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4.3. Casi giurisprudenziali affrontati dalla Corte di Giustizia

4.3.3. Caso 3: Il caso della Commissione delle Comunità

Un altro profilo utile alla ricostruzione del nostro tema, è dato dal caso nel quale la Commissione delle Comunità europee, avendo considerato il regime italiano di gestione delle farmacie incompatibile con gli artt. 49 TFUE123 e 63 TFUE124 (prima 43 e 56 CE), avviava il procedimento per inadempimento previsto all’art.258, primo comma TFUE125 (prima 226 CE)

122 Cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sez.), sent. del

19 maggio 2009 nella causa C-531/06.

123 Art. 49 TFUE dispone “Nel quadro delle disposizioni che seguono, le

restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.

La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.”

124 Art. 63 TFUE, paragrafo 1, dispone “Nell'ambito delle disposizioni

previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi.”

125 Art. 258 TFUE, comma 1, dispone “La Commissione, quando reputi

che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni.”

contro la Repubblica italiana, in sostegno della quale intervenivano la Repubblica ellenica, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, la Repubblica di Lettonia e la Repubblica d’Austria.

La normativa italiana a tal proposito riservava la titolarità e la gestione delle farmacie private ai soli farmacisti, contrariamente alle norme comunitarie che vietavano qualsiasi tipo di norma che andasse limitando la libertà di stabilimento o della circolazione dei capitali.

In conformità all’art.258 TFUE, nel marzo 2005 la Commissione inviava dunque una lettera di diffida alla Repubblica italiana, invitandola a presentare le proprie osservazioni, e nel dicembre 2005 emetteva un parere motivato con il quale invitava tale Stato membro ad adottare le misure necessarie a conformarsi agli obblighi ad esso incombenti in forza del Trattato europeo, nel termine di due mesi a decorrere dal ricevimento di tale parere.

Non soddisfatta della risposta delle autorità italiane a detto parere motivato, la Commissione decideva così di proporre il ricorso in esame alla Corte di Giustizia Europea affinché condannasse l’Italia per essere venuta meno agli obblighi previsti dal diritto comunitario.

La Corte innanzitutto premetteva e affermava che era di competenza degli Stati membri l’organizzazione dei propri servizi sociali e sanitari, tra i quali dovevano essere comprese le farmacie.

Il limite che gli Stati incontravano nel disegnare detta organizzazione era quello riguardante la libertà di circolazione, compresa la libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali.

Per comprendere se gli Stati membri introducevano illegittime restrizioni a detti principi, si doveva quindi osservare, in ognuno di questi ordinamenti, che valore veniva assegnato alla vita e alla salute delle persone, dal momento che essi occupano, nella scala dei valori comunitari, il primo posto.

La Corte riconosceva ai singoli Stati membri la facoltà di definire il livello al quale intendevano garantire la tutela della sanità pubblica e il modo in cui questo livello doveva essere raggiunto, ma aggiungeva che, nel caso della vendita di medicinali, era necessario che fosse utilizzato un livello di attenzione più elevato considerati gli effetti che potevano derivarne, quali, ad esempio, i gravi danni alla salute se assunti senza necessità o in modo sbagliato.

Proprio per questi motivi la normativa, in tale ambito, richiedeva la presenza di personale qualificato e professionalmente preparato, quale il farmacista; al contrario delle parafarmacie ove era ammessa la sola presenza di personale senza la qualifica di farmacista, ossia di addetti senza il possesso di una formazione, un’esperienza e una responsabilità equivalente a quella dei farmacisti.

In questa direzione, pertanto, era legittimo che la normativa di uno Stato membro - nel caso di specie quella dello Stato italiano - indicasse alcune limitazioni invalicabili per la gestione e la proprietà delle farmacie quali, ad esempio, l’accesso soltanto ai farmacisti abilitati.

Più volte la Corte aveva rilevato in precedenti sentenze che l’esclusione dei soggetti non farmacisti dalla possibilità di gestire una farmacia o di acquisire partecipazioni in società di gestione di farmacie, costituisse una restrizione della libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali, ma,

aggiungeva, che tale restrizione era giustificata dall’obiettivo per cui era stata posta, ossia di garantire un rifornimento di medicinali alla popolazione sicuro e di qualità.

Per questi motivi la Corte decideva che “le libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali non ostano ad una normativa nazionale che impedisce a soggetti che non hanno il titolo di farmacista di possedere e gestire farmacie”, affermando inoltre che “non solo si può giustificare l’esclusione dei soggetti non farmacisti dalla gestione di una farmacia privata, ma anche il divieto, per le imprese di distribuzione di prodotti farmaceutici, di acquisire partecipazioni in farmacie comunali” ed infine respingeva il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione contro l’Italia.

4.3.4.Caso 4: Il caso della Ottica New Line nella causa C-