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L’intervista a Carmen fu diversa da tutte le altre.

Lei aveva seguito (se pur indirettamente) tutte le tappe della produzione e quindi risentiva di un differente coinvolgimento nel progetto. Inoltre anche per me la situazione era particolare perché ero consapevole del fatto che quella sarebbe stata l’ultima intervista. Mi mancavano delle immagini di copertura capaci di mostrare la città, ma in quanto a testimonianze orali, sapevo di essere arrivato al capolinea. Dall’ultima intervista erano passate altre settimane, tempo che avevo utilizzato ancora una volta per far mente locale sul materiale accumulato: nonostante qualche ripensamento sul fatto di

trascurato o poco approfondito aspetti della ricerca, avevo capito che i tempi erano maturi per iniziare a considerare conclusa la fase delle riprese. Carmen mi aveva lasciato carta bianca su tutto e quindi non aveva mai voluto vestire i panni del supervisore che prende decisioni riguardo ai tempi da rispettare. Se questo si era rivelato all’inizio un fattore per evitare fastidiose pressioni, diventava un limite quando, in dirittura d’arrivo, iniziavo a chiedermi se davvero potessi considerare finito il lavoro. Carmen mi rassicurò dicendomi che se avessi voluto cercare altri referenti tra gli immigrati, lei avrebbe potuto contattarne di nuovi, ma avrei dovuto capire da solo se ce ne fosse stato davvero bisogno perché quello era un mio lavoro e certe cose non avrebbe potuto deciderle lei.

In effetti aveva ragione e i miei dubbi provenivano ancora una volta dall’inesperienza: per quel progetto non avevo seguito nessuna sceneggiatura capace di indicarmi quale fosse l’ultima scena o inquadratura da girare e quindi il fatto che mi sentissi un po’ smarrito ed insicuro non era poi così strano.

Il materiale accumulato in quei mesi era parecchio, avevo diverse ore di interviste e altrettante d’immagini di copertura che avrei potuto utilizzare come inserti o come meglio avrei creduto. Inoltre c’erano quelle preziose testimoniaze in super8 che pochi giorni prima i Lavezzari mi avevano affidato. Le avevo viste distrattamente nel loro salotto mentre Umberto, come uno

speaker troppo emotivo, le commentava cercando di ricordarne le date precise

e Carmen lo rimbeccava in continuazione dicendomi di non ascoltarlo perché non sarebbe stato attendibile.

Pochi giorni dopo ero di nuovo a casa Lavezzari e, scacciati i dubbi residui, avevo deciso: l’intervista a Carmen sarebbe stata l’ultima di Ma se ghe pesnu. Ci sistemammo in terrazza e dopo le solite operazioni di routine, sistemata l’inquadratura, dissi a Carmen che poteva iniziare a parlare, quando voleva. Anche lei, come gli altri immigrati, mi chiese che cosa avrebbe dovuto dire, ma in pochi secondi ci accorgemmo che la sua domanda era causa di quel

timido imbarazzo che quasi sempre precede l’azione. Sorrisi e le rispsosi che come tutti avrebbe dovuto dire quello che sentiva, ma forse poteva aggiungere qualcosa in più: all’inizio, a Leichhardt, aveva presentato questo progetto agli altri, oggi, che eravamo giunti alla fine, avrebbe potuto tirare le somme e dire che cosa pensasse di quest’avventura che avevamo vissuto insieme.

Carmen, brillante ed impeccabile come già si era dimostrata nell’intervista all’Associazione Napoletana, iniziò a parlare senza mai staccare gli occhi dalla macchina da presa, quasi come se la fissità del suo sguardo potesse darle la garanzia che il messaggio arrivasse a destinazione, in Italia.

Più che parlare della sua personale esperienza che in parte aveva ripercorso a Leichhardt, si soffermò sul presente elencando i suoi buoni propositi e le sue aspettative per il paese che aveva lasciato tanti anni prima.

Il suo è infatti un messaggio di speranza per i giovani italiani, un invito a lottare e, se neccessario, a ribellarsi contro tutto quello che non funziona come dovrebbe: contro la corruzione, contro il clientelismo, contro il meccanismo delle raccomdazioni su cui continua a reggersi gran parte del nostro sistema. Senza voler fare un plauso gratuito all’Australia ha voluto sottolineare come: <<… in Italia invece succede che… devi prendere quello che ti danno, devi essere grato…devi essere sempre lì a supplicare, a farti far la raccomandazione, insomma sono cose molto avvilenti, sono cose che non sono dignitose, e sono cose che ti fanno perdere quello spirito d’iniziativa, quello spirito di battaglia, che vuoi raggiungere qualcosa, e che se lo fai, è merito tuo…>>.

Una volta tornato in Italia, seduto al montaggio, avrei scoperto che alcuni ricordi della donna erano stati filmati e impressionati su quelle pellicole che avrei rimaneggiato. A Leichhardt Carmen aveva infatti raccontato di quando la domenica mattina, preparando la pasta fatta in casa, le veniva da piangere ascoltando alla radio qualche vecchia canzone italiana. Come per magia, quelle immagini erano lì, prove reali e inconfutabili di quello che stava

immobilizzare quegli attimi, avesse previsto una futura collocazione di quei ricordi. Ma certamente non era andata in quel modo, e per questo motivo riorganizzare quel materiale fu ancora più emozionante.

Nonostante il differente rapporto che avevo intrattenuto con Carmen (rispetto agli altri immigrati), mi accorsi che la sua intervista era perfettamente in linea con le altre, non c’era stato da parte mia un diverso modo di trattare il personaggio. Ciò fu dovuto dal metodo con cui avevo impostare il lavoro: tenendomi il più possibile in disparte e lasciando che fosse la persona intervistata a raccontare la sua storia direttamente allo spettatore, senza mediazioni di sorta.

A questo punto le riprese erano davvero finite. Non fui invaso da quella tristezza che di solito mi coglie quando finisco di girare qualcosa che ritengo importante. Mi ero volutamente lasciato l’impegno di filmare la città per rimandare quel momento.

Nei giorni seguenti trovai il tempo per pensare a quanto quest’esperienza si fosse rivelata piacevolmente strana. Non mi vergogno infatti nell’ammettere che quella commissione accettata in principio per guadagnare qualche dollaro, mi aveva coinvolto completamente e progressivamente fin dalla prima giornata di riprese. Lavorare a contatto con gente come Carmen e gli altri, mi aveva portato a credere che quel progetto poteva esistere ed acquistare la giusta dignità per “stare al mondo”. Con una macchina da presa, un cavalletto ed un microfono avevo dato la possibilità a diverse persone di dire quello che pensavano ricordando le difficoltà e le fatiche che avevano accompagnato la loro scelta. Sentirmi il responsabile nel fare da tramite organizzando quelle testimonianze e rendendole un unico messaggio collettivo, era e sarebbe stata la più grande delle ricompense. Si trattava di una questione di fiducia, qualcosa che non c’entrava un granchè con i soldi.