• Non ci sono risultati.

Cfr “la Repubblica”, 16 ottobre 2008.

Nel documento Eredità (pagine 103-107)

e altra-riforma

2. Cfr “la Repubblica”, 16 ottobre 2008.

Senti che bel rumore

86

chiamati ad personam. In questi legami stretti si confondono spesso stima, amicizia, potere, sudditanza e logiche strumen- tali dall’una e dall’altra parte, e spesso si disincentiva l’ap- partenenza a un’organizzazione o a un’istituzione. Stritolati da queste logiche, molti precari temono l’opposizione e la sanzione, o più semplicemente assegnano la priorità alla cre- scita professionale, confidando nel fatto che sia sufficiente che i propri meriti siano riconosciuti da uno “sponsor” forte.

Queste logiche non si combattono tagliando i fondi per il reclutamento. Anzi, la scarsità di risorse rende più aspra la lotta per accedervi, e tende a radicalizzare le logiche perver- se. In questo senso sbloccare il reclutamento permetterebbe l’arrivo di nuovo personale in grado di indebolire assetti e sistemi di potere consolidati.

Ma le soluzioni al problema del precariato non si pos- sono e non si devono ridurre alla richiesta di nuovi posti. Per trasformare la mera “sopravvivenza” in un percorso di crescita professionale, serve la stabilità dei fondi di ricerca e della loro destinazione, elemento che permetterebbe una programmazione, seppur nel breve periodo, e soprattutto una ricerca di qualità.

L’università che vogliamo, però, è anche un’istituzione che riconosce, tutela, e garantisce i diritti del lavoro. Se la so- cietà verso cui andiamo è “la società della conoscenza”, allora non si può prescindere dal garantire tutele a chi la produce. Vogliamo un’università che, fuori dalle enunciazioni di prin- cipio, non abbia la miopia di formare una generazione di ri- cercatori per poi disperderla, di investire in capitale umano senza riscuotere i dividendi. È questo, a conti fatti, il fenome- no della fuga dei cervelli. La difesa della cultura e quella del lavoro sono due facce della stessa medaglia. Perché la prima cresca e sia libera non si può prescindere dalla difesa di chi contribuisce a diffonderla e rinnovarla, a qualsiasi titolo e in qualsiasi forma. La tutela del diritto dei lavoratori garantisce non solo la qualità, ma anche l’autonomia della produzione scientifica. Violarlo proprio nel nome di un’università più efficiente ci pare quanto mai stupido e odioso.

Senti che bel rumore

87

Raccontare il passato prossimo per capire il futuro

È difficile descrivere in modo esauriente e obiettivo eventi a cui si è partecipato in prima persona. Pertanto, in quanto mi accingo a scrivere non c’è alcuna pretesa di esaustività, nes- suna illusione di poter fornire uno sguardo oggettivo. Innan- zitutto perché parlo di temi e idee ancora “caldi”. Seconda- riamente, perché gli effetti della cosiddetta “legge Gelmini” sugli atenei al momento possono essere solo immaginati, e si paleseranno appieno solo a partire dai prossimi anni. Allora si potrà dire se siamo stati faziosi iettatori oppure Cassandre. Infine, perché ciò che racconto mi riguarda in prima perso- na e fa parte della mia storia non meno di quanto io faccia parte della sua.

Chiunque abbia seguito le proteste dell’università nell’au- tunno del 2010 attraverso la televisione o i giornali non potrà che averne ricevuto un’immagine bidimensionale: i ritmi im- posti dai telegiornali così come gli spazi riservati da quotidia- ni e siti web non permettono di restituire appieno gli umori delle manifestazioni o le tensioni delle assemblee; a maggior ragione non hanno potuto rendere conto della complessità delle analisi che hanno sorretto l’opposizione di molti stu- denti alla riforma proposta dal governo.

Studiare (al)l’università ai tempi della Gelmini

Senti che bel rumore

88

D’altronde non si può pretendere che un giornalista, per quanto scrupoloso, possa illustrare nel dettaglio le ragioni di quell’opposizione al disegno di legge Gelmini (e più in gene- rale alle politiche di questo governo in materia di istruzione superiore e di ricerca): sta ai cittadini più meticolosi l’onere di informarsi accuratamente, approfondire, chiedere, sop- pesare, così come stava e sta a noi l’onere di condividere le nostre analisi con coloro che si sono lasciati o si lasceranno interessare dall’argomento.

In queste pagine cercherò di fornire una spiegazione più dettagliata dei motivi della protesta, in grado di “srotolare” i pensieri sintetizzati in slogan quali “Università pubblica!” o “Articolo 34 della Costituzione: a tutti è garantita la pubblica istruzione!”.

Ovviamente, un movimento di protesta ha carattere po- liedrico, caratterizzato da una molteplicità di punti di vista e da divergenze sfumate e fluide, ed è pertanto refrattario a ogni tentativo di descrizione totalizzante, di cui è bene diffidare.

Per questo voglio precisare fin da subito che io ho ade- rito e aderisco alla rete di collettivi dell’Università di To- rino conosciuta come “Studenti Indipendenti”, che a sua volta si rifà al Coordinamento nazionale link; e che anche all’interno di questa organizzazione (per fortuna) non c’è un’unica corrente di pensiero, quanto piuttosto un nucleo di opinioni condivise, arricchito da una vivace dialettica. Nell’esposizione cercherò di essere il più possibile “neu- trale”, ma i fatti che interpreto subiranno necessariamente l’influsso del mio punto di vista personale, e benché questo sia stato condiviso da numerosi studenti, invito a non scam- biarlo per un resoconto esaustivo della galassia studentesca.

Tra Scilla e Cariddi

Questa legge non viene dal nulla: si inscrive dentro una campagna di discredito gettata sull’istruzione pubblica e sui beni pubblici in generale che dura da più di quindici anni, ovvero pressappoco dall’inizio degli anni dell’era Berlusco- ni. Dalle brunettiane accuse di fannullonismo agli attacchi del presidente del Consiglio verso la scuola pubblica che non lascia libere le famiglie di “inculcare” i valori che pre- feriscono ai loro figli, abbiamo l’impressione di assistere alla paradossale situazione di un governo che getta discre-

Studiare (al)l’università ai tempi della Gelmini

89

dito sullo Stato (o almeno su una buona parte di esso) per indurlo alla necrosi, onde gettarlo in pasto a chissà quali mangiacarogne.

L’università pubblica italiana in particolare è stata dipinta come un luogo di sperperi, egemonizzata dalla casta dei ba- roni, sempre meno in grado di “formare la classe dirigente”. Questo clima di sfiducia sembra aver legittimato gli attacchi portati dal ministro Moratti, i tagli operati dalla finanziaria del 2008, i blocchi del turn over della legge 180 del 2009, e infine la rapsodica raccolta di norme contenute nella legge 240 del 2010.

Paradossalmente, la retorica del governo ha legittimato questa riforma spacciandola per una severa cura ai vizi della classe accademica, benché di fatto gli unici soggetti da essa avvantaggiati siano proprio i professori ordinari (il grado più alto della carriera accademica, tra cui la maggior parte dei cosiddetti “baroni”), in particolare i rettori, come testimonia il fatto che l’unico ente di tutto il settore della formazione favorevole alla riforma sia stata la Conferenza dei rettori delle università italiane (crui). Inoltre, con un machiavellico gio- co di prestigio le migliaia di studenti e di studiosi che hanno animato le proteste sono stati tacciati di conservatorismo, accusati di voler difendere a tutti i costi un sistema palese- mente marcio.

Come titola efficacemente una raccolta di saggi sul tema, ci siamo ritrovati nella difficile situazione di dover difendere un’università “malata e denigrata”1. Ma cosa stavamo difen-

dendo di preciso? E perché?

Era evidente che l’università in Italia arrancasse, che in un certo senso non fosse all’altezza di se stessa: nonostante l’elevata qualità della sua didattica e i validi risultati della sua ricerca, la maggior parte degli scienziati italiani fuggo- no verso paesi esteri che riconoscono il loro valore; i nostri atenei sono davvero controllati in modo più o meno diretto dai numerosi “baroni”; infine, noi studenti siamo sempre più rassegnati a sentirci dire che “una laurea non vuol dire nien- te”, assuefatti ai contratti precari dei call center così distanti dalla prospettiva di una carriera qualificante.

1. M. Regini (a cura di), Malata e denigrata. L’università italiana, Donzelli, Milano

Nel documento Eredità (pagine 103-107)