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L’onere di provare il carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore, che può soddisfarlo facendo ricorso a elementi presuntivi, tra i quali presenta un

ruolo non secondario la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addot-

to a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole. (3)

L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamen-

to non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare l’esistenza della giusta

causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno

apparentemente fornita incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ri-

torsivo, e dunque l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso. (4)

(1-4) L’INSUSSISTENZA DELLA GIUSTA CAUSA O DEL GIUSTIFICATO MOTIVO COME «INDICE PRESUNTIVO» DELLA RITORSIVITÀ DEL LICENZIAMENTO

SOMMARIO: 1. Due vicende diverse; un iter logico-argomentativo comune. — 2. Le considerazioni di carattere sistematico (esplicite e implicite) svolte dalle decisioni in esame. — 2.1. L’emancipazione del licenziamento ritorsivo dagli schemi del di- ritto antidiscriminatorio. — 2.2. Gli oneri di allegazione e prova nel giudizio di accertamento della ritorsività del recesso. — 3. Il rapporto tra licenziamento total- mente ingiustificato e licenziamento ritorsivo.

1. — Due vicende diverse; un iter logico-argomentativo comune — Le pronunce in commento, pur nella diversità delle vicende da cui originano, meritano di essere se- gnalate ed esaminate congiuntamente in quanto offrono alcuni interessanti spunti di riflessione in merito a due questioni delicate e attuali in tema di licenziamenti indivi- duali. Esse, infatti, oltre a confrontarsi con la questione sostanziale relativa alla natura giuridica del licenziamento ritorsivo – che entrambe riconducono, come vedremo, al licenziamento per motivo illecito di cui all’art. 1345 c.c. –, si soffermano sul proble- ma, di carattere processuale, relativo alla distribuzione degli oneri probatori nell’am- bito del giudizio di accertamento del carattere ritorsivo del recesso.

Pare opportuno premettere che la figura del licenziamento ritorsivo ha assunto og- gi una crescente rilevanza e si colloca, insieme al licenziamento discriminatorio, al cen- tro del dibattito dottrinale (1) e giurisprudenziale (2). A seguito degli interventi legi- slativi operati dapprima con la l. n. 92/2012 e, soprattutto, con il d.lgs. n. 23/2015, i licenziamenti nulli (in primis, discriminatori e ritorsivi) rappresentano infatti le prin- cipali ipotesi di licenziamento illegittimo ancora sanzionate con la reintegrazione nel posto di lavoro, concorrendo quindi a delineare l’ambito di applicazione della tutela reale (3), che il legislatore ha inteso rendere sempre più una «eccezione» rispetto alla

(1) Per le ultime ricostruzioni di carattere monografico, vd.: Marinelli 2017a; Biasi 2017; Peruzzi 2017. Il tema è stato recentemente oggetto anche di ampie rassegne e saggi (vd., da ul- timo: Cannati 2017; Ballestrero 2016; Bavaro, D’Onghia 2016), su sollecitazione della riscrit- tura dell’art. 18 St. lav. a opera della l. n. 92/2012 (vd.: Barbieri 2013; Barbera 2013; Carinci 2012a; Aiello 2013), e quindi dell’introduzione del cd. contratto a tutele crescenti (vd.: Carinci 2015; Musella 2015; Voza 2015; Biasi 2016), ancorché il tema fosse oggetto di studio nella vi- genza dell’art. 18 St. lav. nella versione pre Fornero (Gragnoli 2010; Carinci 2005, 163 ss.).

(2) Merita già rilevare come un ruolo di «spartiacque» nell’evoluzione della giurisprudenza sia stato giocato da Cass. 5.4.2016, n. 6575, in RIDL, 2016, n. 3, II, 714 ss., con note di M.T. Carinci, Gottardi e Tarquini, nonché in DRI, 2016, n. 3, 855 ss., con nota di Crotti, la quale ha precisato il rapporto intercorrente tra la figura del licenziamento discriminatorio e quella del licenziamento per motivo illecito, realizzando l’attesa «emancipazione del licenziamento discri- minatorio dal paradigma dell’unicità del motivo illecito» (così Cannati 2017, 525). Nella giu- risprudenza più recente, vd., in particolare: Cass. 3.12.2015, n. 24648, e T. Napoli 2.12.2015, entrambe in RGL, 2016, n. 2, II, 177 ss., con nota di Gambardella; Cass. 3.11.2016, n. 22323, in ADL, 2017, n. 1, II, 229 ss., con nota di Matarese; T. Taranto 20.2.2017, in RGL, 2017, n. 4, II, 627 ss., con nota di Simeone; Cass. 9.6.2017, n. 14456, T. Nola 18.5.2017, e C. App. Roma 5.4.2017, tutte in RIDL, 2017, n. 4, II, 708 ss., con nota di Marinelli; C. App. Firenze 28.11.2017, n. 1196, in IlGiuslavorista.it, 29 marzo 2018, con nota di Ferraresi.

«regola» della tutela indennitaria (4). Peraltro, le pronunce in commento evidenziano come la dimostrazione del carattere discriminatorio o ritorsivo del licenziamento – che consente oggi di «scassinare» l’impianto regressivo delle «tutele crescenti» (5) – rappre- senta da tempo l’unico mezzo per conseguire la tutela reale in tutti quei casi in cui essa sarebbe in linea di principio esclusa, anche a fronte di vizi particolarmente qualificati (come l’insussistenza del fatto contestato), per le ridotte dimensioni del datore di la- voro o per la particolare natura del rapporto di lavoro.

Protagonista dell’ordinanza milanese è un manager licenziato in tronco, previo re- golare procedimento disciplinare, con l’addebito di avere partecipato ad alcune riunio- ni aziendali riservate in data anteriore alla formale assunzione da parte della società, quando era ancora alle dipendenze di una società concorrente. Nella prospettazione datoriale, il dirigente avrebbe omesso di informare i vertici societari della sua qualità di soggetto (ancora) esterno alla compagine sociale, e tale omissione sarebbe risultata idonea a compromettere gravemente il vincolo fiduciario, legittimando il recesso per giusta causa.

Sennonché, il dirigente si era difeso dagli addebiti sostenendo che la propria par- tecipazione alle riunioni aziendali, che effettivamente aveva avuto luogo prima dell’as- sunzione, era avvenuta su espresso invito dell’allora amministratore delegato, intenzio- nato a coinvolgere il dirigente in vista dell’ormai prossima assunzione. Pertanto, l’au- torizzazione dell’a.d., quale rappresentante della società, aveva reso pienamente legit- tima la propria partecipazione alla riunione incriminata.

Secondo il ricorrente, poi, la contestazione era del tutto pretestuosa, posto che la vera ragione del recesso era da ricondurre piuttosto alla recente estromissione dal Cda dell’a.d. che lo aveva assunto. In quanto teso a espellere ad nutum dall’organizzazione aziendale un lavoratore solo per la sua vicinanza a un dirigente non più gradito ai ver- tici della società (6), il licenziamento sarebbe dovuto essere considerato una ritorsione indiretta (7), alla stregua del consolidato orientamento secondo cui il licenziamento per ritorsione o per rappresaglia «costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione a un com- portamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona a esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il con- notato della ingiustificata vendetta» (8).

(4) In tal senso, criticamente, Carinci 2015, 28.

(5) Biasi (2016, 154), il quale utilizza in riferimento al licenziamento nullo l’efficace im- magine del «grimaldello».

(6) Questione diversa, non affrontata direttamente dall’ordinanza milanese posto che il li- cenziamento era stato intimato per giusta causa, è quella della legittimità del recesso del diri- gente attuato nell’ambito di un’operazione di sostituzione dei vertici societari (cd. spoil system). Il tema, che non è possibile esaminare in questa sede, attiene essenzialmente alla latitudine della nozione di «giustificatezza» del licenziamento dirigenziale, che la giurisprudenza tende a ravvi- sare con una notevole elasticità «ogniqualvolta il recesso datoriale sia esercitato in conformità ai canoni di correttezza e buona fede» (così, ex multis, Cass. 10.2.2015, n. 2553, in RIDL, 2015, n. 3, II, 690 ss., con nota di Puliatti); eventualità che evidentemente non ricorre ove il datore di lavoro abbia addotto a fondamento del licenziamento una condotta del dirigente in- sussistente o disciplinarmente irrilevante.

(7) Sulle ritorsioni indirette vd., in particolare, Cannati 2012.

Nel secondo caso, una lavoratrice addetta a una piccola azienda del parmigiano – azienda che era stata poi trasferita, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112 c.c., in capo a una ditta individuale, convenuta in giudizio insieme alla cedente quale destinataria della domanda di reintegrazione (9) – era stata licenziata, anch’ella in tronco, con l’ac- cusa, poi rilevatasi infondata, di avere rivolto insulti a un esponente della società alla presenza dei colleghi; comportamento che secondo la datrice di lavoro aveva reso im- possibile la prosecuzione del rapporto ai sensi dell’art. 2119 c.c.

Tuttavia, oltre al fatto che non era stato minimamente osservato il procedimento disciplinare previsto dall’art. 7, St. lav., la lavoratrice aveva recisamente negato l’adde- bito, sostenendo in primo luogo che dalle visure camerali il soggetto asseritamente of- feso, indicato nella lettera di licenziamento, non risultava neppure essere un membro della compagine sociale, e che la vera ragione del licenziamento doveva piuttosto es- sere ravvisata nella circostanza che, nel giorno dell’asserito alterco, la stessa avesse la- mentato il mancato pagamento della tredicesima mensilità. Anche in questo caso, dunque, il licenziamento, oltre che ingiustificato, doveva considerarsi una «ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore».

In entrambi i casi, nonostante la gravità del difetto di giustificazione accertato dai giudicanti – in termini di insussistenza del fatto contestato nel caso emiliano, e, nel caso milanese, di irrilevanza disciplinare della condotta contestata: ipotesi equiparabile alla sua insussistenza (10) –, l’accertamento della ritorsività del licenziamento risultava necessario ai fini dell’applicazione della tutela reale. La lavoratrice emiliana, infatti, era addetta a un’impresa di piccole dimensioni, ove neppure l’insussistenza del fatto con- testato è sanzionata con la reintegrazione (11); il lavoratore milanese, invece, in quan- to dirigente, si vedeva preclusa la tutela legale contro il licenziamento illegittimo (art. 10, l. n. 604/1966), sicché il semplice difetto di giustificazione poteva assumere rilievo solo ai fini dell’indennità supplementare per «ingiustificatezza» del licenziamento, ma non per la reintegrazione.

Entrambi i giudici sposano pienamente le ricostruzioni attoree, accertando, in pri- mo luogo, l’insussistenza della giusta causa e, in seconda battuta, la nullità del recesso ritorsivo, sulla base di due percorsi argomentativi simili, ma non del tutto coincidenti.

in tal senso, ex plurimis: Cass. 31.3.2016, n. 6260, in DeJure; Cass. 3.12.2015, n. 24648, cit.; Cass. 16.7.2015, n. 14928, in D&Gonline, 17 luglio 2015, con nota di Tonetti; nella giuri- sprudenza di merito, tra le più recenti: T. Roma 12.3.2018, n. 1885; C. App. Roma 11.1.2018, n. 67; T. Ravenna 6.12.2017, n. 376, tutte reperibili in DeJure.

(9) Per orientamento consolidato, infatti, gli effetti del licenziamento illegittimo intimato dal cedente si trasferiscono, insieme al complesso aziendale, direttamente in capo al cessionario, che risulta quindi legittimato passivo nell’azione di impugnazione del licenziamento e destina- tario dell’ordine di reintegrazione (Cass. 1.4.2016, n. 6387, in D&G, 2016, n. 17, 25 ss.; Cass. 16.12.2014, n. 26401, in DeJure; Cass. 21.2.2014, n. 4130, ivi).

(10) Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza formatasi nel vigore dell’art. 18, c. 4, St. lav., nella versione post Fornero (Cass. 25.5.2017, n. 13178, in IlGiuslavorista, 21 lu- glio 2017, con nota di Spagnuolo; Cass. 20.11.2016, n. 18418, ivi, 23 novembre 2016, con nota di Bracci; Cass. 13.10.2015, n. 20540, in ADL, 2016, n. 1, II, 85 ss., con nota di De Michiel).

(11) Cfr. gli artt. 18, c. 8, St. lav., e 9, d.lgs. n. 23/2015, che sanciscono l’inapplicabilità nelle piccole imprese della regola prevista rispettivamente dagli artt. 18, c. 4, St. lav., e 3, c. 2, d.lgs. n. 23/2015.

La sentenza emiliana, partendo dal presupposto che nel giudizio di accertamento della ritorsività del recesso «un ruolo non secondario è dato dalla inesistenza del diver- so motivo addotto a giustificazione del licenziamento», valuta l’insussistenza della giu- sta causa come un indice idoneo a far presumere che il vero motivo (illecito) del licen- ziamento dovesse essere ravvisato nella volontà di punire la lavoratrice per avere legit- timamente rivendicato la mensilità supplementare.

L’ordinanza milanese svolge invece un ragionamento parzialmente diverso. Anche qui il punto di partenza è rappresentato dalla riconosciuta insussistenza della giusta causa addotta dal datore di lavoro. Tuttavia, al contrario che in quella emiliana, tale insussistenza non vale di per sé a fondare una presunzione di ritorsività del licenzia- mento, ma consente invece di ritenere raggiunta la prova che il motivo «unico e de- terminante» del recesso del dirigente era rappresentato dalla volontà (ritorsiva indiret- ta) di «espellere ad nutum dall’organizzazione aziendale un lavoratore inserito nella stessa da un dirigente uscito dal Cda».

2. — Le considerazioni di carattere sistematico (esplicite e implicite) svolte dalle deci- sioni in esame — Le due pronunce si caratterizzano per un iter logico-argomentativo in parte comune, che suggerisce di svolgere due ordini di considerazioni.

In primo luogo, sia pure en passant, le pronunce si esprimono sulla natura giuri- dica del licenziamento ritorsivo, che viene espressamente ricondotto alla figura del li- cenziamento per motivo illecito, nullo ai sensi dell’art. 1345 c.c., secondo l’indirizzo interpretativo più recente che, come si vedrà, opera una precisa distinzione tra licen- ziamento ritorsivo e licenziamento discriminatorio, superando le tendenze nel segno dell’assimilazione che erano emerse nella giurisprudenza precedente.

In secondo luogo, nell’anteporre la verifica relativa alla sussistenza della giusta cau- sa o del giustificato motivo a quella relativa all’accertamento del carattere ritorsivo del recesso, le decisioni prendono un’esplicita posizione sulla scansione logica delle tappe in cui si articola il giudizio di accertamento della ritorsività del recesso, con significa- tive conseguenze quanto alle regole che disciplinano la distribuzione dei relativi oneri di allegazione e prova.

2.1. — L’emancipazione del licenziamento ritorsivo dagli schemi del diritto antidi- scriminatorio — In merito alla natura giuridica del licenziamento ritorsivo e al suo rap- porto – di differenza o di continenza – con quello discriminatorio, è dato riscontrare oggi due orientamenti di fondo (12).

Secondo l’indirizzo più recente, fatto proprio dalle Sezioni Unite del 2016 (13), il licenziamento che trova la sua unica ragione nell’intento vendicativo del datore di la- voro deve considerarsi nullo non già in virtù di un’interpretazione estensiva dei divieti di discriminazione previsti dalla legge, ma ai sensi dell’art. 1345 c.c. (14), che sanziona

(12) Sul punto, funditus, Biasi 2017, 162 ss., e Marinelli 2017a, 141 ss., nonché Ead. (2017b), la quale si domanda, con formula sintetica, «ma il licenziamento ritorsivo è discrimi- natorio o per motivo illecito?», e Cannati (2017, spec. 529), il quale si chiede se il legislatore sia riuscito a «isolare le fattispecie discriminatorie da quelle ritorsive».

(13) Cass. 5.4.2016, n. 6575, cit.

con la nullità (in deroga alla regola della tendenziale irrilevanza dei motivi) gli atti ne- goziali, anche unilaterali (15), sorretti da un motivo illecito unico e determinante (ol- tre che comune alle parti, nel caso di atti negoziali plurilaterali).

Per tale orientamento, i divieti di discriminazione sono stabiliti in relazione a spe- cifici fattori tassativamente individuati dalla legge (razza, sesso, lingua, opinioni poli- tiche, solo per menzionarne alcuni), e come tali sono insuscettibili di estensione ana- logica (16) e, al contrario del motivo illecito, operano oggettivamente, a prescindere dalla sussistenza dell’animus discriminandi del datore di lavoro, peraltro di difficilissi- ma prova (17). Il motivo ritorsivo, poi, deve essere l’unico che ha determinato il re- cesso, sicché il concorso di una diversa ragione giustificatrice varrà a escludere la com- minatoria della nullità e l’accesso alla tutela reale (18). Al contrario, la sussistenza di una ragione tecnico-organizzativa concorrente non incide sul carattere discriminatorio del licenziamento (19), che resta nullo salvo che sia integrata una vera e propria causa di giustificazione, o «esimente», ai sensi del diritto antidiscriminatorio (20).

Un orientamento maturato in precedenza, ma tutt’ora diffuso in giurisprudenza, è invece propenso a realizzare una tendenziale assimilazione tra le due figure, e, più precisamente, a ricondurre il licenziamento per motivo illecito nell’area del licenzia- mento discriminatorio (21), sulla base di un’interpretazione estensiva dei divieti di

Unite del 2016, vd.: Cass. 9.6.2017, n. 14456, cit.; C. App. Roma 20.7.2017, n. 3891, in DeJure; T. Nola 18.5.2017, cit., secondo cui «va effettuata una distinzione tra il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo, caratterizzandosi le due diverse fattispecie non solo per gli elementi costitutivi, ma anche per il regime probatorio a ciascuno applicabile».

(15) Carinci 2012a, spec. 644.

(16) Nel senso della tassatività dei fattori di discriminazione previsti dalla legge vd. Marinelli (2017a, 108), e ivi ulteriori riferimenti. In senso contrario, tuttavia, Carinci 2012b, 554.

(17) In tal senso, molto esplicitamente, Cass. 5.4.2016, n. 6575, cit., secondo cui «la di- scriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente – ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appar- tenenza alla categoria protetta – e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro». Sull’oggettività dei divieti di discriminazione, oltre alle commentatrici della sentenza citate a nota 2, vd. anche Scarponi 2017.

(18) Per la verità, all’indomani della riscrittura dell’art. 18 St. lav. era stato ipotizzato che il licenziamento ritorsivo non dovesse più essere sorretto da un motivo illecito in via esclusiva, posto che la disposizione non fa menzione dell’esclusività del motivo illecito, ma solo del suo carattere determinante: «perché determinato da un motivo illecito determinante» (In tal senso: Aiello 2013, 154; Carinci 2012b, 556, e ivi ulteriori richiami alla dottrina precedente; in senso dubitativo, Marazza 2012, 616). Tale ricostruzione, tuttavia, è stata avversata in dottrina (Barbera 2013, spec. 161, e Marinelli 2017a, 78, e ivi ulteriori riferimenti) e non ha riscosso fortuna in giurisprudenza, ferma nel richiedere l’unicità del motivo ritorsivo.

(19) Carinci 2012b, 557.

(20) Una differenza di trattamento basata su un fattore vietato, infatti, non costituisce una discriminazione se (e solo se) tale caratteristica rappresenta un requisito «essenziale e determi- nante» per lo svolgimento dell’attività lavorativa (cfr. art. 3, c. 3, d.lgs. n. 215/2003; art. 3, c. 3, d.lgs. n. 216/2003; art. 25, c. 2, d.lgs. n. 198/2006). Sul ruolo delle esimenti, vd., in parti- colare, Tarquini 2015, 21 ss., e La Tegola 2009.

(21) Vd., ad es., Cass. 16.7.2015, n. 14928, cit., secondo cui «il licenziamento per ritor- sione, diretta o indiretta [è] assimilabile a quello discriminatorio», come già affermato da Cass.

legge (22), operata al fine precipuo di estendere al licenziamento ritorsivo le medesime tutele previste per il licenziamento discriminatorio (23).

All’interno di questo secondo orientamento, tuttavia, si realizza una certa «confu- sione» tra le due figure (24), e, conseguentemente, tra le relative discipline, posto che la loro sovrapposizione può portare all’equivoco che anche il licenziamento discrimi- natorio debba essere sorretto da un qualche animus del datore di lavoro – snaturando così la portata oggettiva dei divieti di discriminazione di matrice eurounitaria –, ovve- ro, sotto altro profilo, che anche il motivo discriminatorio debba essere il motivo (il- lecito) unico e determinante del recesso ai sensi dell’art. 1345 c.c. (25).

In tale contesto, le pronunce in commento paiono collocarsi nel solco dell’orien- tamento più recente. Nella parte motiva, infatti, non compare pressoché alcun riferi- mento alla figura del licenziamento discriminatorio, né agli spazi di sovrapposizione e assimilazione tra motivo illecito e fattori di discriminazione. Solo in un paio di pas- saggi le due decisioni, richiamando alcune massime della Cassazione appartenenti al secondo dei succitati orientamenti, accennano alla possibilità di parificare le due figu- re; ma dal complesso delle motivazioni è chiaro che l’assimilazione tra le due figure ri- leva appena quoad effectum, vale a dire solo nella misura in cui si considera che a esse conseguono gli stessi effetti sanzionatori nel regime di cui all’art. 18 St. lav., da un la- to, e dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015, dall’altro.

Quanto al rapporto tra tali due regimi, anche se le pronunce in commento non se ne occupano (trattandosi di casi fuori dell’ambito di applicazione temporale e soggettivo del Jobs Act), pare opportuno evidenziare che al di là della diversa for- mulazione delle disposizioni esse possono ritenersi sostanzialmente equivalenti. Invero, il dato letterale dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015 – che non fa alcun riferimento al motivo illecito, ma solo ai casi di nullità «espressamente previsti dalla legge» (le

8.8.2011, n. 17087, cit., e Cass. 18.3.2011, n. 6282, in DeJure. In tal senso, nella giurispru- denza di merito più recente: T. Roma 2.8.2017, n. 7160; C. App. Roma 5.4.2017, entrambe in RIDL, 2017, n. 4, II, 708 ss., con nota di Marinelli, secondo cui «il licenziamento, ultimo di una serie di atti volti a reagire al legittimo rifiuto del lavoratore alla cessione del suo contratto di lavoro, è da ritenere ritorsivo, dunque discriminatorio e determinato in via esclusiva da mo- tivo illecito» (corsivo di chi scrive).

(22) Molto esplicitamente, Cass. 3.11.2016, n. 22323, cit., secondo cui «il divieto di li- cenziamento discriminatorio […] è suscettibile – in base all’art. 3 Cost. e sulla scorta della giu- risprudenza della Corte di Giustizia in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato Ce, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997 – di interpretazione estensiva, sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia». In ter- mini: Cass. 3.12.2015, n. 24648, cit.; Cass. 8.8.2011, n. 17087, cit.; Cass. 18.3.2011, n. 6282, cit.; Cass. 28.3.2011, n. 7046, in GDir., 2011, n. 21, 43 ss.; Cass. 3.8.2011, n. 16925, in RIDL, 2012, n. 2, II, 362 ss., con nota di Pederzoli.

(23) Lo rileva Barbera (2013, 168), per la quale «l’ipotesi interpretativa a cui lavorare al fi- ne di estendere la nozione di licenziamento discriminatorio ai casi di licenziamento ritorsivo fi- nora esclusi, attraverso un processo interpretativo controllato, che non perda di vista la ratio della normativa discriminatoria, è quella di includerlo nella fattispecie della discriminazione- molestia».

(24) Marinelli 2017b, 736.

cd. nullità «testuali») (26) –, aveva originariamente indotto una parte della dottrina a dubitare della collocazione del licenziamento per motivo illecito nell’ambito della tutela reintegratoria prevista dalla novella del 2015 (27). A tale lettura, tuttavia, è stato da più parti obiettato che anche la nullità prevista dall’art. 1345 c.c. ben può

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