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5.1 «Se questo è un uomo» e l’Inferno di Auschwitz

Da un punto di vista letterario, le opere di testimonianza di Primo Levi costituiscono un‟eccezione all‟interno della classificazione di genere e hanno, più di una volta, diviso la critica sulla loro collocazione in questo o in quel versante. Sarebbe del tutto inappropriato, infatti, inserire i libri di Levi nell‟ambito della semplice memorialistica concentrazionaria, oppure della cronaca neorealista, intesa come reazione al clima di «disimpegno» che aveva caratterizzato il ventennio fascista. La memorialistica postbellica era, nell‟immediato dopoguerra, nel suo pieno rigoglio e si articolava attraverso la produzione di diari, testimonianze, cronache, sempre nel rispetto del canone della fedeltà ai fatti. Era giunto il momento di lasciare spazio alla figura dello scrittore non professionista – o come ebbe a definirlo Bassani, l‟«intellettuale che scrive» -, per il quale l‟adeguamento ai modelli letterari tradizionali era preoccupazione minore rispetto alle urgenze polemiche, sentimentali e morali che doveva denunciare.

Ma l‟esperienza letteraria di Levi, come abbiamo già avuto modo di notare, non si esaurì con le sue due prime opere di testimonianza, alternando ad esse anche racconti biologico-fantastici, racconti “industriali”, saggi di riflessione sul mestiere di scrittore e di chimico, e addirittura un romanzo. Si tratta di opere difficilmente ascrivibili ad un preciso genere letterario tradizionale; la loro natura ibrida dovrebbe spingere a «chiederci che cos‟è la letteratura e, di conseguenza, qual è il significato della scrittura»372.

Leggendo Se questo è un uomo e La tregua, il lettore non si troverà di fronte ad uno sterile ed impersonale resoconto cronachistico dei fatti vissuti, bensì sentirà crescere dentro di lui un sentimento di indignazione via via più forte, senza però che tale sentimento sia stato esplicitamente dichiarato dall‟autore. Quello che trovo essere il più grande pregio della scrittura leviana è questa straordinaria capacità autorale di esprimere «l‟offesa» subita eludendo i termini dell‟esplicita condanna e lasciare, piuttosto, che sia il lettore ad essere indotto ad esprimere un giudizio morale. Questa strategia rispecchia fedelmente il ruolo di testimone che Levi decide

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di assumersi: durante il processo, il testimone è chiamato a riferire i fatti che ha visto o ha vissuto dal suo punto di vista, ma aderendo comunque sempre alla verità; chi è tenuto a giudicare e a emettere una sentenza non è lui, ma coloro che ascoltano la sua parola. Ciò fa sì che l‟opera di Primo Levi si distanzi dalla documentazione storiografica e si collochi, piuttosto, sul versante della letteratura. Mentre in molti libri sulla tragedia dell‟olocausto si avvertiva una forte enfasi sul giudicare tutto, sull‟attribuire colpe, sul separare “manicheamente” i buoni dai cattivi, in quelli di Levi nulla veniva tralasciato, tutto l‟orrore era espresso, ma «senza che la voce si alzasse di un decibel»373. Levi, infatti, era contrario alle generalizzazioni di razza e non odiava, pertanto, i tedeschi:

Tutti i giudizi generali sulle qualità intrinseche, innate, di un popolo mi sanno di razzismo. Intendo esserne immune […] di fatto, mi interessa molto la cultura tedesca […] ho amici tedeschi. Non provo assolutamente l‟equivalente dell‟avversione antigiudaica del tedesco Hitler. Non mi è nato nessun riflesso condizionato. Anzi, questa mia curiosità, che permane, per la Germania di allora e di adesso, direi che esclude l‟odio.374

Levi, dunque, non odiava i tedeschi, ma li accusava di viltà, di non aver mai cercato di sapere di più su quello che stava succedendo alle porte di casa loro. Ciononostante, preciserà molto bene, non odiare non significa perdonare: «il perdono al colpevole che non si pente, o che non dà segni certi di essersi pentito, non lo accetto. Non mi sembra che rientri nelle cose giuste…»375

.

L‟esperienza concentrazionaria di Primo Levi ha permesso allo scrittore torinese di operare, a posteriori, un processo di assimilazione inversa rispetto a quella che aveva caratterizzato l‟ebraismo italiano nel periodo immediatamente successivo l‟emancipazione, ovvero una reintegrazione nell‟universo ebraico. Tale reinserimento si articola in più fasi: dalla graduale ricostruzione di una tragedia ebraica collettiva, in un primo tempo, alla scoperta del mondo yiddish askenazita, in seconda istanza, e alla consapevolezza di un‟impossibilità di fuga dalla ciclicità della storia del suo popolo.

373

Sono parole di Ferruccio Maruffi, amico di Primo Levi, che spesso ha accompagnato lo scrittore torinese nelle scuole per discutere con i ragazzi il tema della deportazione. Cfr. Appendice a A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi. Il presente del passato. Giornate internazionali di studio, Torino

28-29 marzo 1989, a cura del Consiglio regionale del Piemonte-Aned, Franco Angeli, Milano, 1991,

p. 219.

374 F. Camon, Conversazione con Primo Levi, cit., p. 21. 375

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In un primo momento, il deportato Levi percepisce un senso di appartenenza ad una comune collettività storica, che ha origine già dalla detenzione nel campo di Fòssoli: per la prima volta si trovava inserito in un ambiente esclusivamente ebraico, dove tutti condividevano lo stesso marchio dell‟emarginazione a causa di una “colpa” che nessuno di loro riusciva a spiegare. La descrizione che Levi offre dei preparativi durante l‟ultima notte che precede il viaggio, come abbiamo già accennato precedentemente, lascia percepire un avvicinamento intimo e spontaneo tra i prigionieri, che non deriva semplicemente dalla comune condizione di detenuti, ma allude a qualcosa di più profondo. È su quest‟immagine che si apre il libro di testimonianza e l‟impiego di una sintassi dai toni biblici ben si presta a conferirle una certa solennità. Lo stesso sentimento di unione e condivisione viene esplicitamente rappresentato al momento dell‟arrivo nel campo di Monowitz, dove uomini, donne, vecchi e bambini vengono brutalmente separati gli uni dagli altri e destinati chi al processo di metamorfosi in detenuto del Lager, chi ad essere inghiottito quella notte stessa. In questa circostanza, Levi, impiegando il pronome «nostri», lascia riaffiorare quella nozione di coralità e di fusione comunitaria che le tre generazioni - i bambini, gli adulti e gli anziani - personificavano e che in quel momento viene, però, spietatamente recisa: «Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli»376 (corsivo mio).

Dopo il congedo dal consorzio umano, ecco che il «viaggio verso il nulla […] all‟in giù, verso il fondo»377, conduce i prigionieri nell‟Inferno-Auschwitz, dove ha subito inizio la metamorfosi in detenuto del Lager e con essa il processo di annientamento, prima fisico e poi morale, dell‟umanità e di ogni identità personale. I detenuti vengono immediatamente privati degli oggetti personali che avevano con sé, poi degli abiti, successivamente dei capelli e infine del nome: la caduta nell‟anonimato è immediata, tanto che ognuno di loro può rispecchiarsi nei «cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi»378, senza alcuna possibilità di distinzione.

La privazione del nome rappresenta il momento chiave del processo di disumanizzazione. Il nuovo “battesimo”, attraverso il tatuaggio numerario, sancisce

376 SQU, p. 17. 377 Ivi, p. 14. 378

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ufficialmente la bestializzazione dell‟uomo: una metamorfosi già avviata con l‟ammassamento nel vagone bestiame, durante il viaggio verso il macello, e che si concretizzerà maggiormente – oltre che con il tatuaggio - nella disinfezione dai parassiti, nella tosatura e nell‟assenza di posate per il rancio. Il ricorso al nome- numero, dettato da ragioni pratiche o dal macabro gusto della registrazione, riflette la tendenza classificatoria e contabile tedesca. Il principio di base era che, a differenza del nome anagrafico, il numero poteva rivelare l‟epoca di ingresso al campo, il convoglio di cui il prigioniero faceva parte, la sua nazionalità, ma anche la tipologia di strategie comportamentali legate alla lotta per la sopravvivenza: infatti, spiega Levi, i piccoli numeri, inferiori al 150000 corrispondevano a coloro che erano riusciti furbescamente ad adattarsi alla vita del campo, il più delle volte compromettendo la propria integrità morale, mentre i numeri alti corrispondevano ai nuovi arrivati, ancora inesperti e spaventati e, pertanto, con maggiore probabilità di soccombere. Con la sottrazione della nominatio di nazionalità, di famiglia e di persona, siamo in cospetto dell‟anonimato, che meglio si realizza se il numero, perdendo la sua interezza, si riduce alle ultime cifre. È il caso di Null Achtzehn, ovvero Zero Diciotto, il quale, privo della denominazione del gruppo di appartenenza, simboleggia la totale nullificazione del personaggio. Primo Levi si trasforma, dunque, nell‟Häftling 174517. Ora, il Nome, nella religione e tradizione giudaica, ha potere generante, dal momento che nella Genesi Dio plasma il mondo proprio attraverso il Nome; pertanto, la conservazione del Nome equivale alla salvezza della forma di vita che ne è portatrice, equivale a preservarne la memoria e a fuggire, dunque, dalla morte.379 Nel suo libro, Levi decide di accordare il nome solo a coloro che sono riusciti a conservare una certa integrità morale, o perché sono morti e scomparsi dalla scena prima che la perversa vita del campo potesse corromperli («Così morì Emilia, che aveva tre anni […] Emilia, figlia dell‟ingegner Aldo Levi di Milano»380

; «Nella baracca 6 A abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli […]»381

), o perché, da internati, sono riusciti in un modo o nell‟altro a riconquistare la dignità di

379

Sull‟importanza del Nome nella tradizione ebraica, cfr. E. Kertesz-Vial, L’œvre comme un

tombeau: l’espace et le temps de la mort dans les écrits de Giorgio Bassani, in «Transalpina», n. 5,

2001, p. 96; P. Frandini, op. cit., p. 84. Sul valore del Nome in Se questo è un uomo di Primo Levi, cfr. B. Porcelli, L’ultimo e il primo. Perdita e riacquisto del nome in “Se questo è un uomo” di Levi, in In principio o in fine il nome. Studi onomastici su verga, Pirandello e altro Novecento, op. cit., pp. 182-190.

380 SQU, p. 17. 381

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uomini, riemergendo dal fondo in cui erano precipitati. Si pensi ai due più cari (probabilmente unici) veri amici con cui Levi ha condiviso l‟esperienza del campo: «[…] questo è il Block di Alberto! Alberto è il mio migliore amico […] Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e corrotto»382; o si pensi all‟incontro con Lorenzo, l‟operaio che per sei mesi offrì a Levi un pezzo di pane ogni giorno, un gesto sufficiente a confermare che «era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo»383. Vedremo come anche per Primo Levi si innescherà il processo di riacquisizione del proprio nome, per gradi, così come per gradi dalla morte rinascerà la vita. Egli stesso dirà: «Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga»384.

È fin troppo chiaro come la demolizione e l‟annientamento dell‟uomo nel Lager non si riferisca esclusivamente ad un‟eliminazione fisica. Quello che Primo Levi, nei suoi incontri con i ragazzi delle scuole, cercava di far loro capire era che nel campo dominava il disprezzo dell‟uomo, della sua dignità; «non era tanto la camera a gas o il vitto che era scarso, l‟essere picchiati, ma era tutto il resto, proprio il disprezzo»385

. Il nazismo puntava ala metodica sottrazione di quanto costituisce la specificità dell‟essere uomo, inteso come genere, come gruppo sociale e come individuo singolo dotato di esigenze fisiche e spirituali. Egli viene spogliato di ogni traccia di civilizzazione, privato della dimensione temporale del passato e soprattutto del futuro, della facoltà di intelletto e del raziocinio, della possibilità di comunicare. Da uomo, l‟ebreo veniva prelevato con la forza dal mondo di affetti e di valori che lo circondava e diventava, pertanto, prigioniero; da prigioniero veniva trasformato in deportato, con l‟ingresso nel campo; successivamente in schiavo, completamente privo di diritti e la cui vita dipendeva esclusivamente dal libero arbitrio del suo aguzzino-padrone; gradualmente si attuava il processo di bestializzazione, nelle modalità che abbiamo visto poc‟anzi, e infine, ancora più lentamente, si compieva la sua più totale reificazione. Posto di fronte al carattere disperato della sua condizione,

382

Ivi, p. 51.

383 Ivi, p. 109. 384 Ivi, p. 23.

385 Sono parole del già citato Ferruccio Maruffi, cfr. Appendice a A. Cavaglion (a cura di), op. cit., p.

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nel maggior numero dei casi il detenuto era costretto, se voleva sopravvivere, ad eliminare qualsiasi sentimento di indignazione o di tristezza, riducendosi pertanto ad un semplice oggetto, uniforme e inerte, incapace di compiere qualsiasi reazione; un «sommerso», sostanzialmente. Spiega Nezri-Dufour, che per distruggere l‟ebreo in modo esemplare «bisognava prima farlo soffrire, annientarlo intellettualmente e moralmente, poi togliergli ogni virtù e apparenza umana. Diventato un essere assente e totalmente vuoto, doveva allora essere logicamente distrutto»386, poteva, allora, precipitare dantescamente sul fondo, verso la sommersione. Alla luce di ciò, le parole di Levi risultano più che chiare:

Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sa casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.387

Sopprimere, ancor prima dell‟uomo, la sua umanità, faceva sì che anche che fosse riuscito a sopravvivere non ne sarebbe rimasto nulla. Da questa amara consapevolezza Levi ricava un sentimento di profonda vergogna – che verrà meglio esplicato nelle prime pagine de La tregua – giustificandolo col fatto che «ci avevano distrutti anche quando non erano riusciti ad ucciderci. Il loro crimine ci aveva contaminati»388.

Questa sorta di “contaminazione” si riferisce al fatto che, una volta attuato il processo di disumanizzazione, tra i cosiddetti «sommersi» e i cosiddetti «salvati» si veniva a creare una categoria intermedia di individui, appartenenti a quella zona grigia, che si bilanciava fra compromissioni con il sistema e slanci di autenticità. Non è possibile, spiega Ada Neiger, ragionare in termini netti di chiaro e scuro, perché «ogni persona può albergare in sé la belva, il conflitto»389; pertanto, la collocazione soggettiva di ognuno deve essere continuamente ridefinita. Per

386 S. Nezri-Dufour, Primo Levi: una memoria ebraica…cit., p. 46. 387 SQU, p. 23.

388

Questo intervento è inserito in una lettera di Levi al pubblico di Zurigo, che aveva assistito verso la fine del ‟76 alla messa in scena teatrale di Se questo è un uomo e aveva chiesto all‟autore di esplicare meglio le motivazioni che lo hanno spinto a intitolare con quelle parole la sua opera. Le parole di Levi sono riportate in G. Poli – G. Calcagno, op. cit., p. 49.

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sopravvivere, i deportati erano costretti, in un modo o nell‟altro, a soppiantare i loro simili, replicando così l‟atto micidiale di Caino. Il germe del delitto di Caino lo ritroveremo in Se non ora, quando?, quando il protagonista Mendel elaborerà la consapevolezza che «ognuno è l‟ebreo di qualcuno». È assurdo e storicamente falso, afferma Levi nella Prefazione a La notte dei girondini di Jacob Presser, «ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un‟ossatura politica o morale»390. La vittima e l‟oppressore condividono due mondi che non stanno uno di fronte all‟altro, bensì uno dentro l‟altro, come nel doppio sogno che conclude La tregua.

La rielaborazione del tema del confine sottile tra la vittima e il carnefice, avverrà molti anni più tardi con il saggio I sommersi e i salvati (1986), in cui l‟autore rivisiterà la sua terribile esperienza concentrazionaria alla luce di una migliore messa a fuoco di alcuni fenomeni, per lo più solo accennati in Se questo è un uomo. È il caso del capitolo intitolato «La zona grigia», dove si parla della particolare condizione dei cosiddetti «prigionieri privilegiati», ovvero di coloro che erano riusciti a sopravvivere a discapito di altri, o che erano comunque scesi a compromessi con le SS, assumendosi incarichi di un certo tipo. La figura del prigioniero-funzionario ha il compito di iniziare il deportato appena giunto alla vita del campo, sedando immediatamente qualsiasi forma di resistenza e spegnendo quella «scintilla di dignità che tu forse ancora conservi e che lui ha perduta»391. Levi riporta l‟esempio dei Sonderkommandos di Auschwitz, conosciuti come «Squadra Speciale», o detti anche «corvi del crematorio»392, i quali erano incaricati di gestire le operazioni dei crematori, nelle sue forme più agghiaccianti. Il fatto che dovessero essere «gli ebrei a mettere nei forni altri ebrei»393, rivelava la volontà del sistema nazista di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa. In questo modo, «le SS potevano scendere in campo, alla pari o quasi»394, con gli appartenenti alla zona grigia e gridar loro: «Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo

390 P. Levi, Prefazione a J. Presser, La notte dei girondini, Adelphi. Milano, 1997, p. 13. La stessa

citazione è riportata in P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 27. D‟ora in avanti le citazioni tratte da quest‟opera porteranno la dicitura SS.

391 SS, p. 28. 392 Ivi, p. 40. 393 Ivi, p. 38. 394

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con noi. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme»395. Daniele Del Giudice riflette sul paradossale rovesciamento del concetto di “contaminazione”, dal suo originario significato di impurità del sangue ebraico, proclamata dalla propaganda antisemita degli anni Trenta, all‟accezione capovolta e perversa di colpa e vergogna, che niente potrà mai cancellare.396

Di fronte a questa categoria di persone, lo scrittore sostiene che sia estremamente difficile dare un giudizio397 e tale posizione riflette la poetica leviana di non voler mai – e in ciò risiede, a mio avviso, uno dei suoi più grandi pregi come scrittore - fornire un giudizio morale o una esplicita condanna sulle circostanze che sono oggetto della sua narrazione, con l‟intenzione di provocare, piuttosto, una certa reazione di indignazione nel lettore, il quale sarà portato, spontaneamente, ad elaborare un proprio giudizio critico o morale.

Quando la brutale routine dei campi veniva temporaneamente sospesa, ai detenuti veniva concessa una “tregua” dalle condizioni disumane alle quali erano costretti e avevano, così, la possibilità di misurare appieno la condizione nella quale erano stati ridotti. I sentimenti di angoscia e di vergogna accompagnano, come abbiamo accennato, la consapevolezza del proprio svilimento: si prova vergogna per non aver avuto la capacità di reagire; vergogna per aver mancato in termini di solidarietà umana; vergogna per essere vivi al posto di qualcun altro, meno fortunato; infine, la vergogna per la consapevolezza dell‟esistenza del male. Ecco che Auschwitz si oppone al principio divino della Creazione, costituendo, al contrario, il luogo dove il mondo e l‟uomo vengono “decostruiti”. Non ci sono più dubbi, quindi, sul fatto che «Questo è l‟inferno»398

.

A questo punto, acquisterà maggiore chiarezza la scelta di inserire una poesia come Shemà in epigrafe a Se questo è un uomo. Essa è riportata inizialmente senza titolo, il quale sarà rivelato al momento della pubblicazione della stessa poesia ne

395 Ivi, p. 41.

396 D. Del Giudice, Introduzione a P. Levi, Opere, a. c. di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997, p. XLI. 397

«Questi santi o oppressi erano in maggiore o minore misura costretti a compromessi, anche molto gravi qualche volta, davanti a cui il giudizio può essere assai difficile […] Il dividere in bianchi e neri vuol dire non conoscere l‟essere umano», intervista di Giorgio Grassano a Primo Levi, rilasciata il 17 settembre 1979, in G. Grassano, op. cit., p. 15.

398

126 L’osteria di Brema (1975)399

. La data indica che è stata composta il 10 gennaio 1946, dunque prima o durante la stesura di Se questo è un uomo, che avviene tra il

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