La prima giornata di riprese, oltre ad essersi rivelata un ottimo test per conoscere limiti e difficoltà (tecniche e non) che avrei potuto incontrare, grazie alla successiva riorganizzazione mentale del materiale girato, mi permise di iniziare a riflettere attentamente su aspetti cruciali della lavorazione. Avrei potuto chiudere la mia ricerca con l’appuntamento di Leichhardt? Quali sarebbero stati i “personaggi” di questo documentario? E quali le locations?
Considerando il fatto che nel cinema esistono figure professionali quali il
location-manager, la questione degli ambienti, dei luoghi in cui girare,
sarebbe stata sicuramente di rilievo in quanto gli spazi della rappresentazione spesso coincidono con la realtà, la realtà della storia, quella passata e rievocata o il presente dell’azione da filmare.
La cosa che pensai subito fu che avrei dovuto ascoltare altra gente. In primo luogo non ero del tutto soddisfatto della performance di Leichhardt, o meglio, stavo iniziando a pensare a quel girato come un buon materiale da utilizzare come zeppe costruttive, elementi satellitari, di passaggio o per una buona
ouverture, ma qualcosa da gestire in pillole. Rapide autopresentazioni, schegge d’identità che siglate da nomi e numeri (le date degli sbarchi in Australia), avrebbero reso l’idea della portata del fenomeno migratorio. Se questa scelta avesse suggerito una serialità capace di appiattire o uniformare le esperienze, il gioco sarebbe terminato nel momento in cui avrei dato il giusto spazio al singolo.
Fu per questo motivo che valutai l’importanza di un confronto face to face, un rapporto diretto tra me e i singoli referenti, una conversazione privata al riparo da interferenze esterne capaci di frenare la spontaneità di chi avesse voluto sbottonarsi un po’ di più raccontando un’esperienza più intima o personale. Carmen Lavezzari aveva utilizzato la mailing list dell’Associazione per informare i liguri che erano mancati all’appuntamento di Leichhardt, sollecitandoli a partecipare al progetto. Le avevano risposto cinque o sei persone in tutto. Non erano molte, ma decisi ugualmente di raggiungerla a casa sua per prendere contatti e decidere il da farsi.
Da vera ligure, mi aveva preparato anche gli gnocchi al pesto. Iniziammo subito ad entrare nel vivo dell’argomento già da seduti a tavola. Carmen conosceva coloro che l’avevano contattata per partecipare al progetto, così le chiesi di parlarmi un po’ di loro. Mi fornì subito dei piccoli ritratti ben delineati, ma senza scendere nello specifico, descrivendo in modo imparziale raccontandomi soprattutto le esperienze che avevano avuto: come si erano arrangiati dopo l’arrivo in Australia, che lavoro avevano trovato, dove vivevano adesso.
Dopo aver discusso a lungo sull’identità dei potenziali attori del documentario, capii che valeva la pena ascoltarli tutti. In fondo erano meno di una decina e vista l’economia del digitale non avrei dovuto badare al risparmio permettendomi di registrare tutto. Ma soprattutto, non potevo basarmi sulle descrizioni (pur quanto imparziali) fornitemi da Carmen, avrei voluto conoscere di persona questa gente ed ascoltarne l’esperienza. Soltanto dopo
avrei potuto giudicare quanto fosse interessante ai fini di quella ricerca che tutto sommato era appena cominciata.
Il problema delle locations si era praticamente risolto da solo: avrei dovuto spostarmi in lungo e in largo per Sydney, a Manly dalla famiglia Lavezzari e da Franca Arena, nel sobborgo di Canterbury da Anna Mansueto, a Paddington e addirittura a Jervis Bay, la baia naturale situata a 150 chilometri da Sydney. Sarebbe stato sufficiente filmare anche soltanto parte degli spostamenti verso quelle mete per avere un po’ di materiale da utilizzare come inserti. Ma le vere locations sarebbero state le case delle persone. Quello che mi attirava di più era l’idea di infiltrarmi, con permesso, in quelle abitazioni dove avrei ricercato tracce di un’italianità, sommersa o sopravvissuta, o segnali di matura integrazione. Sono sempre stato attratto dalle case: vedere dove vive una persona, come è arredata la sua casa, la presenza di libri, quadri, fotografie o l’assenza di questi elementi. La casa è come una chiocciola di lumaca e ti fa capire molto di una persona, quasi come se il carattere, i tic, i ricordi si depositassero sui muri come uno strato sottile ed invisibile, ma percettibile.
Sapevo che sarei potuto restare deluso da quegli incontri o semplicemente avrei potuto raccogliere del materiale poco adatto al documentario, ma due cose erano certe: se non avessi iniziato, se non fossi partito, non l’avrei mai saputo. Inoltre, il fatto di non avere la più pallida idea su chi avrei incontrato mi rendeva, sì, incerto ed insicuro, ma al tempo stesso quasi azzerava le mie aspettative: quella sensazione di brancolare nel buio era la condizione ideale per “lasciarsi riempire”, un po’ come era accaduto a Leichhardt. Avrei preparato delle domande di riferimento, ma sarebbero servite soprattutto a rompere il ghiaccio, per superare quella parete invisibile eretta sull’asse della macchina da presa, poi, la cosa importante sarebbe stata ascoltare, registrare, e non soltanto nel senso tecnico del termine.
Riguardo alla produzione, avevo comunque raggiunto dei punti di riferimento: delle persone da intervistare, delle locations (le loro case), e una persona
(Daria) che mi avrebbe dato una mano durante le riprese, una specie di assistente. Scegliendo delle date, avrei ottenuto se pur in forma basilare, quello che in gergo si definisce un piano di lavorazione.
Non avrei avuto bisogno di un costumista, di uno scenografo, di un truccatore, di un macchinista e nemmeno di un elettricista. Queste figure non mi servivano. Avrei dovuto concentrare in me le maestranze di operatore alla macchina, direttore della fotografia e tecnico del suono; in poche parole ero solo, io e i miei attrezzi: treppiede, microfono, videocamera. One man band, l’uomo orchestra.
A questo punto la regia non poteva essere che la risultante di questo incrocio di maestranze, ma avrei dovuto aggiungere una buona dose di lucidità, sensibilità e soprattutto onestà. Appurato tutto questo, restava soltanto una cosa: mettersi in gioco.