• Non ci sono risultati.

Cappelli e borse nell’economia locale “

Nella zona di Marostica veniva piantato non un frumento qualunque, ma quello specifico dallo stelo lungo e flessibile, privilegiando alcune specifiche tipologie: nei rilievi più dolci, veniva piantato il vernisso, a quote più alte il marsólo, seminato a marzo, mentre il più grosso era il mentana. Lo scopo non era certo lo stesso delle piantagioni in pianura, bensì le festuche o fastughi, cioè quella parte più tenera del culmo, cioè il fusto del frumento, che ben si adattava all’intreccio. Una coltura che ben si adattava a quel lembo di terra adagiato tra il fiume Astico e il Brenta quindi, specie nella zona di Marostica, dove il sistema del terrazzamento rendeva sfruttabile il pendio dei declivi. Tale adattamento è ancor oggi visibile a nord del paese, in una zona chiamata Coste di Marostica, dove la toponomastica rivela ancora l’attività del passato, come nel caso di Busa Bionda.

Verso la fine dell’Ottocento la superficie agraria destinata a questa coltivazione era di ben 360 ettari, regalando al paesaggio toni e colori del tutto particolari.

Non era un’attività meramente locale, ma c’era abbastanza movimento da rifornire sia il mercato interno che estero. In Italia città e grossi centri facevano richiesta dei manufatti. Importanti commissioni furono raccolte in Asia, in Africa e America. Nel 1900 si erano già aperte ben venti fabbriche di cappelli in Marostica.

La maggior parte dei laboratori locali nacque nel primo dopoguerra. Nomi come Viero o Primon si affermarono come grossi centri di produzione e importanti fonti di lavoro per la gente del territorio. Un aspetto interessante dell’attività fu il collegamento con realtà simili nel territorio nazionale, come Signa e Montelupo Fiorentino in Toscana, o Montappone, Massa Fermana e Falerone nelle Marche. In una famiglia tutti partecipavano alla produzione. Uomini e ragazzi muniti di falcetto svolgevano la fase iniziale, cioè la mietitura, all’inizio dell’estate; il frumento veniva riunito nelle fajóle, cioè piccoli fasci che, trasportati presso le abitazioni, venivano lasciato in cortile. La lavorazione della dressa era un’attività svolta principalmente dalle donne, che producevano fettucce di varie misure, realizzando fino a 18 fili di paglia lavorati contemporaneamente. Le matasse venivano o

95 periodicamente raccolte a domicilio da intermediari, i pacari, per conto dei grossisti, oppure venivano date ai proprietari di piccoli negozi locali in cambio di beni di prima necessità, come generi alimentari o stoffe, secondo l’antica legge del baratto. Momento di scambio era anche la domenica mattina dopo messa, quando, tra i bimbi che reclamavano i pevarini e il tiramola, le donne facevano la spesa e pagavano direttamente con le dresse fatte durante la settimana. In qualche contrada qualche contadino più intraprendente si trasformava in commerciante e alcuni nomi sono passati alla storia, come Bepi Magansa o Bice Fricile. Nel tempo sono state raccolte testimonianze affascinanti di alcune di queste figure che, a sentirli oggi parlare di quei tempi, lasciano sbalordito chiunque non li abbia vissuti. Come appunto Bepi Magansa, all’anagrafe Giuseppe Pizzato (1897-1972). Dopo aver prelevato un negozio di alimentari vicino alla posta di Crosara e averne sposato Rosina, la commessa, Bepi gestisce il commercio con abilità e ambizione: egli, infatti, come altri commercianti della zona, si fa pagare dai clienti con le pezze di treccia confezionate a domicilio, utilizzando la paglia proveniente dai loro terreni coltivati a grano. Si crea così una specie di conto corrente, in cui le monete di scambio sono trecce di paglia contro generi che non sono prodotti del fondo agricolo, come filati, salsa di pomodoro, caffè, riso ed altro; talvolta il commerciante vende a credito ai contadini che soffrono di una costante penuria di denaro contante. Le famiglie dell’epoca, infatti, erano molto più numerose di quelle moderne, e quasi tutto il raccolto veniva consumato direttamente; perciò poche erano le merci che si potevano vendere per averne un guadagno: qualche pollo, un capretto o vitello, uova, ciliegie e altra frutta se la stagione era stata buona. Bepi accetta così di essere pagato con pachi

de dressa, che i contadini non potevano vendere direttamente alle fabbriche di

cappelli di Marostica; nel viaggio avrebbero perso troppo tempo, che invece avrebbero potuto impiegare nei lavori agricoli, mentre alla bottega ci sarebbero andati tutte le domeniche. Inoltre essi non si sentivano in grado di trattare coi siori di Marostica. Ecco che Bepi e, con lui, altri commercianti della zona, cominciano a sostituirsi ai pacari, che ritirano le trecce a domicilio per le fabbriche del capoluogo.

96 Bepi si volge all’Altopiano come intermediario-trasportatore e raccoglie anche le trecce da loro scambiate con i propri clienti; le rivende poi tutte insieme a Marostica, a ditte come la Azzolin o la Costenaro. Dalle trecce ai cappelli il passo fu breve: negli anni Trenta, Bepi ha già dieci dipendenti, che dapprima confezionano sporte classiche, poi telari, borse, barchete e vari tipi di cappelli: pagliette, capèi de recèlo (il racello è una fibra di cellulosa usata per i cappelli tipo panama). Nel secondo dopoguerra Bepi aumenta il catalogo di scelta e inserisce caschi di tipo coloniale, frontini, pagode, su nuovi modelli che egli stesso disegna la sera, una volta chiuso il negozio. Tra le dipendenti di Bepi va ricordata Erminia Farina, autrice del finissimo cappello tipo panama, esposto oggi all’Ecomuseo di Crosara.

Foto 24: Cappelli di paglia.

Un deciso cambiamento nella produzione si verifica con l’avvento della macchina da cucire (1876), che consentì una lavorazione più rapida e produttiva. Cappelli di ogni forma e colore, borse, sporte grezze, sporte da passeggio, cesti, stuoie, cornici, vassoi, interi salottini, copri sedili per l’automobile, copriselle per motociclette, etc. Si produssero perfino scarpe femminili. Per ogni stagione venivano realizzati nuovi modelli, dieci-quindici l’anno, per le località balneari venivano le paglie venivano ornate con motivi marinareschi. Nell’immediato dopoguerra si stima che venissero prodotti circa un migliaio di capi alla settimana. Nel secondo dopoguerra circa i 9/10 della produzione venivano esportati. Nei primi anni del ‘900 fino al secondo dopoguerra Marostica pullulava di ciminiere seminate in vari angoli della cittadina, dentro e fuori le mura scaligere. Le ciminiere, costruite con una tecnica architettonica

97 ben precisa e progettate da esperti, indicavano la presenze di vere e proprie industrie. Alcune di queste impiegavano anche cento operai, specialmente donne, le quali con grande abilità e destrezza affrontavano le sei fasi del lavoro: la tinteggiatura, la cilindratura, la lavorazione del cappello, l’apprettatura, la pressatura, la rifinitura. Ora sono scomparse.

A metà degli anni Novanta dell’Ottocento in città venne aperta una scuola per l’apprendimento delle nuove tecniche per la fabbricazione delle trecce e dei cappelli. Vennero assunti insegnanti esperti provenienti dalla Toscana. Alla sua realizzazione parteciparono non solo il Consiglio provinciale, la Camera di Commercio e il Governo, ma anche tutti i Comuni della zona interessati ad investire nel settore. La risposta fu buona e le iscrizioni furono numerose.

Nella zona il numero degli impiegati nel settore fu tale che tra il 1902 e il 1906 venne aperta una sezione della Federazione dei Cappellai, che, tra le varie voci, comprendeva anche quella dell’abolizione del lavoro a cottimo. Tuttavia sarà solo vent’anni più tardi che si vedrà finalmente praticata una tutela seria degli operai, con la specifica dei diritti in caso di malattia e dell’inquadramento per l’aspetto pensionistico, fino ad ora piuttosto approssimativo.

Dal 1960 la produzione calò. L’ultimo laboratorio chiuse verso sul finire degli anni Settanta.

98