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La “forma di governo” del Comune e le odierne dinamiche politico-istituzionali italiane

1. – S’intende comunemente per “forma di governo”, nei manuali di dirit- to costituzionale, il modello dei rapporti reciproci che s’instaurano tra gli or- gani sovrani, al fine dell’ideazione e gestione dell’indirizzo politico: il tema – insomma (che naturalmente è sempre anche e soprattutto un problema) – di

chi e come, secondo la Costituzione, dirige, a fini almeno teoricamente gene-

rali, la macchina pubblica di comando, influenza e controllo (l’apparato di

potere politico, in breve).

In tal modo definita, la forma di governo concretamente operante in una data comunità statale risulta da specifici istituti, individuati di volta in volta come caratterizzanti lo schema, per effetto di un’astrazione dalle molteplici esperienze storiche, in cui esso si è incarnato. Così, ad esempio, la fiducia per il governo parlamentare o la derivazione presidenziale del gabinetto nella forma di governo che appunto da ciò prende il nome (e alla quale non è af- fatto necessaria, si badi, l’elezione popolare diretta del Capo dello Stato, che anzi esiste anche in alcune repubbliche parlamentari – ad es. l’Austria – sen- za mutarne la natura).

A parte questi istituti minimi – o, per dirla con linguaggio matematico,

condizioni necessarie – perché il modello sia realizzato, altri elementi influi-

scono sulla sua pratica operatività e anche sulla profondità dello studio ad esso relativo:

a) l’accoglimento – e la misura di esso – del principio della divisione dei poteri (che è massima nel sistema presidenziale, “morbida” in quello parla- mentare);

b) quello che tecnicamente si chiama il “formato” del sistema partitico e che dipende a sua volta dal tipo di legge elettorale adottata [maggioritaria o proporzionale (e quanto e come)]: ognuno sa, per restare alle sole forme di governo parlamentari contemporanee, che il tipo inglese (bipartitismo co-

niugato a legge elettorale maggioritaria con alternanza periodica dei partiti al governo e all’opposizione) differisce molto da quello tedesco (multipartiti- smo temperato con legge elettorale proporzionale corretta, al fine di sbarrare la strada delle Camere a minoranze piccolissime e strumenti di stabilizzazio- ne governativa) o da quello italiano (a multipartitismo esasperato su base proporzionalistica quasi completamente non corretta);

c) l’eventuale intersecazione di istituti di democrazia diretta – e le modali- tà e i limiti del loro manifestarsi – con l’azione degli organi rappresentativi (per trarre, in proposito, un esempio dalla nostra recente esperienza, è noto come nell’Italia degli ultimi vent’anni il gioco referendario sia stato parte del- le complessive strategie politiche di partiti o loro frazioni, tuttavia quasi sempre presenti anche in Parlamento);

d) l’esistenza o meno – e, nel primo caso, il suo modo di svolgersi in con- creto – del controllo di costituzionalità delle leggi (sempre per restare all’Ita- lia, questo equivale a dire che anche la Corte Costituzionale è soggetto politi- co; ma la conclusione non cambierebbe, se si esaminassero gli istituti corri- spondenti di altri Paesi);

e) il tipo di rapporto esistente tra poteri pubblici e attività economica (il tipo, cioè, di “governo dell’economia”);

f) il grado di effettivo riconoscimento dei diritti di libertà e il modo in tale contesto proprio della (e istituzionalmente riconosciuto alla) opinione pub- blica (si dice, ad esempio, che il governo parlamentare è “un ambiente”, un contesto storico-politico-economico-culturale, prima che una serie di istituti costituzionali formali).

Ciò premesso, un discorso che si prefigga di paragonare tra loro la forma di governo a livello di apparato centrale e le organizzazioni analoghe dei di- versi poteri locali territorialmente articolati (“L’organizzazione di governo del Comune”: così la MARZANATI) richiede un’ulteriore, preliminare avver- tenza di cautela, intesa a ricordare che solo gli organi costituzionali si muo- vono sul piano della sovranità, mentre gli altri apparati risultano piuttosto espressione di autonomia (sia pure costituzionalmente garantita e normati- vamente disegnata nei principî fin dalla Carta fondamentale, per le Regioni, ovvero in apposita legge generale, quanto alle Province e ai Comuni).

Nondimeno, sembra non del tutto scorretto (nei limiti della ricordata prudenza) comparare a fini di indagine i modelli di organizzazione governan- te rispettivamente vigenti e concretamente operanti ai diversi livelli (tra gli enti locali, si prende qui in esame paradigmaticamente il Comune), sia per- ché la “politicità” – benché con diversa qualità, ampiezza ed incidenza – è il dato che comunque li avvicina (per il Comune, lo si può argomentare dagli

artt. 2 e 32, legge n. 142/1990), sia perché l’ottica qui prescelta consente di valutare – attraverso e come effetto di tale paragone – l’evoluzione comples- siva della cultura politico-istituzionale del Paese in ordine a questi temi.

2. – La forma di governo italiana, quale disegnata nella vigente Costitu- zione e riguardata poi negli sviluppi effettivi (o “viventi”, come è invalso l’uso di dire) successivi al 1948 – e quindi nel modello inverato dalla Storia – è quella di un parlamentarismo a tendenza monistica. più precisamente a prevalenza assembleare, caratterizzata (come si ricordava) dal multipartiti- smo prodotto (o quantomeno stabilizzato) dal sistema elettorale, nonché dal- la regola convenzionale dell’esclusione delle estreme dalla partecipazione or- ganica ai governo.

In questa situazione, i gabinetti sono sempre stati di coalizione (o solo temporaneamente e per ragioni di decantazione monocolori, ma comunque funzionali alla ricostruzione di governi di coalizione), costituiti all’interno di una dinamica politica “bloccata” e dunque non passibile di alternanza perio- dica delle parti al governo e all’opposizione (al modo della variante britanni- ca sopra richiamata), ma al più di semialternanza nella guida dell’Esecutivo – come nel periodo più recente – con effetti di grande stabilità del ceto politico di governo (preso, naturalmente, nel suo insieme), ancorché di strutturale debolezza e palese inefficienza delle specifiche coalizioni.

I limiti di questo intervento non consentono di ripercorrere la storia delle fasi di sviluppo della forma di governo, dal centrismo al centrosinistra, dalla solidarietà nazionale al momento odierno nel quale – esauritasi la carica ideo- logica della formula dell’alleanza – i governi si designano dal semplice nume- ro dei socî (pentapartito, quadripartito, ecc...); nemmeno è possibile valutare qui come siano venuti cambiando, nel tempo e rispetto a ciascuna fase, in- terpretazioni costituzionali degli istituti, prassi, convenzioni o indicare quale sia stata l’evoluzione “interna” di ciascun organo costituzionale o quella dei loro rapporti reciproci. Ricordando che tutti questi profili sono già stati in- dagati, tanto da costituzionalisti, quanto da politologi, basterà descrivere i dati salienti della situazione odierna.

3. – Si constata, dunque, l’insufficienza dell’attuale assetto dei poteri – quale si è venuto concretamente svolgendo – al fine della governabilità di una società complessa, tanto sul piano della scarsa moralità civile della classe politica di governo, quanto su quello della bassa efficienza complessiva dell’apparato politico-amministrativo, con effetti che risaltano ancor di più –

per la loro eloquenza in negativo – se si considerano il livello del nostro in- debitamento pubblico allargato in rapporto al PIL e quello dell’inflazione rispetto ai corrispondenti valori degli Stati europei ad ordinamento omoge- neo e coi quali andremo prestissimo a rafforzare l’integrazione già in atto.

È noto altresì che da questa situazione, per concorrenti esigenze soprat- tutto di taluni partiti (almeno inizialmente; oggi siffatto bisogno è general- mente avvertito) e per effetto di mutamenti di quadro politico internazionale e dei loro riflessi interni (gli avvenimenti dell’Est europeo del 1989 e i con- traccolpi sul partito giù comunista ed ora democratico della sinistra; l’appena ricordato sviluppo ulteriore del processo di integrazione europea) è venuta una forte spinta e all’adozione di riforme istituzionali in funzione del raffor- zamento dell’Esecutivo, della trasparenza ed efficienza dell’azione pubblica (anche sul piano strettamente amministrativo), del possibile ricambio delle opzioni praticabili – sul piano della selezione della classe dirigente – da parte dei cittadini politicamente attivi.

A proposito delle terapie proposte per venire a capo di un disagio cre- scente, sulle manifestazioni esteriori (se non proprio sulle cause) v’è ormai sostanziale concordia di analisi. Esse sono essenzialmente due, che vengono contrapposte per ragioni polemiche, ma che sono quantomeno avvicinate dall’intento, evidente in entrambe, di departitizzazione delle istituzioni e di semplificazione del quadro politico.

Da un lato stanno quanti individuano come problema essenziale la neces- sità di una riforma del sistema elettorale in senso maggioritario e uninomina- listico, in modo da provocare o quantomeno incentivare fortemente apparen- tamenti preventivi tra le forze in campo, che mettano il corpo elettorale in condizioni di scegliere tra coalizioni alternative e politicamente responsabili. Essi, com’è noto, hanno percorso all’uopo anzitutto, ma senza troppa fortu- na, la via parlamentare; considerandola, tuttavia, realisticamente sbarrata, so- no orientati, da ultimo, a fare ricorso a sollecitazioni referendarie, dall’in- dubbio effetto mobilitante, anche se di rigida applicazione pratica per la natu- ra stessa dello strumento impiegato, che – essendo puramente demolitorio – costringe a faticose operazioni di ritaglio delle disposizioni da eventualmente abrogare e lascia alla fine qualche insoddisfazione di risultato, facendosi in so- stanza apprezzare più che altro da quanti ne attendono essenzialmente (diffi- dando di una fumosa autoriforma dei partiti) il riavviarsi di processo di inci- siva decisione parlamentare.

Dall’altro lato si propone senz’altro l’introduzione della forma di governo presidenziale (o, con più moderata variante interna alla medesima logica, quella semipresidenziale), con diretta investitura popolare del Capo dello Stato e ampliamento corrispettivo dell’autonomia politica regionale, cui si

accompagna più recentemente l’auspicio di una riforma elettorale che intro- duca (al fine di evitare il frazionamento e il localismo delle forze e favorire per altra via, quindi, la stabilità di governo) apposite “soglie di sbarramen- to”, che combinino assieme l’onere di raggiungere date percentuali minime di consenso e la richiesta della loro proiezione tendenzialmente “nazionale”, al fine dell’accesso alle Assemblee rappresentative.

L’esito di questo confronto è, come si sa, aperto, anche in ordine al pre- liminare nodo procedurale di come avviare e proseguire una stagione di inci- sive riforme istituzionali, che nessuno ritiene – peraltro – ulteriormente rin- viabili. Dopo il deludente rinvio a miglior momento del tentativo di risolu- zione del problema, che ad un certo punto sembrava dovesse caratterizzare appunto in modo determinante il programma del VII governo Andreotti e dopo l’esito altrettanto deludente cui si è in seguito avviato il c.d. “tavolo di confronto” aperto, tra le forze stesse di maggioranza ed in sostituzione forza- ta di realizzazioni più ambiziose, dal Ministro per le riforme istituzionali Martinazzoli, esso risulta ormai affidato al futuro e cioè all’evoluzione degli equilibrî tra gli attori, quali saranno determinati dal corpo elettorale nella prossima Legislatura.

4. – Esiste, tuttavia, nell’evoluzione politico-istituzionale italiana, anche una linea mediana, che ha badato a rafforzare contemporaneamente tanto gli organi assembleari, quanto quelli esecutivi, razionalizzando l’assetto delle re- ciproche attribuzioni, in un’ottica non di rottura e di passaggio d’epoca (qua- le introdurrebbero le linee di riforma in precedenza rammentate), bensì di continuità con la tradizione culturale democratica del nostro Paese. Questa è una considerazione importante perché l’esperienza comparata insegna che i trapianti di istituzioni costituzionali sono – ancor di più che non quelli di or- gano della chirurgia – operazione delicatissima e ben più esposta a reazioni di rigetto.

Orbene, la logica tendenziale di evoluzione del sistema, ove si accogliesse l’idea di una correzione in senso marcatamente maggioritario-uninominalisti- co delle leggi elettorali delle assemblee elettive, sarebbe palesemente quella di una sua bipolarizzazione (che infatti i fautori di questa soluzione mirano a favorire), la quale, per desiderabile che sia – anzitutto, a scanso di equivoci, da chi scrive – contrasterebbe con la struttura quantomeno tripolare da esso assunta fin da tempi pre-repubblicani (si pensi al “connubio” del conte di Cavour o al “trasformismo” del Depretis) e poi, attraverso varie vicende e mutamenti di regime, stabilizzatasi come tendenza di lungo periodo della no- stra storia costituzionale.

Quanto al presidenzialismo o al semi-presidenzialismo (del resto varia- mente discussi, oggi, laddove ne sono attuate le più significative varianti), la torsione funzionale del sistema risulterebbe ancora più evidente, sfiorando – a differenza che nell’ipotesi appena esaminata – la forma medesima dello Sta- to, poiché comporterebbe – accanto ad effetti che sarebbero anche in questo caso di bipolarizzazione politica – l’introduzione di fattori carismatico- plebiscitarî di investitura, e perciò di legittimazione, del Capo dello Stato.

Essi sono già oggi, del resto, ricavabili dall’indebita assolutizzazione (sin- tomatica di una “lettura” del tutto parziale e perciò in definitiva fuorviata e comunque lontana dall’essere pacificamente e universalmente accettata in via convenzionale) di alcuni elementi soltanto – quelli idonei a sottolineare un ruolo non di mera garanzia del Presidente della Repubblica – di un assetto costituzionale modellato in realtà diversamente.

Tutto ciò senza contare che ad un sovrappiù di “esposizione” della figura presidenziale gioverebbe grandemente – come l’esperienza che stiamo viven- do, pur diversa da quella ora ipoteticamente configurata, comunque dimo- stra – l’uso spregiudicato ed insistito della comunicazione radiotelevisiva, co- sì identificandosi un tipo di democrazia – seppure ancora fosse tale – defini- bile piuttosto (invece che come “immediata” o “mediata”, a seconda dei casi) quale mass-mediata, se ci si passa l’espressione.

Al novero delle proposte e delle realizzazioni di una visione istituzionale più “realistica” (e che perciò può durare fatica ad imporsi e prima ancora a farsi ascoltare, nel fragore delle opposte strategie “estreme” di riforma, che forse sono per molti più seducenti perché più nette nel disegno innovatore e negli stessi effetti rispettivamente sperati) appartengono invece tra l’altro – a parere di chi scrive – tanto la legge n. 400/1988, quanto le leggi n. 142/1990 e n. 241/1990.

Il pregio della prima non consiste certo, secondo l’avviso qui esposto, nell’impossibile (allo stato attuale del sistema delle fonti) tentativo di condi- zionare, con norma di legge ordinaria, le modalità di emanazione degli atti governativi con forza di legge e il loro contenuto. Decreti delegati e decreti- legge si sono difatti sottratti “vittoriosamente” a tale ipotetico condiziona- mento. Il merito, invece, sta, piuttosto e tra gli altri, nel rafforzamento, che essa realizza, degli apparati della Presidenza del Consiglio dei Ministri e nella più opportuna sistemazione dei rapporti legge-regolamento.

La legge n. 142/1990, dal suo canto, sul punto che qui interessa (organiz- zazione governante degli enti locali), si segnala anzitutto per il fatto di ribadi- re l’uniformità modellistica degli enti locali medesimi.

Si è respinto, cioè, il suggerimento di taluni studî (diventati anche propo- ste di legge senatoriali nella X legislatura: vedi rispettivamente la p.d.l. Pa-

squino, Bobbio e altri, n. 1557/1989 e quella Dujany ed altro, n. 2100/1990) di rimettere ad appositi referendum (così la prima proposta, che portava nel- le Camere l’articolato predisposto dall’ISAP, pubblicata in Amministrare, n. 2/1989, suppl.) o allo statuto (così invece la proposta di Massimo Severo Giannini, pubblicata in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2/1989) la scelta della forma di governo degli enti locali.

Quest’ultima rimane dunque anche oggi ispirata all’idea della sostanziale preminenza, nelle scelte di fondo, dell’organo assembleare, secondo un col- laudato modulo della nostra tradizione istituzionale (come nota giustamente l’ANGIOLINI), accolta infatti – e sovente anzi accentuata – anche delle varie “forme di governo” regionali nella stagione del loro concreto avvio (primi anni ’70). Tale primato si risolve qui, peraltro, con tratti di opportuna razio- nalizzazione, nel senso che il Consiglio Comunale è attributario dei poteri di indirizzo politico-amministrativo e la Giunta di quelli gestionali (esecuzione delle direttive consiliari, ma anche propulsione di queste). Di essa si fa peral- tro – con novità importante, che è rovesciamento dell’assetto precedente cir- ca l’organo a competenza generale, nel senso che (ove nulla sia detto) un af- fare è riconosciuto come suo proprio, piuttosto che del Consiglio.

Tutte le attribuzioni dell’organo esecutivo si muovono, beninteso, sul piano di interventi distinti da quelli di mera gestione tecnica degli atti dell’Ente, per la quale ultima vengono invece riconosciute sfere di compe- tenze e responsabilità specifiche dei funzionarî, il segretario in primis, secon- do l’ottica di una tendenziale separazione (anche in tal caso nuova, opportu- na e degna di trasposizione ed altri livelli di governo) fra politica ed ammini- strazione.

Nell’ottica del discorso che qui viene svolto, appare ancora significativa la previsione di meccanismi funzionali alla rapida elezione tanto della Giunta, quanto del Sindaco, nonché alla loro stabilizzazione. È da notare, peraltro, che l’approssimarsi della scadenza del termine entro il quale eleggere Sinda- co e Giunta, pena lo scioglimento – in mancanza – del Consiglio, ha spesso favorito, in sede di prima applicazione, non tanto la individuazione di una maggioranza stabile, quanto l’elezione di un primo cittadino purchessia; d’altro canto, laddove (come in Germania) vige sul piano costituzionale for- male, la c.d. “sfiducia costruttiva” non ha evitato crisi di governo, ma solo (il che è ben diverso e quantitativamente irrilevante) crisi di governo parlamen-

tari.

Maggiore efficacia sembra invece destinata ad avere l’attuazione della previsione statutaria sui possibili assessori “laici”, che certo sarebbe ancora più evidente se si fosse prevista assieme l’elezione diretta del Sindaco, nel senso che la scelta di quest’ultimo da parte del corpo elettorale avrebbe indi-

viduato automaticamente anche un centro di imputazione per le responsabi- lità assessoriali assunte da personale non elettivo.

È certo che l’introduzione di questa facoltà, mentre testimonia l’intento di ridurre le distanze tra apparati governanti e società civile (favorendo l’impe- gno di competenze non disposte però a correre l’alea di campagne elettorali spesso insostenibili – oggi – per costi patrimoniali ed umani di varia natura), appare coerente alla già ricordata linea di tendenza che mira – anche sotto gli altri aspetti che prima si ricordavano – a distinguere ruoli politici di indirizzo e ruoli esecutivi di gestione tecnica. Sarà compito degli Statuti, naturalmente, evitare che invece siffatta apertura venga utilizzata come mezzo di recupero, per altra via, di candidati bocciati dall’elettorato.

Da riguardare con favore è anche la previsione di strumenti (l’espresso potere di revoca degli assessori) in grado di rafforzare il Sindaco nei confron- ti di spinte dissociative e “feudali” della sua maggioranza. È da prevedere, peraltro, che solo nei piccoli comuni si rafforzerà il già esistente ruolo del sindaco di leader della maggioranza, mentre in quelli medio-grandi la sua funzione finirà con l’essere piuttosto quella di un coordinatore della coalizio-

ne, secondo le tendenze che la dottrina (GIANNINI,MERLINI) segnalava già prima.

Ciò scopre quella che – ad avviso di chi scrive – resta una delle più gravi lacune della legge, vale a dire il rinvio di qualsiasi scelta circa il sistema elet- torale degli organi locali, il Sindaco in primo luogo, come già si diceva. L’elezione diretta, in questa caso, pur presentandosi in controtendenza ri- spetto alle soluzioni finora accolte rispetto ad altri ambiti e livelli di governo, non apparirebbe dirompente come quella eventuale del Capo dello Stato, per la ridotta carica di politicità anche simbolica, al paragone, dell’organo locale rispetto a quello che sintetizza l’unità nazionale, per il suo stesso rap- porto più immediato con l’opinione pubblica locale (in grado, dunque, di at- tivare perciò stesso anche un controllo più capillare e diffuso sul suo opera- to), per l’effetto di attenuazione che – anche sul punto – eserciterebbe la stessa, diversificata pluralità degli Enti locali.

Altra rilevante pecca, inoltre, è nel non aver previsto che, assieme alla leg- ge, entrasse contestualmente in vigore un’organica disciplina della finanza lo-

cale, della quale la legge n. 142 contiene solo i principî.

Al momento, le molte funzioni dei Comuni (tra competenze proprie, de- legate dallo Stato e dalle Regioni, ulteriormente attribuite da queste e dallo Stato) poggiano su mezzi finanziarî spesso – praticamente sempre, nel Sud – inadeguati e con un’insufficiente perequazione tra aree ricche e povere del Paese.

Per ragioni di completezza, vanno qui segnalate – ad ulteriore chiarimen- to delle opzioni di base compiute dal legislatore in ordine alla forma di go- verno dell’ente locale – le disposizioni relative al controllo sugli atti.

Esse, infatti, esprimono un momento di significativa valorizzazione del- l’autonomia, che si affianca per importanza all’avvenuto riconoscimento, nel- la medesima direzione concettuale, di una potestà statutaria: eliminato del tutto il controllo di merito, sia pure con mero invito al riesame, rimangono quello (necessario) di legittimità sulle deliberazioni riservate alle competenza consiliare e quelli (eventuali) rimessi all’attivazione della maggioranza (consi-

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