costituzionale, benché intesa via via secondo un modo diverso: una garanzia – cioè – di unità tra maggioranza e opposizione in un momento di crisi, come fu detto, considerando quanto accadde col primo [al punto che il compianto nostro collega Giustino D’Orazio ha scritto un libro su tale specifica esperienza all’insegna del dubbio se essa abbia integrato una «Neu- tralità o (una) diarchia»]; ovvero prestata – come si dice con una formula ica- stica – al cosiddetto «Paese reale» contro il «Paese legale», al tempo del se- condo: ricorderete certamente le sue «picconate», le ripetute esternazioni ex-

tra ordinem, tutto un clima che fece sfiorare a quest’ultimo addirittura la

messa in stato d’accusa su richiesta di quella che allora era l’opposizione par- lamentare e gli rimproverava di «sforare» rispetto al quadro costituzionale formale e convenzionale fin lì manifestatosi.

Che tuttavia un costume di interventismo presidenziale si sia ormai conso- lidato lo dimostra il fatto che lo stesso Scalfaro, antico campione della cen- tralità parlamentare, pur eletto – tra l’altro in circostanze drammatiche, quando era stato appena ucciso dalla mafia il magistrato Falcone – quasi in contrapposizione allo stile della seconda parte del settennato di Cossiga, le cui espressioni più eclatanti ho appena ricordato, è rimasto un Presidente «esternatore».

Egli, inoltre, nella crisi di transizione del sistema politico-istituzionale an- cora aperta, ha sorretto fortemente (quasi – si è detto – in triunvirato con i presidenti delle Camere, prima Napolitano e Spadolini, poi Pivetti e Sco- gnamiglio e oggi Violante e Mancino) governi di accentuata connotazione tecnica, come quelli di Amato, Ciampi, Dini, oltre a quelli più evidentemente «politici» di Berlusconi (ma, in questo caso, peraltro, ricusando tra molte po- lemiche alimentate dal settore politico del centro-destra di sciogliere le Ca- mere all’atto della crisi di quel gabinetto, determinatasi per il ritiro della Le- ga dalla maggioranza) e Prodi, entrambi – comunque – espressione di un bi- polarismo e di una configurazione prevalentemente maggioritaria del sistema politico-partitico di ancor debole impianto.

3. Il Presidente della Repubblica nelle prospettive disegnate dalla Bi-

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