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«Una certa speciale complicità e connivenza». La ricerca dell'identità ebraica nelle opere di Giorgio Bassani e Primo Levi

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Academic year: 2021

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Introduzione

Nell‟immediato secondo dopoguerra si assiste ad una spaccatura tra le esigenze morali della società postbellica e quelle di coloro che la guerra l‟avevano marchiata sulla propria pelle e cercavano, adesso, di reinserirsi nelle fila della vita normale. Se, da un lato, era fortissima l‟esigenza dei sopravvissuti di ricordare e raccontare il loro trauma, diverso era invece l‟atteggiamento della società letteraria e delle case editrici, le quali preferivano dare la priorità a temi come la lotta vittoriosa contro il nazi-fascismo, la lotta partigiana, la letteratura dell‟«impegno», in poche parole, prediligevano tutto ciò che esprimesse il bisogno di ricominciare. Sembrava quasi che si volessero rimuovere tutte quelle vicende spaventose e traumatiche che l‟uragano della guerra aveva portato con sé, quasi a cercare a tutti i costi di evitare di fermarsi a riflettere sulle cause che avevano potuto contribuire allo sviluppo di certe dinamiche, che avrebbero costituito il preludio del precipitare degli eventi.

Soltanto alla fine degli anni Cinquanta il mondo culturale e letterario torna a interessarsi della tragica vicenda degli ebrei e prende, così, avvio tutta una cospicua produzione sulla vita nei campi di concentramento, sul fenomeno dell‟emarginazione razziale e così via. Basti pensare che un‟opera come quella di Se questo è un uomo di Primo Levi non ebbe, nel 1946, un immediato successo editoriale, e dovette aspettare proprio la fine degli anni Cinquanta per essere pubblicata da quella stessa casa editrice – mi riferisco alla Einaudi – che una decina di anni prima l‟aveva rifiutata.

Il clima culturale sviluppatosi negli anni Settanta fu largamente favorevole alla «presa di parola» dei testimoni di un‟epoca come quella degli anni Trenta e Quaranta: in tutto il mondo occidentale si assisté ad un rinnovato interesse per il genocidio degli ebrei e per le testimonianze personali dei perseguitati, nel quadro della tendenza politico-culturale a dar voce agli esclusi, a coloro la cui voce era stata soverchiata dai vincitori o dai potenti, pur avendo subito la storia sulla loro pelle.

La scelta di elaborare una tesi su questo tema, a sufficienza conosciuto ma sorprendente nella sua attualità, rispecchia lo stesso interesse di molti studiosi, fortunatamente non soltanto ebrei, attratti dalla singolarità di un argomento non semplice da affrontare, ma incredibilmente affascinante per la varietà delle sue ramificazioni. La curiosità che ha mosso il mio lavoro di ricerca è nata anni fa, con la

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lettura e l‟analisi del romanzo breve Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani, oggetto della mia tesi di Laurea triennale. In quella sede, oltre che essere riuscita ad accostarmi ad un autore di cui non avevo ancora letto nulla, avevo per la prima volta percepito un sostrato escatologico che sentivo sfuggirmi. Bassani riusciva a comunicarmi che sotto le sue posate parole esisteva un universo del tutto particolare, a me sconosciuto, in grado di offrire le chiavi per raggiungere un senso ai limiti dell‟ineffabile. Da qui, l‟accesa curiosità di volgere i miei studi verso l‟approfondimento di Giorgio Bassani e del ciclo della sua opera, restandone assolutamente colpita. Perciò, ho deciso che avrei voluto svolgere il mio lavoro di tesi specialistica partendo da Bassani stesso, ma cercando di inserirlo in un contesto più ampio, confrontandolo con un altro importantissimo autore che, come lui, era stato marchiato con il segno del «diverso», per l‟appunto Primo Levi.

Pertanto, in questo elaborato mi sono proposta di entrare con circospezione all‟interno dell‟universo culturale ebraico, del quale fino ad ora sapevo poco o nulla, da un punto di vista storico, culturale ed escatologico, per cercare di risalire a quelle peculiarità, appartenenti alla storia e alla cultura giudaica, che percepivo solo a livello superficiale nelle opere dei due autori. In questo modo, ho conosciuto le caratteristiche del contesto culturale che essi, più o meno consapevolmente, portano dentro di loro e che finiscono inevitabilmente per rappresentare nelle loro opere.

Data l‟immensa vastità del tema e del patrimonio storico-culturale, ho scelto di volgere la mia indagine sui modi in cui i due autori in questione elaborano il proprio concetto di identità ebraica nel corso dei fatidici anni persecutori. Operando un confronto tematico in parallelo fra Giorgio Bassani e Primo Levi, sono giunta a rilevare certamente molti punti di contatto, dovuti alla loro stessa condizione di ebrei emarginati, ma anche molti punti di divergenza, specialmente sul piano artistico, e non contenutistico.

Il filo conduttore del mio lavoro consiste nell‟indagare quale tipo di senso di appartenenza all‟ebraismo percepissero i due autori, prima e dopo la promulgazione delle leggi razziali, episodio che segnerà un vero e proprio spartiacque nella coscienza di tutti gli ebrei italiani. Procedo cercando di capire come e in quale modo le vicende biografiche del giovane ferrarese e del giovane torinese possano procedere di pari passo, oppure dividersi drasticamente. Analizzo come entrambi abbiano

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cercato di recuperare il loro patrimonio culturale di origine nel periodo postbellico, tornando con la memoria a quegli stessi anni e a quegli stessi luoghi dove tutto aveva avuto origine, e indagare su quali potessero essere le possibili cause che avevano concorso a far precipitare drasticamente gli eventi. Scopriamo, dunque, che i germi del male sotterraneo, che sarebbe esploso in tutta la sua brutalità alla fine degli anni trenta, erano già insiti nei rapporti tra la comunità israelitica e quella cristiana, nonostante fosse stato portato a compimento quell‟intenso processo di assimilazione che aveva avuto origine dalle lotte risorgimentali.

Il trauma della loro identità potrà essere risanato solo attraverso una metaforica discesa negli abissi infernali dell‟orrore della guerra, ma anche della propria anima, scoprendo che le origini del male potevano annidarsi in chiunque, anche le stesse vittime. Preso atto dell‟impossibilità di sanare la «ferita» subita, entrambi opteranno per una scelta letteraria che sancirà il riscatto dell‟uomo, come soggetto attivamente partecipe della storia, e la purificazione dal male conosciuto.

Tengo a cuore ringraziare il mio Relatore, il Professor Sergio Zatti, che conosco ormai da molti anni e di cui ho sempre apprezzato la professionalità, non disgiunta dalla gentilezza, dall‟umanità e dalla cortesia che sempre mi ha accordato. Un ringraziamento particolare anche al mio Correlatore, il Professor Arrigo Stara, il quale si è mostrato fin da subito interessato al tema da me trattato e ha rispettato la mia “tempistica” nella consegna dell‟elaborato. Ringrazio inoltre la Professoressa Sophie Nezri-Dufour, dell‟Università di Aix-en-Provence, che ho avuto l‟onore e il piacere di incontrare e conoscere durante il mio lungo soggiorno marsigliese, in occasione di una conferenza su Giorgio Bassani. Grazie alla disponibilità e alla gentilezza della professoressa è stato possibile, per me, ampliare di gran lunga la conoscenza bibliografica su Bassani e su Levi, e ricevere lo stimolo per un confronto tra i due autori. In ultimo, ma non per importanza, ringrazio la mia famiglia, che ha passato lunghe notti insonni per solidarietà, e tutti i miei amici, che non mi hanno mai abbandonata nei momenti più intensi.

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Capitolo I. L’universo ebraico e il percorso di un’identità complessa

1.1 Chi sono gli Ebrei? Interrogativo di non facile risposta

Quando Giacomo Debenedetti, in un capitolo di Otto ebrei, a proposito di cosa significasse l‟ebraismo, affermò che fosse «questione da non venirne così facilmente a capo»1, confermò la difficoltà di fronte alla quale cittadini, scrittori, critici e pensatori di varia estrazione da sempre si sono trovati al momento di definire il loro sentirsi “ebrei”. Per di più l‟opera dello scrittore torinese risale al 1944, anno in cui porsi degli interrogativi circa la propria identità era, per gli appartenenti alla comunità ebraica, necessario più che mai.

Non è certo facile impresa definire la realtà ebraica, anzi per più versi «è davvero impossibile ricondurla entro parametri univoci».2 Basti pensare all‟impiego, nella lingua italiana, di molti termini quali “ebreo”, “giudeo”, “israelita”, “israeliano”, che certamente esprimono realtà e sfumature distinte, ma allo stesso tempo evidenziano inevitabili punti di raccordo fra loro.3 Occuparsi di ebraismo comporta anzitutto una dilatazione degli orizzonti spaziali e temporali: infatti la storia ebraica si svolge ininterrotta da millenni e le aree geografiche che hanno rilevato o rilevano la presenza di ebrei si estendono per tutti i cinque continenti. Tra l‟altro la situazione attuale vede la presenza ebraica articolata su due grandi poli, l‟uno rappresentato da una maggioranza residente all‟interno dello Stato d‟Israele, e l‟altro costituito dalla Diaspora, vale a dire dalle molteplici comunità ebraiche sparse per il mondo. Un simile schieramento non poteva che suscitare difficoltà nell‟intento di affermare la specificità di gruppo, per cui l‟interrogativo cruciale sulla propria identità è ancora oggi vivissimo.4

Nonostante si tratti di un termine polisemantico, il concetto di identità fa riferimento alla «coscienza, anche collettiva, della propria individualità e personalità»5, al sentirsi un‟entità distinguibile da tutte le altre, accettata e

1 G. Debenedetti, 16 ottobre 1943 – Otto ebrei, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 78. 2 P. Stefani, Gli ebrei, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 21.

3 Per una chiara distinzione dei suddetti termini, cfr. Ivi, pp. 7-10. 4 Cfr. Ivi, p. 12.

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riconosciuta come tale dal proprio gruppo o dalla propria cultura di appartenenza. Enrico Fubini giustamente osserva che gli ebrei non sono stati certo gli unici a porsi il difficile quesito:

[…] forse che non si ponevano questo problema gli italiani nel Risorgimento? O i negri d‟America? O tutti i popoli ex coloniali, ed ancora gli armeni, i baschi, i meridionali a Torino o a Milano, i palestinesi, e lo stesso movimento femminista non affonda forse le sue radici in un problema d‟identità?6

Il problema di un‟autodefinizione, osserva il critico, scatterebbe in tutta la sua urgenza nel momento in cui la propria identità viene in qualche modo contestata, o dall‟esterno o dall‟interno stesso del gruppo di appartenenza. Fatto curioso, se pensiamo che la parola identità deriva da idem, ossia “identico”, e dovrebbe quindi designare elementi che accomunano, avvicinano, anziché essere «brandita come pretesto per separarci»7. È allora necessario ridefinirsi in rapporto agli altri, a coloro che negano la nostra specificità, ma anche e soprattutto ridefinirsi in rapporto a se stessi. Ecco che il problema è insieme psicologico, individuale, collettivo, ma soprattutto concettuale. Tuttavia, preso atto che occorre ridefinire il proprio rapporto con il mondo, è bene non abbandonarsi a troppe generalizzazioni: infatti, riconducendo l‟identità ebraica ad un problema di negazione di essa da parte altrui «si verrebbe a dar ragione a chi pensa che l‟ebraismo deve la sua vita all‟antisemitismo e che con la scomparsa delle persecuzioni […] anche gli ebrei col tempo avrebbero perso la loro ragion d‟essere»8

.

Il problema elementare di stabilire se gli Ebrei siano una razza, una nazione, un gruppo religioso o culturale, rimane tuttora insoluto. Ogni plausibile definizione dell‟ identità ebraica deve tener conto sia di una componente collettiva, sia di una precisa serie di avvenimenti storici, nonché di una saldatura avvenuta tra il popolo e la religione ebraica. In questo caso, però, con religione non si vuole intendere un

6

E. Fubini, L’identità ebraica è ancora un problema attuale?, in «La Rassegna mensile di Israel», vol. L, n. 5-6-7-8, maggio-giugno-luglio-agosto 1984, p. 321.

7 G. Lerner, Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 47, citato

in A. Neiger, Da Elsa Morante a Elena Loewenthal. Breve viaggio nell’ebraitudine, in Scrittori

italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale. Atti del Convegno , Utrecht-Amsterdam, 5-7 ottobre 2006, a cura di Raniero Speelman, Monica Jansen, Silvia Gaiga, in Italianistica Ultraiectina. Studies in Italian Language and Culture, Igitur, Utrecht Publishing &

Archiving Services, Utrecht, 2007, p.196.

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insieme di dettami e di prassi da osservare , bensì una componente culturale che da sempre ha svolto un ruolo storico determinante nel costituire e nel mantenere l‟identità del suo popolo. Nessun ebreo, per quanto laiche siano le sue convinzioni, potrebbe mai negare il peso fondamentale che la religione ha avuto nella sua comunità.9 Come spiega Luca De Angelis, «si può essere ebreo con Dio o contro Dio, ma non senza Dio […] perché la storia ebraica è, in realtà, la biografia di Dio»10. A tal proposito sarà interessante segnalare l‟intervento del giovane Nello Rosselli al Convegno Ebraico tenutosi a Livorno nel novembre 1924, al quale parteciparono i maggiori esponenti del sionismo italiano, da un lato, e giovani ebrei italiani non necessariamente ortodossi, dall‟altro. Rosselli esordì affermando anzitutto che non era un sionista e che non sentiva il problema ebraico come fondamentale e unico nella propria vita: «Io sono un ebreo che non va al tempio il sabato, che non conosce l‟ebraico, che non osserva alcuna pratica di culto»11

. Egli si sente a pieno un cittadino italiano e in quegli anni di forti tensioni e equilibri precari «non intende sentir discutere la sua più o meno legittima appartenenza a questa patria»12.

Ma voi direte. Allora in che ti senti ebreo? […] Mi dico ebreo, tengo al mio ebraismo perché […] è indistruttibile in me la coscienza monoteistica, che forse nessun‟altra religione ha espresso con tanta nettezza – perché ho vivissimo il senso della mia responsabilità personale […] perché amo tutti gli uomini come in Israele si comanda di amare, anzi come in Israele non si può non amare […] perché ho quel senso religioso della famiglia che, a chi ci guarda dal di fuori, appare veramente come una fondamentale e granitica caratteristica della società ebraica.13

Ecco che per il Rosselli, ebreo non ortodosso e non osservante, l‟ebraismo non si realizza nel rispetto formale dei riti e delle tradizioni, ma è sentito come concezione religiosa della vita. La pratica della religione ebraica non dovrà, quindi, creare un distacco tra i suoi seguaci e la patria (come vorrebbero alcune posizioni sioniste), bensì dovrà accordarsi con la realtà della vita; solo in questo modo sarà possibile abbattere il contrasto, percepito da molti, tra l‟essere ebreo e l‟essere italiano. Un

9 Per una riflessione circa il rapporto tra religione e laicità nella cultura ebraica, cfr. P. Stefani, op. cit.,

pp. 12-19.

10

L. De Angelis, Qualcosa di più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano: da

Svevo a Bassani, La Giuntina, Firenze, 2006, pp. 82-83.

11 L‟intervento di Nello Rosselli è riportato in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il

fascismo, Einaudi, Torino, 1972, pp. 89-90.

12 Ivi, p. 89. 13

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modo di concepire l‟ebraismo come religione della libertà, potremmo dire crocianamente, ergendosi a fondamento di un impegno di vita. Interventi di questo spessore rispecchiano l‟antifascismo passivo di quegli ebrei che, pur non essendo sionisti, «videro nel ritorno o nella riaffermazione della loro ebraicità il modo di difendersi e di reagire alla dittatura»14.

Pertanto, l‟ebraismo non può essere assunto soltanto come un insieme normativo e dottrinale, né è totalmente identificabile con le vicende storiche e culturali di un determinato gruppo umano; infine, non può nemmeno ridursi esclusivamente alle molteplici identità individuali dei singoli ebrei. «Tuttavia, pur non coincidendo con nessuna di queste definizioni, non può nemmeno respingerne alcuna»15. Non esagera Wirth affermando che probabilmente non c‟è nessun altro popolo, come quello ebraico, che abbia offerto la base per le conclusioni più contraddittorie.16

Dunque, chi sono gli Ebrei? Antico interrogativo che non prevede una risposta univoca. Oggi forse vi sono «tanti modi di essere ebrei quanti sono gli ebrei stessi»17 e solo l‟ignoranza può considerarli tali da «formare una razza nel senso etnico del termine»18. Anzitutto è necessario stabilire se definire l‟ebraicità di ciascun individuo sulla base di criteri soggettivi (ovvero dei sentimenti personali di appartenenza) o di criteri oggettivi (relativi alla nascita o a una conversione ufficialmente riconosciuta). Secondo i precetti stabiliti dalla Halakhah, la legge rabbinica, «chiunque sia nato da madre ebrea o si sia convertito al culto ebraico osservando le norme della tradizione ebraica e ottenendo l‟approvazione del tribunale rabbinico è ebreo»19. Da un punto di vista “oggettivo”, dunque, è il legame genealogico da parte materna che unisce l‟ebreo al proprio popolo e tale congiunzione non potrà mai venir meno. Infatti, anche quando un ebreo si converte ad un‟altra religione non si produce alcuna modificazione sull‟ebraicità della sua persona, anzi, egli potrà continuare a sentirsi “oggettivamente” e “soggettivamente” appartenente alla sua comunità di origine; diverso è invece il caso del goj (non ebreo) che, convertendosi all‟ebraismo, recide ogni nesso con il suo gruppo, diventando

14 Ibidem. 15

P. Stefani, op. cit., p. 10.

16 L. Wirth, Il ghetto, Edizioni di Comunità, Milano, 1968, p. 57.

17 A. Chouraqui - J. Daniélou, Ebrei e cristiani, Borla, Torino, 1967, p. 18, citato in A. Neiger,

Bassani e il mondo ebraico, Loffredo Editore, Napoli, 1983, p. 10.

18 P. Stefani, op. cit., p. 16. 19

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ebreo a tutti gli effetti.20 L‟individuo nasce entro «una specie di grande famiglia (il popolo ebraico) e in essa si è oggettivamente inseriti» - punto di vista “oggettivo” - «chi non le appartiene può scegliere di aggregarsi ad essa. Quest‟ultimo passo lo si può però compiere solo in virtù delle proprie personali convinzioni religiose […]»21 - punto di vista “soggettivo”.

Su altrettanti criteri oggettivi si articola la posizione del governo fascista in merito alla definizione di “Ebrei di cittadinanza italiana”. Nella Dichiarazione sulla razza, infatti, si legge:

Il Gran Consiglio, circa l‟appartenenza o meno alla razza ebraica stabilisce quanto segue:

a) È di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei;

b) È di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera;

c) È di razza ebraica colui che pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica;

d) Non è di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto e professa altra religione all‟infuori dell‟ebraica.22

Ma è davvero possibile ricondurre l‟essenza ebraica a una serie di canoni concreti e ben stabiliti, e sulla base di questi esaurirne tutto il suo significato? Solitamente uno sguardo che osserva dall‟esterno il mondo ebraico tende a riconoscerlo attraverso le manifestazioni identitarie più evidenti, ancor di più quando esse si distaccano fortemente dai modelli socio-culturali vigenti nella comunità di maggioranza. Ciò dà inevitabilmente origine ad immagini stereotipate che non possono che richiamare alla mente il modello shakespeariano di Shylock, per cui l‟ebreo sarà individuato come tale sulla base di una serie di clichés fisici (barba, capelli lunghi, naso adunco, abbigliamento lungo e nero, strani cappelli, un curioso accento straniero) e morali (dedizione all‟ attività commerciale, furbizia, avarizia, etc...)23. Tuttavia, come osserva Wirth, «l‟Ebreo è molto più chiaramente definito come tipo sociale che come tipo fisico»24.

Sono interessanti alcune risposte all‟interrogativo sulla propria identità da parte di alcuni pensatori di origine ebraica. Jean Paul Sartre è dell‟opinione che «L‟Ebreo è

20

Sulla questione, cfr. P. Stefani, op. cit., pp. 14-16.

21 Ivi, p. 15.

22 Dichiarazione sulla razza, in R. De Felice, op. cit., p. 568. 23 Cfr. L. De Angelis, Qualcosa di più intimo…cit., pp. 50-51. 24

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un uomo che gli altri uomini considerano Ebreo»25. Martin Buber sostiene che «[…] non solo il costume dei padri, ma anche la loro sorte, tutto, pena, miseria, vergogna, tutto questo ha contribuito a formare la nostra essenza, la nostra individualità»26. Sulla stessa linea è la posizione di Isaac Deutscher:

Se non la razza allora cos‟è che fa un ebreo? La religione? Io sono ateo. Il nazionalismo ebraico? Sono un internazionalista. […] Ma sono ebreo lì dove subentra la mia incondizionata solidarietà con i perseguitati e le vittime degli eccidi. Sono ebreo in quanto sento mia la tragedia degli ebrei, in quanto percepisco il pulsare della storia ebraica […]27

.

Queste ultime citazioni introducono un nuovo punto di vista per capire cosa significhi “sentirsi ebreo”. Non si tratta unicamente di un‟eredità culturale costituita da riti, precetti e costumi ben precisi; si tratta piuttosto di un‟eredità storica. È proprio vero, come ci ricorda Wirth, che «gli Ebrei sono ciò che la loro storia li ha fatti»28; tutti i membri della comunità ebraica si sentono partecipi della stessa tradizione storica che nei secoli ha visto protagonista il loro popolo, indipendentemente dalla distanza geografica o dalla differenza di generazione. La celebrazione del Seder pasquale, ad esempio, ben si presta ad esemplificare il concetto. Questa cerimonia – che Giorgio Bassani descrive accuratamente in un capitolo de Il giardino dei Finzi-Contini - fa riferimento alla cena che si svolge la prima sera di Pasqua e che prevede la consumazione di pani azzimi e agnello, in ricordo della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto. Infatti la Bibbia parla di una cena consumata in fretta, prima che il pane avesse il tempo di lievitare, e di un agnello arrostito, mangiato assieme a erbe amare.29 Durante il convivio i partecipanti narrano ininterrottamente le origini del proprio popolo: il padre, di anno in anno, racconta a suo figlio l‟episodio biblico, diventando egli stesso protagonista della liberazione dall‟Egitto; non tanto perché ne abbia mai beneficiato in prima persona, ma perché trasmettendo la storia delle proprie origini a chi viene dopo di lui riesce ad attualizzare il passato del suo popolo nel presente. In tal modo si adempie al precetto biblico che prescrive di raccontare al proprio figlio l‟uscita dall‟Egitto, e

25 J. P. Sartre, Ebrei, Edizioni di Comunità, Milano, 1948, p. 68, citato in A. Neiger, Bassani e il

mondo ebraico, cit., p. 8.

26 M. Buber, Sette discorsi sull’Ebraismo, Israel, Firenze, 1923, p. 3, citato in A. Neiger, Bassani e il

mondo ebraico, cit., p. 8.

27 I. Deutscher, L’Ebreo non Ebreo, Mondadori, 1969, pp. 64-5, citato in A. Neiger, Bassani e il

mondo ebraico, cit., p. 9.

28 L. Wirth, op. cit., p. 227. 29

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così facendo si instaura un processo di identità culturale, per cui la storia dell‟Esodo diventa eredità di tutti. «[…] Dio non liberò solo i nostri padri, ma liberò pure noi con loro»30. Quest‟idea di libertà non riguarda solo gli ebrei, ma vuole riferirsi a tutte le vittime dell‟oppressione, di qualsiasi paese e confessione religiosa esse siano. Ognuno diventa il resto - efficace termine coniato da Sergio Parussa 31- di un passato che chiede di non essere dimenticato e la storia della liberazione dalla schiavitù in Egitto diventa memoria viva di ogni schiavitù e ogni liberazione, individuale e collettiva, nel nostro presente. Dunque la storia ebraica sarebbe una rappresentazione dell‟esistenza umana nel suo complesso, una storia di tutti. Usando un‟equazione di Jehudà ha-Levi, potremmo dire che «Israele sta all‟umanità come il cuore sta all‟organismo umano»32

. Ecco che l‟assunzione del particolarismo ebraico arriva ad avere valenza universale. La narrazione delle vicende bibliche, che si rinnova di anno in anno, conferma che la tradizione ebraica si articola, nei secoli, secondo il modello della ripetizione; pertanto possiamo parlare di una realtà che trascende ogni costrizione della storia e del tempo. Questo antistoricismo, ricorda Magris,33 è la causa della difficoltà in cui da sempre si è trovata la religione giudaica nell‟agire concretamente sulla realtà storico-sociale che la circondava, la stessa difficoltà di cui parlava Nello Rosselli nel suo intervento, poc‟anzi citato. Ma ciò che preme sottolineare resta comunque il fatto che proiettandosi in una dimensione atemporale l‟ebraicità viene percepita come assoluta, fondendo il passato con il presente.

Per gli autori presi in esame in questo lavoro il recupero dell‟ebraismo non consiste soltanto nel raccontare storie di soggetto ebraico, ma anche e soprattutto nel proporre «un uso attivo della memoria in cui il passato viene salvato per mezzo della sua riattualizzazione nel presente»34. Infatti, nei testi letterari che saranno discussi nei prossimi capitoli la trasmissione della memoria ebraica coinciderà molto spesso con uno «stemperarsi dell‟esperienza individuale in quella collettiva»; si assisterà, quindi,

30 R. S. Sierra, Conoscere gli ebrei, Torino Enciclopedia, 1982, p. 92, citato in L. De Angelis,

Qualcosa di più intimo…cit., p. 160.

31 Cfr. S. Parussa, Scrittura come libertà, scrittura come testimonianza. Quattro scrittori italiani e

l’ebraismo, Giorgio Pozzi Editore, Ravenna, 2011.

32

La citazione di Jehudà ha-Levi è riportata da L. De Angelis, La reticenza di Aron. Letteratura e

antisemitismo in Italo Svevo, in M. Carlà – L. De Angelis (a cura di), L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, Palombo, Palermo, 1995, p. 56.

33 C. Magris, Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Einaudi, Torino, 1971,

p. 111.

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al percorso di maturazione di un «io» narrante che, venuto a contatto con una serie di circostanze, gradualmente arriverà a diluirsi in un «noi», trovando così le prime risposte al drammatico quesito sulla propria identità.

1.2 «Qualcosa di più intimo»: un’ambivalenza contraddittoria

Abbiamo appena osservato come tra gli appartenenti alla comunità ebraica esista un sottile legame che sopravvive nonostante la distanza geografica e temporale; essi condividono una profondità storica ed escatologica che non scompare mai del tutto. Sono partecipi di una comune memoria, di un comune destino storico, di una segreta trasmissione che si perpetua da una generazione all‟altra. Per capire meglio l‟essenza di questo “segreto legame” sarà necessario riproporre la citazione di Debenedetti con la quale abbiamo aperto questo primo capitolo. Dopo aver affermato che l‟ebraismo è «questione da non venirne così facilmente a capo», l‟autore aggiunge:

In ogni caso, si tratta d‟una faccenda di stretta intimità. […] Sono cose di privato sentimento, tutte confinate nella zona dei pudori, non mai estrovertite nell‟azione: e non toccano quindi il contegno sociale dell‟uomo, né lo differenziano da quello dei suoi simili – e tanto meno glielo contrappongono.35

Queste parole non possono che richiamare alla mente un detto promosso dall‟Haskalah, il cosiddetto illuminismo ebraico, che così formulava il principio comportamentale che ogni appartenente alla comunità ebraica avrebbe dovuto assumere: «Sii ebreo in casa e uomo fuori»36. L‟individuo vive dunque la propria ebraicità in una dimensione intima, privata e segreta, propendendo invece alla mimetizzazione con i membri del gruppo di maggioranza all‟esterno. Alla base di tale identità ambivalente, divisa tra un aspetto ufficiale esteriore ed uno interiore criptoebraico, starebbe una finissima ed elaborata cultura del segreto,37 che avrebbe garantito la sopravvivenza della comunità ebraica nei secoli.

L‟intimo e segreto “legame” era certamente più percettibile agli occhi degli altri ebrei italiani rispetto a quelli degli estranei alla comunità. Non a caso Natalia Ginzburg, in La vita immaginaria, dichiara:

35 G. Debenedetti, op. cit., pp. 78-79.

36 L. De Angelis, Qualcosa di più intimo…cit., p. 48. 37

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Se mi succede di incontrare in un qualche luogo una persona che scopro ebrea, istintivamente ho la sensazione di avere con essa qualche affinità. Dopo un minuto magari la trovo odiosa, ma permane in me un senso di segreta complicità. […] non riesco a reprimere una strana e buia sensazione di connivenza.38(il corsivo è mio).

La stessa sensazione è finemente descritta da Giorgio Bassani nel momento in cui il protagonista de Il giardino dei Finzi-Contini e l‟amico Bruno Lattes arrivano a scambiarsi quell‟«inevitabile occhiata di ebraica connivenza che, mezzo ansioso e mezzo disgustato»39(il corsivo è mio) già prevedeva. Ecco che tutte «le occhiate d‟intesa», i «cenni confidenziali» che i fratelli Alberto e Micòl Finzi-Contini indirizzano al narratore, alludono a «qualcosa di più intimo […] apprezzabile nel suo valore soltanto da chi ne era partecipe […] in virtù di una tradizione più antica di ogni possibile memoria»; insomma qualcosa «riguardante noi e soltanto noi»40.

Il carattere esclusivo di questo sentimento ha purtroppo dato spesso adito ai pregiudizi più negativi. Infatti, da un punto di vista antisemita, dissimulando ciò che realmente sono e fanno, gli ebrei occulterebbero fini inconfessabili o presunte cospirazioni.41 Il prezioso noi, che abbiamo visto connettere intimamente tutti gli appartenenti alla comunità ebraica rendendoli compartecipi di una medesima memoria storica e culturale, starebbe invece a comprovare uno spirito di casta, di complotto. Di antisemitismo si è ampiamente occupato Vladimir Jankélévitch nel suo meraviglioso saggio La coscienza ebraica e, anche se non è questa la sede per formulare una trattazione completa sul tema, alcune riflessioni possono aiutarci a meglio affrontare la complessità dell‟argomento. Secondo il filosofo francese l‟antisemitismo è un fenomeno complesso che prevede una tensione tra un sentimento di superiorità e un sentimento di inferiorità, e che pertanto è necessario non banalizzare. Il non ebreo si farebbe carico di un sentimento di prevaricazione verso l‟ebreo, ma attraverso l‟odio, il disprezzo e la violenza maschererebbe, in realtà, un segreto sentimento di inferiorità e paura verso tutto ciò che appare impalpabile, mobile e poco definito. Quasi una «segreta gelosia dei popoli

38

N. Ginzburg, Opere, Mondadori, Milano, 1995, II, pp. 641-646, citato in Ivi, p. 125.

39 G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, in Il romanzo di Ferrara, Mondadori, Milano, 1991, I, p.

337.

40 Ivi, pp. 302-303. 41

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maggioritari per il popolo sottile, industrioso, laborioso e infelice»42. Anche quegli ebrei che avevano deciso di abbandonare la loro lingua e religione d‟origine per integrarsi a pieno nella società maggioritaria, continuavano comunque a conservare quel che di speciale, di complice, che li differenziava rispetto ai goïm (plurale di goy, “non ebreo”) e li univa gli uni agli altri in ogni circostanza.

Jankélévitch parla dell‟esistenza di un particolare in-più che non dipende dalla religione, né dalla razza, né tantomeno dalla nazionalità: si tratta di «una evidenza inevidente che non ha esistenza giuridica e che tuttavia è parte integrante del nostro essere e della nostra natura». Questo in-più consiste in un principio di alterità che gli ebrei incarnano, ovvero in un principio per cui l‟individuo sente di dover affermare e difendere la facoltà di essere se stesso e contemporaneamente di essere un altro da sé. Ogni uomo, spiega il filosofo, è altro da se stesso, tuttavia ci sarebbe nell‟identità ebraica «una quantità supplementare di alterità che risiede nel fatto di sottrarsi ad ogni definizione»43. Nel caso, infatti, che un individuo abbia due nazionalità, per l‟ebreo non sarà appagante l‟idea di appartenere contemporaneamente allo Stato francese – per esempio – e allo Stato d‟Israele, perché egli rifiuta di lasciarsi circoscrivere in una definizione; perché egli è “altro”. La complicazione non risiede tanto nel “fare” quanto nell‟ “essere”: è una profondità segreta che impedisce all‟ebreo di essere un uomo puro nel senso chimico della parola,44

di appartenere interamente alla categoria di israeliano o di un‟altra nazionalità. L‟odio che l‟ebreo può suscitare scaturisce, dunque, dal solo verbo che non comporta alcuno sforzo, essere; egli è colpito non per la religione di appartenenza, non per il colore della pelle, ma per una complicazione ontologica.

L‟apertura verso l‟alterità, l‟interesse per ciò che è straniero e per ciò che sta al di là di se stesso ha fatto sì che l‟ebreo venisse spesso rimproverato di cosmopolitismo, senza pensare che quest‟attitudine, in lui naturale, potesse invece rappresentare un invito ad uscire dal proprio guscio, a liberarsi dal provincialismo della città chiusa e a mobilitare, così, ciò che è “immobile”.45Uno dei moventi dell‟antisemitismo è quello, dunque, di voler rinchiudere l‟ebreo nella sua limitatezza ebraica e definirlo

42

V. Jankélévitch, La coscienza ebraica, La Giuntina, Firenze, 1986, p. 19.

43 Ivi, p. 8.

44 Vedremo nei capitoli successivi quanto sia importante il concetto di “purezza” e “impurità” per

Primo Levi.

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esclusivamente per questa caratteristica. Usando un‟efficacie formula di Jankélévitch, diremo allora che «è all‟infinito che il popolo ebraico è definibile; il che non è che un altro modo di dichiararlo indefinibile, dal momento che l‟idea di definizione implica quella di finitezza»46.

Sarà bene segnalare che la difficoltà di definizione che concerne la coscienza ebraica non suscita sentimenti di ostilità esclusivamente da parte del non ebreo. Il fenomeno conosciuto come “l‟odio di sé dell‟ebreo” è assolutamente frequente – come del resto accade in tutte le minoranze – e consiste nel sentimento di ostilità che spinge l‟individuo a porsi in conflitto con se stesso e con il proprio gruppo, sebbene gli appartenga una innata tendenza alla solidarietà.47Abbiamo avuto una prima manifestazione di questa attitudine nelle due citazioni con cui si è aperto questo paragrafo. Descrivendo il primo incontro tra due o più individui ebrei, sia Natalia Ginzburg sia Giorgio Bassani spiegano che tra questi viene subito ad instaurarsi un‟intima complicità, una sensazione di connivenza. Ora, il termine “connivenza” potrebbe risultare inadeguato in un contesto di profonda affinità, perché sta ad indicare un «tacito consenso o tolleranza nei confronti di un‟azione colpevole»48

. Eppure il suo impiego ben si presta a dimostrare una difficoltà ontologica che genera nell‟individuo un qualche senso di colpa. Usare parole come odiosa (riferito a “persona”) e disgustato fanno capire quanto l‟io narrante nutra sentimenti di risentita irritazione nei confronti dell‟altro individuo ebreo, che si trova improvvisamente davanti a lui. L‟intensità di questa avversione è in realtà correlata all‟atteggiamento della collettività verso la minoranza ebraica: se aumenta l‟ostilità della comunità di maggioranza si acuisce anche la ripugnanza dell‟ebreo verso il proprio gruppo. Chiariamo fin da subito che tale sentimento di disprezzo appartiene esclusivamente all‟individuo che percepisce di trovarsi su una linea di confine tra due mondi: da un lato c‟è il gruppo minoritario dove è cresciuto e che gli offre protezione, dall‟altro c‟è un mondo totalmente diverso da quest‟ultimo, che lo attira notevolmente, ma che non vuole consentirgli una piena integrazione. È così che nasce la figura dell‟ebreo marginale, continuamente frustrato perché incerto riguardo l‟appartenenza a uno dei due gruppi e perché vive, di conseguenza, una profonda crisi d‟identità. Non sa perché è ebreo, ma non sa nemmeno perché non lo è. A differenza dei suoi simili,

46 Ivi, p. 20.

47 Sull‟odio di sé dell‟ebreo, cfr. A. Neiger, Bassani e il mondo ebraico, cit., pp. 23-28. 48

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che sono psicologicamente in accordo con il proprio gruppo, l‟ebreo marginale non riesce a riversare la sua energia negativa verso la società di maggioranza, che gli impedisce di abbandonare totalmente il suo gruppo originario. Ciò accade perché essa ricopre per lui una posizione troppo elevata e potente per essere attaccata; pertanto l‟aggressività verrà più facilmente rivolta verso la propria comunità minoritaria.49 Tuttavia questa sorta di repulsione verso l‟altro non fa che mascherare una repulsione verso se stesso, verso la propria natura contraddittoria.

Abbiamo precedentemente spiegato che la coscienza ebraica prevede una tensione interiore tra l‟essere se stessi e l‟essere altro da sé. Nell‟ebreo marginale questa caratteristica si esprime sotto forma di un‟ambivalenza contraddittoria che da un lato comporta il desiderio di cancellare la differenza, mentre dall‟altro il desiderio di conservarla. La contraddizione sta nel fatto che l‟individuo desidera sopprimere l‟ostacolo differenziale e i suoi segni distintivi per assomigliare in tutto e per tutto ai membri del gruppo maggioritario, ma nello stesso momento desidera anche preservare la differenza con segreta fierezza, «come un fiore raro, come una pianta preziosa che dovremmo coltivare in noi»50. Voler essere al tempo stesso sé e altro da sé è una caratteristica universalmente umana, ma nell‟ebreo questo desiderio sprigiona contemporaneamente il controdesiderio, creando in tal modo un‟onda d‟urto. Naturalmente , come osserva Jankélévitch, questa doppia ricerca ha generato nel tempo numerosi malintesi, quali il sospetto di ipocrisia e doppio gioco, o più semplicemente l‟accusa di non sapere ciò che si vuole. Nelle società comuniste, ad esempio, che vogliono l‟uguaglianza di tutti gli uomini, l‟ebreo «sarebbe il solo che, di fronte all‟omaggio reso all‟uomo in quanto uomo in una società senza alienazione, resterebbe insoddisfatto»51. Da parte sua, l‟antisemitismo ha ingiunto all‟ebreo di prendere partito tra le due tentazioni rinchiudendolo nel dilemma alternativo: «o non sei diverso dagli altri accettando di assimilarti a loro, e allora abbandoni le tue usanze, oppure sii solo ebreo, e accetta il ghetto»52. Dunque il bersaglio non è tanto la condizione giuridica degli ebrei, né una questione di aspetto o di comportamento, quanto piuttosto il fatto che essi possano rappresentare la libertà di essere uguali e diversi allo stesso tempo.

49 Cfr. A. Neiger, Bassani e il mondo ebraico, cit., p. 26. 50 V. Jankélévitch, op. cit., pp. 13-14.

51 Ivi, pp. 14-15. 52

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«La contraddizione all‟ebreo non spiace»53 e adesso è forse più chiaro capire perché sia così difficile riuscire a formulare una definizione precisa per l‟identità ebraica. Sarebbe meglio parlare di aporia ebraica, in quanto siamo di fronte ad un problema le cui possibilità di soluzione risultano annullate in partenza dalla contraddizione interna.

1.3 Dalla Diaspora al ghetto

Secondo Jankélévitch, la tensione interiore che contraddistingue l‟anima ebraica troverebbe la sua unica soluzione nel movimento, così come «il divenire, che è la nostra vocazione, risolve la contraddizione dell‟essere e del non essere»54

. Infatti lo spirito di mobilità, che si oppone alla tendenza all‟insediamento, da sempre è stato considerato una prerogativa di Israele. La storia delle peregrinazioni giudaiche ricopre un arco temporale che fa risalire le sue origini all‟epoca biblica per giungere fino all‟era contemporanea. La tradizione vuole che sia proprio un atto di mobilitazione a determinare la nascita del popolo d‟Israele, inteso come collettività consacrata a Dio. Mi riferisco all‟esodo dall‟Egitto, episodio cardine ricordato durante la celebrazione della Pesach, la Pasqua ebraica, al quale seguirono la traversata nel deserto del Sinai e l‟ingresso nella terra di Canaan. Questi pochi riferimenti già basterebbero a comprovare che la religione giudaica è di tipo “storico” e non “cosmico”. In seguito alla rioccupazione della Terra Promessa il popolo ebraico visse un lungo periodo di pace fino alla morte di Salomone (933 a. C.). Le tensioni sociali e le lotte dinastiche portarono alla formazione di due regni distinti: il Regno di Israele al nord, e il Regno di Giuda al sud, con capitale Gerusalemme.55In momenti diversi i due regni caddero sotto una dominazione straniera: dapprima ci fu la conquista di Gerusalemme da parte dell‟esercito babilonese di Nabucodonosor nel VI secolo a. C. ( periodo conosciuto anche con il nome di “cattività babilonese”); successivamente, nel I secolo a. C. la terra d‟Israele passò sotto il controllo romano e l‟intero territorio fu ridotto a provincia dell‟impero con il nome di Palestina. In epoca tardoantica i diritti degli ebrei furono presi di mira dalla legislazione discriminatoria voluta da Costantino sia in Occidente sia in

53 L. De Angelis, Qualcosa di più intimo…cit., p. 65. 54 V. Jankélévitch, op. cit., p. 28.

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Oriente, così il popolo giudaico subì ripetutamente duri attacchi e violente espulsioni, come quella da Alessandria all‟inizio del V secolo. Lo scopo era quello di disperdere continuamente la popolazione in altri territori, impedendole non solo di dar vita a gruppi rivoluzionari ma anche di praticare il proprio culto.

Questa premessa storica è utile per capire l‟origine del fenomeno conosciuto come “Diaspora”, termine ormai riferito principalmente alla comunità ebraica e indicante lo stanziamento – non necessariamente provocato o imposto da una forza esterna – di una popolazione e delle sue istituzioni fuori dal territorio di origine, distribuendosi in diverse parti del mondo. Dunque con l‟invasione romana e la distruzione di Gerusalemme si apre, nella storia ebraica, un lungo capitolo di migrazioni e ricerca di nuove dimore. Tuttavia, ciò non significa che fino a quel momento gli ebrei fossero rimasti confinati in Palestina, poiché la tradizione riferisce la loro presenza in Asia Minore, in Italia, in Spagna e in Germania già in era pre-cristiana; più semplicemente potremmo dire che prima di quel tempo non si erano stabiliti in numero considerevole in nessun luogo d‟Europa.

Tutti i paesi in cui gli ebrei si stanziarono – volontariamente o per imposizione – offrirono loro un‟esistenza precaria: mobilità e adattabilità a condizioni estranee e continuamente mutevoli erano i requisiti principali per sopravvivere, tanto che nel corso dei secoli l‟ebreo si guadagnò l‟epiteto di errante, proprio a causa dello stile nomade della sua vita. La periodica ciclicità con cui il popolo ebraico doveva stabilirsi in un determinato luogo, per poi essere costretto ad abbandonarlo dopo poco tempo, fece sì che l‟ebreo non si sentisse mai a casa, che rivolgesse sempre gli occhi altrove e che presagisse costantemente l‟arrivo imminente di un cambiamento. Il tema dell‟esilio, dunque, è diventato parte integrante della cultura giudaica, quasi una «vocazione interiore»56 rimasta immutata nelle generazioni che si sono susseguite. Chiaramente l‟esilio presuppone che esista una patria perduta da riconquistare; tuttavia questa patria lontana ha una natura impalpabile, nel senso che è «dappertutto e da nessuna parte»57, una terra che l‟esiliato non ha mai conosciuto direttamente. Nella liturgia ebraica l‟aspirazione al ritorno viene emblematicamente auspicata nella celebre formula pasquale «L‟anno prossimo a Gerusalemme», ma si tratta di una Gerusalemme chimerica e metafisica che tiene viva la speranza degli

56

V. Jankélévitch, op. cit., p. 30.

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uomini. Per l‟ebraismo la Terra promessa è su questa terra: esiste un paradiso terrestre dal quale si è stati espulsi e a cui è necessario ricongiungersi; ciò dimostra come l‟ideologia ebraica si differenzi da quella cristiana, costruendosi su «una teologia sostanzialmente orizzontalistica»58, anziché verticale. Non è un caso che nella letteratura ebraica (in accordo con Sergio Campailla, il quale per letteratura ebraica intende «non soltanto le opere scritte in lingua ebraica o in yiddish, ma quelle scritte in altre lingue, da autori che siano di formazione culturale o di psicologia ebraica»59) più che in altre letterature la dimensione del viaggio assuma un ruolo fondamentale.

Priva di un luogo di culto, di sovrano e di un territorio stabile, la comunità degli esiliati dovette trovare altre basi su cui rinsaldare la propria identità religiosa e culturale. Fu così che venne attribuito un peso determinante allo studio della parola rivelata e alla sua proclamazione liturgica. Il patrimonio tradizionale veniva tramandato di generazione in generazione, ponendo così le basi atte a garantire la sopravvivenza del proprio popolo nel futuro. Probabilmente questa instancabile attività di studio e discussione dei testi sacri ha fatto sì che la civiltà ebraica – più di tutte le altre grandi civiltà antiche - riuscisse a mantenere salda e compatta la sua identità di popolo nei secoli, nonostante la dispersione dei suoi membri per il mondo. Scorrendo velocemente i nomi dei più importanti testi della dottrina rabbinica, quali Targum (“traduzione”), Midrash (“ricerca”), Mishnà (“ripetizione”) e Talmud (“studio) appare subito evidente quanto fosse importante accostarsi alle sacre scritture con disciplina e finezza intellettuale. Infatti, come ci ricorda Wirth, «nessun altro popolo ha valutato l‟uomo colto, lo studioso, così altamente come gli Ebrei: “il saggio ha la precedenza sul re e un bastardo che sia dotto ha precedenza su un sommo sacerdote che sia ignorante” – così si esprime il Talmud […]»60. L‟istruzione è sempre stata non solo obbligatoria a Israele, ma anche considerata un dovere religioso, mentre l‟ignoranza costituiva un peccato mortale. Solo l‟intima connessione tra studio e culto avrebbe pertanto contribuito a salvaguardare la propria storia e cultura nel tempo. L‟allenamento costante ad un‟attività intellettuale, più che manuale, sarebbe stato destinato, con il tempo, a «fruttificare abbondantemente

58

S. Campailla, Ebraismo e letteratura, in Q. Principe (a cura di), Ebrei e Mitteleuropa, Shakespeare & Company, Brescia, 1984, p. 28.

59 Ivi, p. 27. La difficoltà di codificazione della letteratura ebraica verrà affrontata nel secondo

capitolo di questo lavoro.

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anche in campi diversi da quello dell‟esegesi biblica o della codificazione della Torà orale»61. Soprattutto in epoca tardoantica e altomedievale la capacità intellettuale dell‟ebreo, unita al suo spirito di mobilità, all‟adattabilità, alla flessibilità e alla conoscenza delle lingue, si rivelò un requisito fondamentale per ottenere una posizione di successo come negoziatore, imprenditore e organizzatore. A partire dalle crociate, che diedero origine a violenze antigiudaiche senza precedenti, gli ebrei vennero progressivamente esclusi dalla possibilità di esercitare lavori agricoli e di far parte delle corporazioni, pertanto non restò loro che occuparsi di attività legate all‟artigianato, al commercio e, a partire da tardo Medioevo, cominciarono ad esercitare il prestito. Oltre all‟accusa di deicidio, tale situazione favorì certamente la nascita di altri stereotipi antigiudaici, come quello dell‟ebreo usuraio.

Possiamo dire che fino all‟epoca della Rivoluzione francese la posizione degli ebrei è sempre stata precaria: agli occhi della legge essi non erano cittadini – e nemmeno uomini – ma piuttosto una proprietà tassabile, beni mobili del sovrano. Vivendo nel costante timore di ritorsioni e sentendosi continuamente esposti a degradazioni, essi svilupparono una certa ricettività agli stimoli della paura e gradualmente ciò si tramutò in attitudine alla persecuzione. L‟esperienza di eterno esiliato e di perseguitato deve aver certamente influito sull‟origine di quella peculiarità culturale conosciuta come “ironia ebraica”: attraverso l‟ironia gli ebrei sono riusciti a prendere le distanze dalla percezione ciclica del loro infelice destino, esorcizzando così l‟idea della morte e non abbandonando mai la speranza, consci del fatto che «si può sopprimere un intero popolo, ma non la sua storia»62. Questa attitudine spiegherebbe in minima parte l‟inclinazione passiva63

con cui gli eterni

61

P. Stefani, op. cit., p. 37. Sull‟importanza dell‟attività di studio nella cultura ebraica, cfr. Ivi, pp. 36, 37, 76, 77, 82.

62 A. Neiger, Bassani e il mondo ebraico, cit., p. 59.

63 Mi riferisco naturalmente alla tragedia di cui gli ebrei sono stati vittime nel XX secolo. Tuttavia

vorrei precisare fin da subito che ho preferito parlare di “inclinazione” invece di utilizzare un termine che avrebbe potuto far intendere che stiamo parlando di una caratteristica ben definita e estesa ad ogni membro della comunità ebraica. Infatti in questo lavoro mi ripropongo di dimostrare che esistono ben altri motivi (non solo l‟abitudine alla persecuzione) che hanno fatto sì che gli ebrei non riuscissero a rendersi conto della portata di una simile tragedia e che, pertanto, avessero non poche difficoltà ad opporre una qualche forma di ribellione organizzata. Sarebbe sbagliato, però, estendere questa considerazione ad ogni individuo: sono infatti noti moltissimi casi di ebrei che hanno partecipato in prima persona alla Resistenza armata, o che hanno cercato di evadere dal proprio stato di deportazione in un ghetto o in un campo di concentramento. Inoltre, ritengo interessante segnalare che gli autori presi in esame in questo lavoro hanno impiegato strumenti diretti e indiretti per combattere e reagire alla situazione drammatica che stavano vivendo. Sarà dunque mia premura dimostrare nei prossimi capitoli in quante diverse forme sia stato possibile agire concretamente contro il dissolvimento della propria identità e umanità.

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esiliati hanno lasciato che venissero commesse le peggiori atrocità nei confronti del proprio popolo, senza cercare di opporre una forte resistenza. A questo proposito vorrei riportare un breve passo tratto dall‟ultimo capitolo di Otto ebrei, in cui Debenedetti così chiarisce la forza di sopravvivenza che contraddistingue il popolo ebraico di fronte a circostanze drammatiche che si abbattono su di esso in maniera ciclica:

Una sera, nei tempi più neri del diluvio, Bernardo Berenson si poneva l‟eterno problema: perché gli ebrei rimangono ebrei, malgrado il ciclico ritorno delle persecuzioni? E si rispondeva con un suo ricordo siciliano. Trovandosi in altri tempi a visitare le pendici dell‟Etna, ne ammirava la feracità da Terra Promessa. Qualcuno però gli disse che periodicamente la lava scende a incenerire quei campi. «E perché allora li coltivate?» domandò ai contadini. «Perché quando i tempi tornano buoni, voscenza, così buoni sono, che ci ripagano di qualunque malanno.» Questo, commentava l‟eminente scrittore, spiega per analogia la tenacia degli ebrei nel sopravvivere.64

Nonostante le continue ritorsioni, i continui spostamenti volontari o coatti, e la dispersione dei propri membri in differenti nazioni, «tra i popoli dell‟Antichità, quello Ebreo è l‟unico che sia sopravvissuto in Europa sino ai nostri giorni, nella sua unità fisica e spirituale»65. Il fenomeno della Diaspora non ha provocato – come invece auspicavano i persecutori – un indebolimento della coscienza di gruppo, al contrario: gli ebrei hanno mantenuto viva la propria identità attraverso la trasmissione della loro memoria storica e del loro patrimonio culturale di generazione in generazione, anche se fisicamente lontani. Osserva Halbwachs che da un punto di vista sociologico,

in effetti, io continuo a subire l‟influenza di una società anche quando me ne sono allontanato: è sufficiente che porti con me nel mio spirito tutto ciò che mi mette in condizione di collocarmi dal punto di vista dei suoi membri, di reimmergermi nel loro ambiente e nel loro tempo proprio, e di sentirmi in mezzo a loro.66

Da quando Israele vive nella diaspora, una costante antitesi contrappone i non ebrei (goïm) agli ebrei; i primi tendono a contrastare il gruppo ebraico, i secondi resistono compatti all‟esproprio dei loro diritti e alla disintegrazione della propria

64 G. Debenedetti, op. cit., p.88.

65 P. Santarcangeli, Simbiosi tra cultura ebraica e letteratura mitteleuropea e le sue fasi, in Q.

Principe (a cura di), op. cit., p. 42.

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civiltà.67 Un altro fattore che ha inciso notevolmente sulla sopravvivenza del popolo degli esiliati è stato senza dubbio la separatezza che quest‟ultimo ha mantenuto nei secoli rispetto agli estranei.

Come spesso accade nelle società minoritarie, gli espatriati sentono il bisogno di mantenere legami di tipo affettivo e comunitario che aiutino a superare lo choc psicologico dell‟emigrazione; per soddisfare questa necessità si accorpano spontaneamente fra loro e decidono di insediarsi in un‟area geografica separata dal nucleo della società ospitante, la quale, se non ostile, resta tuttavia sconosciuta. Questa forma di organizzazione sociale è tipica dei ghetti della prima generazione di immigrati e non si circoscrive esclusivamente agli Ebrei: questi ultimi affluiscono in zone scorporate dal resto della popolazione per gli stessi motivi per cui negli Stati Uniti, ad esempio, gli Italiani vivono nella Little Italy, i Neri nella Black Belt e i Cinesi a Chinatown.68Una volta insediato nella sua area, ogni gruppo tende a riprodurre lo stile di vita e la cultura a cui era abituato nel vecchio habitat.

Occorre fin da subito segnalare una distinzione terminologica per quanto riguarda la tendenza di un gruppo minoritario a segregarsi dal resto della comunità. L‟impiego della parola «ghetto» può offrire qualche difficoltà a causa dei pareri discordi circa la sua origine: potrebbe esserci una derivazione dal vocabolo ebraico ghet, che significa carta di divorzio; o dalla parola tedesca Gitter, inferriata, per la rassomiglianza del ghetto con le sbarre di una prigione; o ancora dall‟italiano borghetto, inteso come «piccolo rione». Tuttavia, è più probabile che il termine sia derivato dall‟italiano gietto, la fonderia di cannoni a Venezia presso cui era situato il primo insediamento ebraico.69Resta il fatto che parlando esclusivamente di ghetto ci riferiamo a un luogo coatto di insediamento. Ma la segregazione in un‟area separata non è sempre stata imposta da una forza maggioritaria: storicamente il ghetto volontario rappresenta una forma di insediamento molto più antica e utilizzata che non quella costretta dalle autorità. In questo caso, la distanza fisica fra il gruppo minoritario e quello maggioritario rappresenta una soluzione temporanea che dura finché il processo di assimilazione e integrazione nella nuova società non ha raggiunto un certo livello critico oltre il quale il ghetto decade spontaneamente o diventa un ostacolo al

67 A. Neiger, Bassani e il mondo ebraico, cit., p. 30. 68 L. Wirth, op. cit., p. 224.

69 Sull‟origine della parola «ghetto», cfr. Ivi, pp. 9-10 e A. Neiger, Bassani e il mondo ebraico, cit., p.

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compimento del processo stesso.70Basti pensare, ancora una volta, ai primi ghetti americani sorti all‟inizio del secolo scorso, che privi di mura riuscivano comunque a garantire ad ogni gruppo un‟esistenza libera nel proprio spazio, in nome di una reciproca tolleranza.

Per quanto concerne la storia del popolo ebraico, la zona culturale scelta con deliberato proposito prende, allora, il nome di «giudecca». Ada Neiger ha evidenziato il carattere paradossale per cui in una dialettica tra la violenza sopraffattrice delle autorità e la forza di autoconservazione degli oppressi siano proprio questi ultimi ad adottare la strategia dell‟aggressore – la reclusione in un ghetto – seppure con ben altri intenti.71 Se ne hanno chiare manifestazioni durante l‟epoca medievale, in cui il ghetto veniva assegnato agli ebrei in qualità di diritto. Finalmente non più soggetti a influenze da parte di altri ambiti culturali che li inducessero all‟assimilazione, gli ebrei piegarono a loro favore la situazione rafforzando, in questo modo, lo spirito di solidarietà all‟interno del proprio gruppo. Infatti, dal loro punto di vista, la comunità geograficamente separata e socialmente isolata sembrava offrire le condizioni ottimali per esercitare le proprie abitudini culturali: preparare i cibi in conformità al rituale religioso stabilito, frequentare la sinagoga tre volte al giorno per le preghiere, partecipare a differenti funzioni di vita comunitaria che la liturgia imponeva ad ogni membro. Inoltre un‟area circoscritta rendeva più agevole l‟esazione delle tasse e lo svolgimento di altre attività amministrative, nonché una migliore supervisione delle autorità medievali su tutti gli stranieri e i non-cittadini. Dal punto di vista del sovrano, invece, gli ebrei rappresentavano un servizio pubblico e contribuivano ad accrescere il valore di tutta l‟area circostante. Tra cristiani e ebrei la natura dei rapporti era di reciproca utilità, nel senso che gli uni erano autorizzati a svolgere delle funzioni che agli altri erano precluse. Ad esempio, i cristiani potevano compiere certe azioni come mangiare alcuni scarti dei cibi preparati dagli ebrei che l‟ideologia purista della religione ebraica proibiva loro di consumare. Oppure, dall‟altro lato, gli ebrei erano liberi di praticare il commercio e gestire le attività finanziarie, cosa che la Chiesa considerava tabù e aveva, quindi, collegato al peccato. In questo modo gli ebrei erano liberi di vendere le proprie merci e allo stesso tempo le autorità cristiane ricavavano da loro

70

A. Cavalli, Introduzione a L. Wirth, op. cit., p. XIV.

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un grande reddito, dal momento che erano sottoposti a tassazione. I rapporti commerciali offrivano in più il vantaggio di stabilire dei contatti fra i due gruppi senza il vincolo di legami affettivi, emotivi o di pregiudizi personali. Tuttavia, se da un lato gli ebrei percepivano il loro isolamento come un privilegio e guadagnavano la protezione formale di un potere sovrano, dall‟altro perdevano qualcos‟altro. Lo svantaggio di queste dinamiche apparentemente stabili ed equilibrate fu quello di perdere quel sistema di relazioni personali con i propri vicini cristiani e la possibilità di fondersi spontaneamente in essi. Certo, abbiamo appena affermato che i contatti tra i due gruppi esistevano, ma erano comunque ridotti a un tipo di relazioni formali e secondarie, che non facevano altro che rafforzare le barriere fisiche e virtuali.72 Il ghetto volontario segnò semplicemente l‟inizio di un lungo processo di isolamento che raggiunse il suo più completo sviluppo quando ad esso venne sostituito il ghetto coatto.

La situazione cambia a partire dal XV secolo, quando le pratiche religiose ebraiche entrano in aspro conflitto con l‟ordine stabilito dalla Chiesa. Ha allora inizio un periodo di espulsioni di massa e repressioni attive: viene diminuita la durata della permanenza degli ebrei nella società ospitante; vengono ridotte al minimo le relazioni economiche fra i due gruppi e le loro condizioni di vita diventano sempre più precarie. La Chiesa riteneva gli ebrei responsabili della nascita di movimenti ereticali tra i cristiani, pertanto dichiarava necessario che venissero confinati in aree periferiche – o possibilmente nei luoghi più malfamati della città – ben attorniate da mura, le cui porte venivano puntualmente serrate la sera e durante ogni festività cristiana.73La paura che la conoscenza dell‟ideologia ebraica - arricchita da uno stile di vita più cosmopolita, da esperienze di viaggi e di letture certamente più ampie rispetto a quelle dei loro vicini – potesse provocare un risveglio intellettuale e un conseguente allontanamento dei cristiani dalla fede e fiducia nella Chiesa, ebbe l‟effetto di considerare gli ebrei alla stregua di vittime di un‟epidemia, che occorreva tenere ben lontane dal centro cittadino, chiuse in un “isolamento da lazzaretto”74. Se prima il muro divisorio era ben voluto dagli abitanti del ghetto, perché offriva loro protezione e libertà di svolgere le proprie attività senza l‟interferenza di altre culture

72 Per un maggior approfondimento sulla storia del ghetto in epoca medievale, cfr. L. Wirth, op. cit.,

pp. 22-29.

73 Ivi, pp. 31-35. 74

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estranee, adesso acquista più un carattere discriminatorio e limita notevolmente la propria libertà. Oltretutto venne imposto agli ebrei di indossare un distintivo ben visibile, che suggellasse la loro diversità dal resto della comunità. Su questo modello si è costruito il tipico ghetto ebraico europeo, inteso non più come una spontanea forma di organizzazione sociale temporanea (come abbiamo visto essere per i primi ghetti americani), bensì come uno strumento di esclusione e discriminazione imposto da un gruppo dominante, che lo utilizza come espressione del pregiudizio razziale.

Di fronte a queste nuove circostanze, gli ebrei cercarono di ritrovare l‟equilibrio interiore ritraendosi in una vita familiare e intima. È proprio a partire dal mutamento della percezione del ghetto che i suoi abitanti svilupparono una maggiore coscienza di gruppo. La reclusione in un luogo separato dal mondo esterno fece sì che si rinsaldassero i vincoli di solidarietà comunitaria e che ci si avvinghiasse più tenacemente che mai alle proprie tradizioni culturali. La vita nel ghetto era, dunque, anche ricca umanità e armonia e riproduceva quel focolare intimo e domestico tipico dello Shtetl, parola yiddish per designare la «piccola città». La matrice religiosa e l‟unità familiare offrivano, pertanto, le basi per conservare e condividere quei valori classici, che riuscivano ad acquistare una valenza universale – benché su scala minima – e che si ergevano a difesa contro la storia, «una storia che [era] solo persecuzione e dolore»75. Anche coloro che, spinti da un‟attrazione e da una curiosità verso il mondo esterno, lasciavano il ghetto, spesso tornavano spontaneamente tra la propria gente per «assaporare di nuovo la calda e intima vita tribale»76 che non riuscivano a riprodurre in nessun altro luogo se non in quello. Per questo motivo Magris afferma che «la fuga dallo shtetl significa uscita dall‟ebraismo, cioè da un mondo di valori trascendenti e transindividuali, ed ingresso nella storia»77. Il sociologo Wirth, nel suo saggio del ‟28, rimproverava agli storici del ghetto di aver accentuato eccessivamente il carattere provinciale e stagnante della vita che si svolgeva intra muros, dimenticando sovente che, malgrado tutto, erano i valori, le passioni e la natura umana ad impreziosire quella difficile realtà. Sono stati necessari

75 C. Magris, Lontano da dove…cit. p. 121. 76 L.Wirth, op. cit., p. 37.

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«gli artisti e i poeti»78 per riscoprire questa vita del ghetto, che con ogni probabilità fu sempre più attiva e feconda rispetto alla vita che si svolgeva fuori.

Pur nella sua oggettiva miseria, interessa a noi capire che questo microcosmo organico ed armonioso in se stesso rese gli Ebrei coscienti di sé. Le manifestazioni esterne della loro separazione – le mura del ghetto, le porte, il distintivo ebraico – da un lato certamente acuirono il senso di emarginazione, ma dall‟altro rafforzarono la coscienza di gruppo e l‟identità di ognuno.

1.4 L’uscita dal ghetto: il cammino verso l’integrazione.

Durante il XVIII secolo la condizione degli ebrei europei subì un accentuato processo di divaricazione: l‟Europa occidentale fu caratterizzata da un inserimento più rapido e intenso della comunità del ghetto nella società dominante; l‟Europa orientale, di contro, assistette all‟inasprimento delle condizioni di vita degli ebrei, a causa della dura politica discriminatoria esercitata dal dominio russo. Ai fini di questo lavoro intendo occuparmi esclusivamente della situazione occidentale – e in particolar modo dell‟Italia – per capire in quale maniera il concetto di identità possa aver subito un‟evoluzione nel passaggio dalla vita nel ghetto a quella fuori da esso.

Anzitutto sarà necessario delineare brevemente quali fattori, interni ed esterni, abbiano contribuito ed inciso sul graduale abbattimento delle mura del ghetto, metaforiche e non. I primi responsabili furono alcuni movimenti socio-culturali, quali l‟Haskalà, parola che traduce in ebraico il termine «Illuminismo» e che in parte subisce l‟influenza del movimento culturale e filosofico che caratterizzò l‟Europa occidentale durante la seconda metà del Settecento. Alla base di tale “risveglio” intellettuale vi era la volontà di superare la frattura esistente tra la cultura ebraica tradizionale e il mondo circostante. Si cominciò, dunque, ad aprire l‟educazione ebraica a contenuti profani, ad estendere i propri interessi attraverso letture straniere, ad abbandonare progressivamente il dialetto yiddish in favore della lingua del paese ospitante, tant‟è vero che molte personalità furono ingaggiate dal sovrano per fornire consigli e finanziamenti a scopo civile e militare (i cosiddetti «ebrei di corte»). Inoltre, il grande sviluppo commerciale e industriale contribuì notevolmente ad

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