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Reticenza letteraria e affermazione della diversità: due diversi atteggiamenti verso l’ebraismo

2.1 La scrittura come veicolo espressivo della diversità.

L‟integrazione degli ebrei nell‟Europa occidentale partiva dalla premessa che la specificità ebraica doveva necessariamente essere sacrificata: dopo una graduale riduzione dell‟osservanza religiosa, il processo di assimilazione prevedeva la totale adozione della lingua, della cultura e del territorio del paese ospitante. A partire dai primi decenni del XX secolo le porte del ghetto erano già state spalancate e la maggior parte dei suoi abitanti era riuscita ad inserirsi perfettamente nella società circostante, scegliendo di abbandonare, o meglio, di relegare in una sfera privata quei tratti distintivi che la avrebbero differenziata dal resto della comunità. Da un punto di vista materiale, l‟Italia fu il paese che, rispetto al resto d‟Europa, registrò la più alta percentuale di contrazione di matrimoni misti e di conversioni al cattolicesimo. Dal punto di vista morale e culturale, invece, il fenomeno assimilazionistico si estrinsecò attraverso un progressivo attaccamento allo Stato italiano e ai suoi destini, tant‟è vero che fu notevolissima la partecipazione volontaria degli ebrei alle guerre coloniali e, in particolar modo, alla prima guerra mondiale. Un sì forte attaccamento alla nazione assunse, in molti casi, esplicite forme di ripudio della propria ebraicità, come se la componente ebraica precludesse all‟individuo la possibilità di sentirsi pienamente italiano. 97 Non a caso, l‟affacciarsi e l‟affermarsi, in quegli anni, del movimento sionista nell‟ebraismo internazionale non riuscì a carpire la coscienza dei neo-assimilati e a reclutare molti seguaci in Italia.

Il processo di integrazione nella società circostante non presentò, inizialmente, troppi ostacoli alla sua attuazione e ciò fu senza dubbio reso possibile anche grazie alla sostanziale assenza di sentimenti antisemiti. Infatti, se in Italia vi era un antisemitismo, esso era circoscritto ad ambienti sempre più ristretti, generalmente incolti e socialmente arretrati e non andava oltre quei luoghi comuni tradizionali con cui la piccola borghesia urbana e provinciale aveva cercato di etichettare l‟ebreo dei tempi del ghetto. Come precisa De Felice, l‟antisemitismo classico poggia le sue

97 Per uno studio preciso circa la situazione dell‟ebraismo italiano fino all‟avvento del regime fascista,

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fondamenta su motivi religiosi e su motivi economici, entrambi pressoché totalmente assenti in Italia. Per quanto riguarda l‟aspetto religioso, infatti, era sempre più esigua la percentuale di individui praticanti la religione ebraica, dunque essi non costituivano certo una consistente minaccia all‟ordine spirituale vigente. Dal punto di vista economico, inoltre, la presenza ebraica nei settori dell‟economia nazionale non era poi così forte rispetto a quella che contraddistingueva il campo politico e culturale. Dunque l‟antisemitismo di tipo «razziale», che aveva cominciato ad apparire alla fine del XIX secolo in Germania, non riscontrava un equivalente italiano. Appurato che in Italia mancavano sia motivazioni religiose sia motivazioni economiche per offrire un terreno fertile allo sviluppo di consistenti sentimenti antisemiti, potremmo tuttavia affermare che il mezzo di discriminazione maggiore era più facilmente individuabile sull‟asse religioso. La rivista gesuitica «La Civiltà cattolica» fu, per l‟appunto, la più grande portavoce dell‟odio antigiudaico italiano: partendo dall‟originaria accusa di «deicidio», la rivista cattolica tendeva a dipingere gli ebrei come una seria minaccia per il cristianesimo e per il benessere delle nazioni in cui dimoravano, nonché come parassiti della società, che vivevano e si arricchivano sulle spalle del lavoro altrui. Ecco che all‟interno del filone antisemitico centrale, quello religioso, si operava il sottile tentativo di insinuare motivazioni economiche che tendessero ad indirizzare il malcontento popolare e i sentimenti anticapitalistici delle masse in senso antigiudaico.98

Il processo di integrazione comportava, dunque, una partecipazione diretta alla vita sociale, politica e culturale del proprio paese; tuttavia le comunità ebraiche non potevano che sentirsi lacerate da un profondo dilemma interiore: adattarsi significava scomparire? Nel capitolo precedente abbiamo avuto modo di analizzare a fondo il carattere ambivalente che contraddistingue la coscienza ebraica. Jankélévitch ha insistito, infatti, sul desiderio contraddittorio di adeguarsi alla cultura della maggioranza e allo stesso tempo di preservare una distinzione individuale e collettiva. Se, da un lato, è percepibile la tentazione dell‟anonimato, il bisogno di «scomparire deliziosamente»99 in un gruppo più grande per esorcizzare la paura della differenza, dall‟altro si manifesterebbe la fobia opposta, ovvero quella

98

Sulla natura dell‟antisemitismo italiano nei primi decenni del XX secolo cfr. Ivi, pp. 21-22, 37-39. Si vedano inoltre P. Santacangeli, op. cit., p.47; H. Stuart Hughes, Prigionieri della speranza. Alla

ricerca dell’identità ebraica nella letteratura italiana contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1983, p.

27.

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dell‟omologazione, del perdere ogni elemento distintivo. L‟affermazione della propria differenza costituirebbe, dunque, un istinto vitale, una prerogativa necessaria, atta a garantire la sopravvivenza dell‟identità di un popolo nella storia. La sostanziale riluttanza a lasciare che la propria memoria storica e culturale si estinguesse, diluendosi in un‟altra cultura, ha fatto sì che anche l‟individuo più assimilato e meno osservante avrebbe sempre potuto preservare «qualcosa di prezioso, qualche frammento di ricordo o di tradizione familiare a cui egli potesse aggrapparsi, per sostenersi nei momenti di disperazione»100. Addirittura nel cosiddetto «Libro del patto» emerge - come ricorda Stefani - la convinzione che Israele, accanto a norme concernenti la condotta e l‟etica comune a tutti gli uomini, abbia ricevuto da Dio anche «una serie di comandamenti rituali volti a garantirne la particolarità e la diversità»101, e che dunque l‟istinto di preservare una propria specificità sia insignito di un qualche dovere divino.

Nello studio dell‟opera di Joseph Roth, Claudio Magris si sofferma ampiamente sull‟importanza di restare in guardia rispetto al processo di integrazione della comunità ebraica nella società occidentale: opere come Juden auf Wanderschaft (Ebrei erranti, 1927) rappresenterebbero, per l‟appunto, «un grido d‟allarme contro l‟assimilazione degli ebrei orientali in cammino verso occidente e quindi sul punto di perdere la propria identità e di assumere tutti i vizi della borghesia occidentale, in particolare di quella ebraica liberale»102. Dunque la civiltà ebraica da sempre si sarebbe trovata di fronte a una tensione interiore tra la scissione della propria identità, da un lato, e la resistenza alla lacerazione della stessa dall‟altro; educata nei secoli a sopravvivere alle violenze, facendo leva su valori fortemente radicati nella famiglia e nell‟individuo, essa sarebbe riuscita ad «elaborare un‟incredibile forza di resistenza epica nell‟individualità»103

. Ecco che la crisi d‟identità dell‟ebreo, entrato come outsider nella società borghese, va a colpire il singolo in quanto parte di una comunità, pertanto, in questo contesto, «l‟emarginazione non viene fondata individualmente, come [accadrebbe] nel caso dell‟omosessuale, ma universalmente: dal fatto di essere un ebreo»104. Eppure, come suggerisce l‟acuto intervento di Porter,

100 H. Stuart Hughes, op. cit., p. 12. 101

Tali riferimenti possono essere reperibili in Esodo 19, 20, 22-23,citati in P. Stefani, op. cit., p. 74.

102 C. Magris, Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, cit., p. 18.

103 Id. Le frontiere del soggetto, in Identità alterità doppio nella letteratura moderna. Atti di

seminario, a cura di Anna Dolfi, Bulzoni Editore, Roma, 2001, p. 21.

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il concetto di emarginazione può anche essere in grado di liberare una tensione creativa e positiva, nel senso che la persona che ne è vittima, trovandosi sulla soglia di due mondi diversi senza appartenere integralmente a nessuno dei due, sarà in grado di osservare le due realtà culturali attraverso uno sguardo cinico e obiettivo.105 La differenza, dunque, permette di sfuggire alla standardizzazione e all‟uniformizzazione, e non dovrebbe mai essere né condannata – atteggiamento promosso dal razzismo, perché ritenuta pericolosa o minacciosa – né tantomeno ignorata o negata nella sua esistenza – atteggiamento tipico dell‟antirazzismo: «bisognerà pure riuscire a constatare certe differenze tra gli uomini e a mostrare che le differenze non sono nocive né scandalose»106, bensì, in moltissimi casi, costruttive e preziose fonti di arricchimento.

Di fronte ad una realtà nuova e diversa era necessario puntellare la propria identità, via via sempre più soggetta alla disgregazione, attraverso l‟affermazione della propria diversità. Ma se da un punto di vista esteriore e materiale la mimetizzazione con l‟ambiente circostante era riuscita al punto da sopprimere ogni specificità ebraica, come sarebbe stato possibile far emergere comunque una propria distinzione? Il veicolo principale per esprimere la differenza ebraica lo si trovò sul piano culturale, ed in particolar modo nell‟atto della scrittura. Anche quando il «newcomer to insiders»107 si allontana definitivamente dalla cultura originaria di appartenenza, permangono, tuttavia, certe particolarità psicologiche e spirituali che lo distinguono dal non ebreo, ed è «qualcosa di accertabile sul piano letterario»108.

Il rapporto tra condizione ebraica e letteratura – nel nostro caso italiana - è un tema abbastanza complesso e spigoloso, che spesso ha suscitato molteplici punti di divergenza fra i critici. La difficoltà nel districare i nodi concettuali di tale argomento deriva sostanzialmente dal fatto che, fino alla metà degli anni Ottanta, sia mancato un consistente interesse verso l‟ebraismo italiano e soprattutto verso l‟influenza che quest‟ultimo potrebbe aver esercitato nella letteratura italiana del Novecento. Verso

105 J. N. Porter, op. cit., p. XI: «Marginality can be viewed positively as a source of creative tension.

The marginal person may be creative either because he or she is not fully integrated into either host or minority culture and, therefore, can view both with cynical and objective vision […]».

106 A. Memmi, Il razzismo, Costa&Nolan, Milano, 1999, p. 120, citato in L. De Angelis, Qualcosa di

più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano: da Svevo a Bassani, cit., p. 21, nota

17.

107 J. N. Porter, op. cit., p. XI.

108 L. De Angelis, Qualcosa di più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano: da

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la fine del secolo scorso, dunque, il tema ebraico trovava ancora un‟attenzione solo sporadica e, potremmo dire, del tutto casuale nel campo della storiografia, come in quello delle arti visive, del cinema, della musica e della filosofia. Da un punto di vista letterario, addirittura, nella migliore delle ipotesi l‟ebraismo poteva essere considerato «una pennellata folklorica»109, di cui ogni tanto si poteva discorrere, ma a patto di considerarla comunque come qualcosa di estraneo e non determinante. Se, dal punto di vista storiografico, la situazione è notevolmente mutata e argomenti come il rapporto tra ebrei e fascismo, ad esempio, è attualmente forte oggetto di studio, nel campo dell‟italianistica, invece, la ricerca procede con maggiore fatica. Questo sostanziale disinteresse ha destato grande sorpresa tra gli studiosi stranieri, in particolar modo quelli di area anglosassone (pensiamo a nomi come Brian Moloney e Stuart Hughes), rimasti basiti di fronte a tanto silenzio da parte italiana. Luca De Angelis segnala quanto ancora sia necessario indagare circa la curiosità che molti autori italiani non ebrei avrebbero manifestato verso i temi ebraici: pensiamo a Luigi Pirandello, Alberto Savino, Enrico Pea, Giuseppe Ungaretti e lo stesso Filippo T. Marinetti.110

Le cause dell‟esigua trattazione del tema nel campo della critica sono molteplici. Certamente vi ha contribuito una sorta di provincialismo della letteratura italiana, per cui l‟hebraitude non riusciva a trovare spazio nelle patrie lettere. È da segnalare, inoltre, la scarsa conoscenza della Bibbia in Italia, fatto che costituisce paradossalmente una caratteristica comune tra i paesi prevalentemente cattolici.111 Infine, lo straordinario processo di assimilazione degli israeliti all‟ambiente circostante aveva determinato la dispersione degli stessi in molti centri urbani, rendendo estremamente difficile la formazione di un nucleo ebraico imponente da un punto di vista numerico; ciò fece sì che, a partire dall‟Unità d‟Italia, fosse da ritenersi inesistente un cosiddetto «problema ebraico», almeno fino alla promulgazione delle leggi razziali da parte del governo fascista.

Anzitutto occorrerà riflettere su cosa si intende quando si parla di letteratura ebraica. La questione offre non poche difficoltà: potremmo affermare che letteratura e identità ebraica condividono la stessa caratteristica di inafferrabilità, entrambe

109 Ivi, p. 8. 110 Ibidem. 111

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impegnate ad interrogarsi tuttora sulla propria natura, non potendo far altro che definirsi ad infinitum, cosa che – secondo la celebre formula di Jankélévitch - «non è che un altro modo di [dichiararsi] indefinibile»112. A dispetto della diffidenza per ogni tipo di etichetta o definizione, si è, comunque, tentato di stabilire il principium individuationis dell‟opera letteraria ebraica. Il primo quesito che può sorgere è quello di interrogarsi sulla legittimità di considerare ebraica una letteratura che non si serve della lingua ebraica. Ma, dal momento che non stiamo parlando di un popolo dalla lingua e dal territorio ben circoscritti, dobbiamo tener presente che l‟idioma ebraico riflette il destino storico della diaspora, per cui il contatto con differenti luoghi e popolazioni ha necessariamente determinato, nel tempo, la nascita di forme ibride nel linguaggio originario, nonché un suo graduale processo di degiudaizzazione. La lingua ebraica rispecchierebbe, dunque, l‟evoluzione e i mutamenti socio-esistenziali subiti dal suo popolo; pertanto sento di poter affermare che l‟idioma utilizzato non costituisca, in realtà, un fattore determinante per stabilire l‟ebraicità o meno di un‟opera letteraria.

La querelle sull‟individuazione dell‟elemento ebraico in letteratura si basa su criteri estremamente soggettivi e opinabili e – mette in guardia Giorgio Romano - «rischia di portare soltanto a discussioni confuse»113. Lo stesso Romano sostiene che l‟unico elemento sicuro che si possa adottare come criterio di scelta sia quello dell‟argomento,114

o, più propriamente, ciò che Bertacchini ha chiamato «semitismo»115. Di diverso avviso è invece la posizione di De Angelis, il quale afferma che la tematica ebraica è certamente importante, ma non può essere esclusiva per stabilire l‟ebraicità di un‟opera letteraria: infatti, «non si può parlare di letteratura ebraica per esempio di certi romanzi di Thomas Mann, di argomento biblico, o parlare di arte ebraica per Michelangelo, l‟unico – secondo Stendhal – che possedesse quella “ferocia” e quella “elevazione” necessarie per dipingere la Bibbia»116. Altri possibili approcci, continua De Angelis, volgono all‟individuazione di un orizzonte teologico, o di immagini che suppliscano, in qualche modo, il divino. Già nel capitolo precedente abbiamo avuto occasione di riflettere circa l‟importanza

112 V. Jakélévitch, op. cit., p. 20. 113

G. Romano, op. cit., p. 39.

114 Ivi, p. 40.

115 Cfr. R. Bertacchini, Appunti sul semitismo di Bassani, in Figure e problemi di narrativa

contemporanea, Cappelli, Bologna, 1966.

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della componente religiosa nella cultura ebraica, a prescindere dalla credenza o meno in Dio: infatti, anche quando dichiaratamente atea o agnostica, la letteratura israelitica non appare mai del tutto deteologizzata. Infine, si può scegliere di condurre una ricerca su quelle attitudini, quei comportamenti e quelle caratteristiche psicologiche, distinguibilmente ebraiche, che «si trasmettono quasi involontariamente di generazione in generazione»117 e che è inevitabile riscontrare nel profilo di alcuni personaggi.118

Tenendo conto della difficoltà di definire il concetto di letteratura ebraica, potremmo concludere affermando che non è necessariamente ebraica ogni letteratura che abbia come protagonista un personaggio ebreo, o che tratti di una tematica tipicamente ebraica, e nemmeno ogni opera scritta da ebrei. Tuttavia, quando lo scrittore si cimenterà a realizzare la sua opera, non potrà escludere nessuno di questi elementi, anzi, dovrà riuscire a relazionarli gli uni con gli altri. Il risultato finale sarà quello di esprimere in maniera rappresentativa la condizione ebraica, intesa come l‟insieme delle caratteristiche escatologiche e sociologiche che formano un ebreo, e di analizzare il modo in cui quest‟ultimo vive il senso di appartenenza all‟ebraismo e, al contempo, l‟inserimento in un mondo a lui estraneo.

La relazione intima e personale che intercorre tra l‟individuo e la coscienza ebraica, si riflette nel rapporto con la scrittura. Per gli autori presi in considerazione in questo lavoro – ed in particolar modo per Giorgio Bassani – l‟identità ebraica compie un percorso progressivo di maturazione, e si elabora di pari passo alla loro opera. Ecco che tra sentimento identitario e pratica letteraria viene ad instaurarsi una sorta di affinità elettiva, capace di esprimere quel senso di differenza e di sanare, in parte, i conflitti interiori che lacerano l‟individuo al confine tra due mondi. Insediare nella propria opera i dilemmi esistenziali di cui si è vittima, è generalmente un atteggiamento spontaneo e condiviso da ogni autore. Nel caso che si tratti di uno scrittore di origine ebraica questa tendenza sarebbe ancora più accentuata, nel senso che ben difficilmente egli riuscirà a distanziarsi dal proprio contesto culturale e a dissolvere la propria ebraicità. Brandendo la penna, egli finirà, volente o nolente, per

117 G. Voghera, Gli anni della psicoanalisi, Studio Tesi, Pordenone, 1980, p. 137, citato in Ivi, p. 20. 118 Sull‟identificazione degli elementi comuni atti a determinare l‟ebraicità o meno di un‟opera

letteraria, cfr. L. De Angelis, Qualcosa di più intimo…cit., pp. 19-20; Id. – M. Carlà (a cura di),

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metterci «nécessairement du sien – c’est-à-dire du juif»119. Ci si può chiedere, a questo punto, se, qualora un ebreo decidesse di dedicarsi alla pratica delle lettere, ambirà ad essere riconosciuto esclusivamente come «scrittore ebreo». La risposta è certamente negativa, dal momento che ogni artista non si limita, generalmente, a rivolgersi ad un pubblico di nicchia, bensì desidera indirizzare la propria opera a livello universale. Del resto, abbiamo già avuto occasione di capire quanto la trasmissione della memoria storico-culturale ebraica, di generazione in generazione nei secoli, non sia fine a se stessa, ma si erga a portavoce di tutte le vittime dell‟oppressione di qualsiasi epoca, e rappresenti, piuttosto, lo strumento più efficace per attualizzare il passato nel presente, gettando, così, le basi per sperare in un futuro migliore. A questo proposito, Bassani si espresse molto chiaramente, rifiutando nella maniera più categorica l‟etichetta di «scrittore ebreo», preferendo di gran lunga il semplice titolo di «scrittore». Posizione certamente condivisibile se pensiamo alle parole, cariche di rabbia e ostilità, che l‟io narrante – un ragazzo ebreo laico e profondamente assimilato – in quell‟affascinante romanzo breve che è Gli occhiali d’oro, rivolge a se stesso alla vigilia delle leggi razziali: «può un italiano, un cittadino, ammettere di essere un ebreo, e soltanto un ebreo?»120. Eppure, allo stesso tempo, lo scrittore di Ferrara non poteva rinunciare ad essere anche l‟interprete, fedele e scrupoloso, di una condizione marginale e particolare come quella degli ebrei ferraresi: «Se non sono condizionato dalle mie radici, da che cosa dovrei esserlo? Ogni artista vero, ogni poeta, non può non fare sempre i conti con le proprie origini, con le proprie budella»121.

Rielaborando l‟affermazione di Arnold Mandel, secondo la quale sarebbe impossibile scindere l‟ebreo dall‟uomo, De Angelis insiste sul fatto che sia altrettanto impossibile separare lo scrittore dall‟ebreo.122

Nel paragrafo successivo intendo, per l‟appunto, dimostrare l‟esistenza di questo legame indissolubile, anche in quegli autori reticenti nel riconoscere la propria eredità culturale ebraica.

119

Questa espressione appartiene a Arnold Mandel ed è citata in L. De Angelis, Qualcosa di più

intimo…cit., p. 18.

120 G. Bassani, Gli occhiali d’oro, in Il romanzo di Ferrara, cit., p. 234. 121 Id., Di là dal cuore, in Opere, cit., p. 1323.

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2.2 Scrivere tra le righe: la reticenza “trasparente” di Aron.

Il rapporto tra cultura ebraica e letteratura italiana, fin dal Medioevo, sarebbe il frutto di un processo di cooperazione e arricchimento reciproco, in cui la minoranza è riuscita a preservare una propria diversità specifica, pur partecipando pienamente alle attività della maggioranza. Ecco perché – sottolinea Parussa -123 l‟ebraismo ha, da sempre, costituito una componente incisiva nella storia italiana e nella sua eredità culturale, smentendo così il mito di una cultura isolata e immutabile nel tempo, rimasta impermeabile a qualsiasi flusso esterno. Al momento dell‟emancipazione, tra il XIX e il XX secolo, anche la letteratura ebraica riuscì ad allontanarsi da quelle forme e quei modelli religiosi che l‟avevano contraddistinta fino ad allora e venne, finalmente, riconosciuta come letteratura anche dall‟esterno. È a partire da questo momento che possiamo decretare l‟ingresso della letteratura di tema ebraico nella modernità.

Nel suo esaustivo saggio sulla presenza ebraica nella letteratura italiana, Giorgio

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