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Giorgio Bassani e Primo Levi: l’itinerario di uno scrittore ebreo

3.1 La percezione del proprio ebraismo prima e dopo il 1938.

Dal punto di vista dell‟ebraismo italiano, come abbiamo già avuto modo di constatare, l‟anno 1938 assume la funzione di spartiacque tra un «prima» e un «dopo» su ogni piano, da quello individuale a quello collettivo, da quello professionale a quello artistico e filosofico. Il trauma delle leggi razziali avrebbe segnato le coscienze degli ebrei assimilati in maniera irreversibile e il cammino verso la riacquisizione di un equilibrio interiore si sarebbe rivelato assai lungo, faticoso e impervio. L‟improvvisa – e aggiungerei insensata - attribuzione dell‟appellativo «diverso» da parte dell‟autorità fascista ha provocato, nell‟individuo che ne era vittima, uno smarrimento totale e la conseguente modifica, in brevissimo tempo, dei propri criteri d‟appartenenza alla società circostante, nonché del proprio rapporto con l‟altro e con se stesso.

Sul versante letterario il fenomeno non poteva che offrire l‟occasione e lo stimolo per una rinnovata produzione, che vertesse attorno ai temi del processo di disassimilazione, della rivendicazione della propria ebraicità e che suscitasse una riflessione di carattere universale sulle modalità e le conseguenze di ogni atteggiamento persecutorio, partendo dall‟antisemitismo nello specifico, per poi giungere alla complessa natura dell‟eterofobia, di cui esso è espressione. Il bisogno vitale di ricostruzione di un‟identità a seguito del trauma subito è percepibile - quando più esplicitamente, quando più implicitamente – nell‟intero corpus delle opere di autori come Giorgio Bassani e Primo Levi. Entrambi accomunati dalla stessa condizione di «cittadini italiani di razza ebraica», secondo la terminologia dell‟epoca, essi fanno scaturire i loro scritti dall‟originario intreccio tra le vicende personali e i drammatici avvenimenti storici. Molti sono i fattori che legano questi due autori, quasi coetanei,173che hanno scelto di rappresentare il fenomeno della marginalizzazione ebraica in tutte le sue forme, ma esistono anche altrettanti elementi di divisione.

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Anzitutto preme sottolineare la profonda differenza tra le rispettive città natie, Ferrara174 e Torino – alle quali sia Bassani che Levi sono intimamente legati - dal punto di vista politico-culturale, in termini di consenso al regime fascista.

Agli inizi degli anni Venti la borghesia ferrarese dette il più completo appoggio al dinamismo del concittadino Italo Balbo, il quale si erse a difensore degli interessi dei proprietari terrieri dell‟Italia settentrionale e centrale contro le forze del malcontento agricolo, proclamando una linea politica estremamente conservatrice.175 Il consenso dei capitalisti agrari, cristiani ed ebrei in egual misura, contribuì enormemente a favorire l‟ascesa al potere del Fascismo e l‟élite ebraica godette presto di una meritata fama per la sua militanza. Nel racconto Una notte del ’43, riferendosi a Ferrara, Bassani scrive: «Nessuna città dell‟Italia settentrionale aveva dato maggior numero di aderenti alla Repubblica di Salò»176. E nel romanzo Il giardino dei Finzi- Contini si legge:

Era vero: Mussolini e compari stavano accumulando contro gli ebrei italiani infamie e soprusi d‟ogni genere […] ma ammesso ciò […] quanti erano stati prima del ‟38 in Italia gli “israeliti” antifascisti? Ben pochi […]se anche a Ferrara […] il numero di loro iscritti a Fascio era sempre stato altissimo. Io stesso nel ‟36 avevo partecipato ai Littorali della Cultura.177

È per questo motivo che, al momento della promulgazione delle leggi razziali, lo sconforto e la sensazione di tradimento colpì gli ebrei ferraresi molto più in profondità rispetto a quelli delle comunità di altre città. La stessa famiglia di Bassani era perfettamente allineata coi tempi. In occasione di una conferenza sull‟antifascismo, svoltasi al Teatro Comunale di Bologna nel 1961, spiegò: «Mio padre, lui, aveva preso la tessera del fascio addirittura nel ‟20: e ciò nondimeno era tra gli uomini più onesti che abbia mai conosciuto, puro e candido nel suo ingenuo

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Preciso che Bassani nacque anagraficamente a Bologna, pertanto indicare Ferrara come città natia potrebbe risaltare agli occhi come un errore. Tuttavia l‟impiego dell‟aggettivo «natia» vuole in questo caso riferirsi al profondo ed intimo sentimento di appartenenza che lega l‟autore ferrarese alla città che lo ha formato intellettualmente, politicamente e culturalmente. I suoi affetti sono a Ferrara, così come i suoi sentimenti contrastanti di amore-odio verso una città che, appoggiando ciecamente il regime fascista, ha violentemente reciso il cordone ombelicale e costretto Bassani all‟esilio. In questo senso Ferrara rappresenta ciò che Roma rappresentava per Alberto Moravia, o Trieste per Svevo, o Dublino per Joyce; un nido a cui Bassani sogna di far ritorno e attorno al quale ha costruito l‟intera sua opera.

175 Cfr. H. Stuart Hughes, op. cit., pp. 131-136.

176 G. Bassani, Dentro le mura, in Il romanzo di Ferrara, Mondadori, Milano, 1991, pp. 173-174.

D‟ora in avanti le citazioni dalle opere del ciclo di Ferrara porteranno la dicitura RF.

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patriottismo»178. Nulla di eccezionale rispetto al conformismo di tutte le altre famiglie piccolo borghesi, ebraiche e fasciste, che si collocavano in una sorta di “zona grigia”, una posizione intermedia tra una minoranza fascista convinta, da un lato, e una minoranza antifascista ebraica ed intellettuale dall‟altro. Il padre di Bassani rappresentava, dunque, il tipico cittadino borghese apolitico che aveva avuto fiducia in Mussolini e che non riusciva in alcun modo a comprendere il precipitoso mutamento degli eventi, speranzoso – almeno fino agli arresti del ‟43 – che il fascismo lo avrebbe lasciato in pace: «eravamo così conformisti, così normali, così beatamente normali»179. Come ha giustamente osservato Paola Frandini, l‟atteggiamento del “non voler vedere” avrebbe gradualmente sbiancato il ruolo autoritario della figura paterna, non più in grado di provvedere alla famiglia per difenderla, cessando di essere quel cardine della struttura familiare, tanto cara alla cultura ebraica.180

Diversa era invece l‟aria che si respirava a Torino, città che, grazie all‟assenza di quel provincialismo incline allo sviluppo di pregiudizi tradizionali, costituiva uno dei più accesi focolai dell‟antifascismo nazionale. La stragrande maggioranza dei cittadini torinesi ebrei era antifascista: si pensi all‟attivismo del celebre gruppo torinese costituito da Vittorio Foa, Carlo Levi, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Leone Ginzburg e Norberto Bobbio, quest‟ultimo insignito dai suoi amici del titolo di «ebreo onorario»181. Il 1938 avrà, dunque, destabilizzato le coscienze dei neo- assimilati piemontesi, ma non sarà stato percepito come un fulmine a ciel sereno, così come lo era stato per gli ebrei ferraresi. Come la maggior parte degli israeliti di antica discendenza italiana, la famiglia di Levi apparteneva alla media borghesia ed era profondamente integrata nel paese, di cui condivideva i costumi, la lingua e gli orientamenti morali. Il padre Cesare, non a caso ingegnere, incarnava perfettamente l‟intellettuale ebreo torinese di inizio secolo, impregnato di cultura positivista e delle idee di Lombroso, il quale spingeva i suoi correligionari all‟assimilazione totale con l‟ambiente circostante, disfacendosi dei loro «vecchi riti ridicoli»182

. Borghese nazionalista e anticomunista, Cesare Levi accettò senza troppa resistenza il nuovo

178 L‟intervento di Bassani è citato in A. Roveri, Giorgio Bassani e l’antifascismo (1936-1943), 2G,

Sabbioncello San Pietro (FE), 2002, p. 75.

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Ivi, p. 76.

180 P. Frandini, Giorgio Bassani e il fantasma di Ferrara, Manni, Cesario di Lecce, 2004, p. 56. 181 H. Stuart Hughes, op. cit., p. 109.

182 S. Nezri-Dufour, Primo Levi: una memoria ebraica del Novecento, La Giuntina, Firenze, 2002,

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movimento fascista, pur non condividendone gli aspetti superficiali: «Io sono nato e cresciuto in clima fascista, anche se mio padre non era fascista; era ostile al fascismo per ragioni superficiali, non gli piaceva la mascherata, la parata, la mancanza di serietà»183. Nonostante questo, continua Levi, «mio padre si era iscritto al partito di malavoglia, ma si era pur messo la camicia nera. Ed io fui balilla e poi avanguardista»184. Dunque all‟interno della sua famiglia Primo respira un‟insofferenza per il fascismo, che non arriva tuttavia a raggiungere i livelli dell‟opposizione aperta. Il padre tendeva a censurare i discorsi circa l‟emarginazione degli ebrei in Europa. Aveva conosciuto in prima persona la ferocia dell‟antisemitismo lavorando per molti anni in Ungheria e in Francia e, come la maggior parte degli ebrei italiani e come lo stesso padre di Bassani, aveva preferito mettere la testa sotto la sabbia, convinto che in Italia una svolta antisemita di quella portata non si sarebbe mai verificata.185 Il contatto con gli ebrei askenaziti non aveva lasciato al padre di Levi una buona impressione: troppo ortodossi, eccessivamente chiusi nelle tradizioni che contraddistinguono l‟universo yiddish, come se essere ebreo avesse significato restare incatenati ad un «destino di tristezza, d‟isolamento e di oscurantismo»186. L‟ampia partecipazione alle lotte risorgimentali, da parte degli ebrei italiani, aveva invece comportato «se non l‟obbligo, almeno un forte invito alla laicità»187. A casa Levi, dunque, la percezione dell‟ebraismo era del tutto formale e privata, non tanto legata a una ritualità che presupponeva una precisa fede individuale, quanto piuttosto a un sentimento di unità familiare, al culto dell‟educazione e del libro, inteso come oggetto sacro del sapere, alla conservazione di espressioni dialettali con curiosi inserti ebraici. Nonostante la pressoché totale

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Questa dichiarazione di Levi fu rilasciata durante la celebre intervista con Ferdinando Camon, dal titolo Conversazione con Primo Levi, Garzanti, 1991, p. 14.

184 Intervista realizzata da Giorgio De Rienzo, In un alambicco quanta poesia, in «Famiglia

Cristiana», 20 luglio 1975, p. 43, citata in G. Calcagno – G. Poli (a cura di), Echi di una voce perduta.

Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, Mursia, Milano, 1992, p. 68.

185 Questo comune atteggiamento è esplicato da Primo Levi in un‟intervista con Anna Bravo e

Federico Cereja: «Certamente, certamente esisteva, il negare a tutti i costi, queste cose da noi non capitano; era l‟atteggiamento di mio padre in sostanza; mio padre, per sua fortuna è morto prima, è morto un anno prima, ma esisteva…questo pericolosissimo rimuovere, per cui io nel ‟42, nel ‟43 facevo la vita che facevano tutti gli studenti[…]», in A. Bravo – F. Cereja, Ex deportato Primo Levi:

un’intervista (27 gennaio 1983), in «La Rassegna Mensile di Israel», vol. LVI, n. 2-3, maggio-

dicembre 1989, p. 317.

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S. Nezri-Dufour, Primo Levi: una memoria ebraica..., cit., p. 16.

187 P. Levi, Itinerario d’uno scrittore ebreo, in «La Rassegna Mensile di Israel», vol. L, n. 5-6-7-8,

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assimilazione alla società italiana, la famiglia di Levi – come generalmente ogni famiglia italo-ebrea – conservava comunque alcune peculiarità ebraiche, non rinunciando a celebrare feste tradizionali come la Pesach o il Purim.

È all‟interno del terzo racconto del libro Il sistema periodico (1975) che possiamo rintracciare le parole con cui Primo Levi esprime la sua percezione di ebraismo. Il capitolo porta il titolo di «Zinco» e racconta alcuni episodi biografici che Levi visse nei mesi in cui furono promulgate le leggi razziali:

Per vero, fino appunto a quei mesi non mi era importato molto di essere ebreo: dentro di me, e nei contatti con i miei amici cristiani, avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto o le lentiggini; un ebreo è uno che a Natale non fa l‟albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po‟ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato.188

(corsivo mio)

Durante gli anni del ginnasio, Levi era consapevole, sebbene ancora confusamente, della propria origine ebraica e ciò era ancora più evidente attraverso le frequenti provocazioni dei compagni di classe «ariani», con i quali avvertiva qualcosa di più della semplice competizione giovanile, «intesa ad affermare il primato delle doti fisiche su quelle intellettuali»189: «[…] prima ero un complessato, non so perché: forse perché ero ebreo. Ero deriso, in quanto ebreo, dai compagni di scuola: non picchiato, o insultato, ma deriso sì»190. Una volta al liceo, alla vigilia delle leggi razziali, avrebbe dovuto scontrarsi con la freddezza e la diffidenza degli altri, un distacco che si faceva via via più profondo e doloroso. Quel che è interessante ricavare dalla citazione precedente è innanzitutto l‟atteggiamento di curiositas che ha sempre caratterizzato la persona di Levi: la voglia di scoprire e indagare sui misteri della materia e dell‟uomo ha permesso al giovane torinese di trovare la forza e lo stimolo a cercare continuamente una risposta ai suoi perché, a non cedere alla disperazione neanche nei momenti più drammatici. Questa curiosità, come avremo modo di constatare più avanti, è possibile avvertirla nell‟intero corpus

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P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1994, p. 37. D‟ora in avanti le citazioni saranno estratte da questa edizione e porteranno la dicitura SP.

189 F. Vincenti, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano, 1973, p. 33.

190 F. Camon, Conversazione con Primo Levi, Garzanti, 1991, p. 70. Ritroveremo la stessa sgradevole

sensazione di inferiorità del giovane israelita rispetto ai compagni di classe nel romanzo Dietro la

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della sua opera, sia dal punto di vista puramente scientifico sia da quello più escatologico e spirituale. Specialmente dopo il trauma delle leggi antisemite e della detenzione in Lager, Levi intraprenderà un lungo percorso di recupero delle proprie radici ebraiche, e grazie al suo particolare gusto per l‟indagine e per la documentazione giungerà ad elaborare opere come Se non ora, quando?, riallacciando definitivamente i legami – fino a quel momento inconcepibili - tra l‟ebraismo italiano e il mondo yiddish askenazita.

Dunque, fino al 1938 Levi aveva considerato il suo ebraismo come «un puro fatto culturale», come disse durante l‟intervista con Camon,191

riconoscendo alla cultura un valore supremo per la sopravvivenza della sua gente nei secoli: «questa tremenda storia del popolo ebreo, di espulsioni e persecuzioni, ha costretto a rifugiarsi nell‟unico bene mobile che non è soggetto a sequestro, che è la cultura»192

. Pur nella sua laicità era «consapevole di essere inserito in una tradizione e in una cultura» e di «sentirsi italiano per tre quarti o per quattro quinti»193, ma quella porzione che avanzava era per lui estremamente importante.

Lo stesso senso di appartenenza ad un‟antica tradizione culturale e storica lo percepisce Giorgio Bassani quando, ne Il giardino dei Finzi-Contini parla di «qualcosa di più intimo»194 che unisce fra loro gli israeliti, un qualcosa di non ben definito e fondato, piuttosto, «su tutta una serie di ragioni mistiche»195:

Giacché cosa mai significava la parola «ebreo», in fondo? Che senso potevano avere, per noi, espressioni come «Comunità israelitica» o «Università israelitica», visto che prescindevano completamente dall‟esistenza di quell‟ulteriore intimità, segreta, apprezzabile nel suo valore soltanto da chi ne era partecipe, derivante dal fatto che le nostre due famiglie, non per scelta, ma in virtù di una tradizione più antica di ogni possibile memoria, appartenevano al medesimo rito religioso, o meglio alla medesima Scuola?196

Ecco che quella «certa speciale complicità e connivenza»197lascia emergere un noi corporativo, che ribadisce l‟esclusività di un sentire condiviso e di una comune

191 Ivi, p.71: «[…] Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più

ebreo, salvo che per il cognome […] ormai ebreo sono, la stella di Davide me l‟hanno cucita e non solo sul vestito».

192 Da un‟intervista con Giorgio Bocca in “Prima pagina”, Canale 5, 13 giugno 1985. 193

Dall‟intervista con Dina Luce, estratta dalla seconda rete radiofonica nazionale, 4 ottobre 1982.

194 RF, p. 302.

195 L. De Angelis, Qualcosa di più intimo… cit., p. 170. 196 RF, pp. 302-303.

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sensibilità e sancisce irrimediabilmente una barriera divisoria tra un «noi judìm» da un lato e un «loro goìm» dall‟altro. Si legge nel Giardino: «[…] soltanto noi, nati e cresciuti intra muros, potevamo sapere, comprendere davvero queste cose: sottilissime, irrilevanti, ma non per ciò meno reali. Gli altri, tutti gli altri […] inutile pensare di erudirli in una materia talmente privata»198. E in Dietro la porta il giovane narratore così si esprime di fronte all‟incontro con i nuovi compagni di classe «ariani»: «[…] Non mi piacevano i nuovi compagni provenienti dalla quinta A […] diversissimi da noi, mi pareva, forse più bravi, più belli, appartenenti a famiglie forse migliori delle nostre: estranei, insomma, irrimediabilmente», non capendo come fosse possibile che «molti dei nostri» potessero interagire e fare comunella con «loro»199. Il «soltanto noi ebrei» funge, dunque, da leitmotiv e testimonia l‟amara consapevolezza, da parte di Bassani, di quanto fosse superficiale la conoscenza che si aveva dei costumi degli ebrei e del loro volersene stare a parte; e quanto in realtà fosse estremamente difficile riuscire a trovare una reale e profonda integrazione tra questi ultimi e chi ebreo non era, per quanto fosse evidente lo stadio di assimilazione. Eppure vedremo in che modo tale attitudine ad auto segregarsi, che potremmo definire come una sorta di snobismo di classe, sarà aspramente criticata dallo scrittore ferrarese, ravvisando in essa una delle cause della tragedia che si abbatté sulla sua gente a partire dal ‟38.

Resta il fatto che la posizione dell‟ebreo risulta “scomoda”, sia per coloro che difendono orgogliosamente la propria identità etnico-culturale, accusati di volersi differenziare e di voler costituire una classe privilegiata, sia per quegli ebrei del tutto assimilati, la cui integrazione veniva decodificata dai moventi antisemiti come dimostrazione dell‟astuzia mimetica ebraica:

Una delle forme più odiose di antisemitismo era appunto questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all‟ambiente circostante, lamentare che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un poco diversi dalla media comune.200

198 Ivi, p. 304. 199 Ivi, pp. 511-512. 200

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L‟avvento delle leggi razziali nel ‟38 segnò un profondo trauma esistenziale nelle vite dei due scrittori ed ognuno di loro si trovò a dover fare improvvisamente i conti con il nuovo marchio del «diverso», imposto dall‟oggi al domani in maniera coatta.

I provvedimenti governativi colpirono il giovane Giorgio, che all‟epoca aveva ventidue anni, escludendolo di colpo dal Circolo del tennis, dalla Biblioteca Ariostea, dove era di casa, e costringendolo ad interrompere il fidanzamento con una giovane cattolica. Il padre venne allontanato dal Circolo dei Negozianti e il fratello Ernesto fu costretto ad emigrare all‟estero per iscriversi all‟Università.201

Nel Giardino il giovane io narrante, le cui sorti e quelle della sua famiglia ricalcano fedelmente la vita di Bassani stesso, esprime il suo sconvolgimento di fronte all‟insensatezza di tali provvedimenti: «Siccome dunque eravamo sempre stati della gente molto normale, noialtri, […] sarebbe stato davvero assurdo che adesso, di punto in bianco, si pretendesse proprio da noi un comportamento al di fuori della norma»202. Allontanato dagli affetti ed espulso dalle quotidiane attività per la sua identità ebraica, Bassani si sentì profondamente tradito dalla sua amata città, che gli rivelò, in quel momento, tutta la sua ipocrisia e meschinità. Ferrara è ora accusata di avere inalterato il suo splendore di fronte allo scempio civile che si stava consumando davanti ai suoi occhi. Correa senza delitto è rimasta a guardare indifferente, muta e cinica. È a partire da questa amara rivelazione che nell‟animo del giovane ferrarese nasce un ambiguo sentimento polivalente di amore e di odio, di nostalgia e di rancore, cui non andava disgiunta una certa pietas, verso il nido tanto amato. Vedremo come per riuscire a riallacciare il legame reciso con la sua città e a metterla davvero a fuoco, Bassani dovrà necessariamente allontanarsene e solo così riuscirà a recuperarne, a distanza di anni, «l‟antico volto materno»203

.

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I provvedimenti razziali preclusero l‟accesso agli studi universitari ai «cittadini di razza ebraica»; tuttavia permisero agli studenti ebrei già iscritti all‟Università italiana di terminare i propri studi: così fu per Bassani, iscritto alla Facoltà di Lettere dell‟Università di Bologna e laureatosi nel 1939 con una tesi su Niccolò Tommaseo, e lo stesso accadde a Levi, laureatosi cum laude nel 1941 alla Facoltà di Chimica dell‟Università di Torino.

202 RF, p. 409.

203 Ivi, p. 251. Si tratta di un‟espressione che appartiene al giovane io narrante de Gli occhiali d’oro, il

quale, di fronte all‟imminente arrivo del tifone antisemita che si stava profilando all‟orizzonte, decide di pedalare lungo le mura, fermandosi all‟altezza del cimitero israelitico. Lì, con una sorta di

epiphany, riesce a ricongiungersi con quella città dalla quale si era sentito tradito e abbandonato, ma è

certamente significativo anche il fatto che ciò avvenga in prossimità del cimitero israelitico e che l‟io

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