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Le incursioni armate dei Faentini nel contado presero dunque di mira, soprattutto, i castelli e le proprietà fondiarie degli arcivescovi. Per meglio indagare la portata dello scontro tra Ravenna e Faenza ed il ruolo del castello di Lugo non solo nell'ambito di tale conflitto ma anche e soprattutto all'interno dello scacchiere signorile degli arcivescovi, è opportuno soffermarsi un momento anche sulla condizione politica ed istituzionale della metropoli ravennate all'indomani della cosiddetta lotta per le investiture, in quei decenni del secolo XII in cui l'azione di comitatinanza delle forze

168 comunali iniziò a rappresentare una grave minaccia per le posizioni di potere degli arcivescovi nella Romagna nord-occidentale e anche altrove.

Va innanzitutto detto che la morte di Guiberto, la scomparsa di Enrico IV e la sostanziale vittoria del Papato sull‟Impero avevano inevitabilmente segnato la sconfitta delle forze scismatiche, determinando un forte isolamento politico della sede ravennate. Causa principale di questo stato di cose era la crisi dell‟Impero nei primi decenni del XII secolo, che si manifestò con il declino dell‟autorità imperiale nel Regnum Italiae e con il venir meno, di fatto, di quei legami feudali che vincolavano i signori territoriali alla fidelitas verso il sovrano.

La crisi dell‟ordinamento imperiale incise profondamente sulla società locale, sia in ambito laico che ecclesiastico. In tale contesto gli arcivescovi di Ravenna conobbero un forte ridimensionamento sia della loro autorità ecclesiastica che dei loro poteri signorili sul territorio; se infatti, sul piano dei poteri civili, iniziarono a farsi sempre più pressanti le istanze autonomistiche delle aree più occidentali del mondo esarcale, favorite dallo sviluppo del movimento comunale a Bologna e a Ferrara, su un piano ecclesiastico divennero sempre forti le tendenze autocefaliche di numerose diocesi suffraganee; tali istanze vennero poi recepite dallo stesso papa Pasquale II, che durante il concilio di Guastalla dal 1106 deliberò la nota sottrazione delle diocesi emiliane dal rapporto di dipendenza dalla metropoli ravennate.

Le deliberazioni di papa Pasquale II erano sintomatiche dell‟esigenza riformatrice di un rinnovamento religioso-ecclesiale che fosse garantito da un più efficiente controllo papale sulle chiese locali; la Chiesa ravennate non fu estranea a tale clima di rinnovamento spirituale ed istituzionale, se pensiamo che proprio in questi anni, a pochi passi dall‟episcopio cittadino, venne istituita la canonica regolare di S. Maria in Porto297.

297

Il mondo dei canonici regolari è stato considerato per lungo tempo, da un punto di vista storiografico, il “grand oublié de l‟Histoire de l‟Eglise” (J. Avril, Conclusion, in Le monde des chanoines (XIe - XIVe siècles), Toulouse 1989 [(Cahiers de Fanjeaux. Collection d‟Histoire religieuse en Languedoc au XIIIe et au début du XIVe, 24)], pp. 363-374, in partic. p. 363). Tuttavia i primi studi del Dereine, del Marchal e del Fonseca, relativi soprattutto all‟area francese e italiana, e la I Settimana internazionale di studi della Mendola (4-10 settembre 1959) dedicata al tema “La vita comune del clero nei secoli XI e XII” hanno contribuito decisamente ad invertire la rotta, dando inizio ad uno studio organico e sistematico del mondo delle canoniche regolari e del loro ruolo nella Chiesa e nella società, con particolare attenzione agli sviluppi del fenomeno canonicale negli anni della riforma gregoriana. Una svolta negli studi sulle canoniche regolari è arrivata soprattutto dai contributi raccolti in Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in Occidente: 1123- 1215, Atti della VII Settimana internazionale di studi, Mendola 28 agosto-3 settembre 1977, Milano 1980 (Pubblicazioni dell‟Università cattolica del sacro cuore. Miscellanea del Centro di studi medioevali, 9); in tale ambito si segnala in particolare: C. D. Fonseca, Monaci e canonici alla ricerca di un‟identità, ibidem, pp. 203-222.

Per lo studio delle canoniche regolari in area tedesca si segnalano poi i lavori di J. Mois, J. Semmler e S. Weinfurter, mentre per le isole britanniche quelli di J. C. Dickinson. Un contributo importante è arrivato anche dagli studi del Capitani riguardanti la riforma della Chiesa nel secolo XI. Infine, tra i lavori più recenti, un‟ottima sintesi del dibattito storiografico relativo al mondo dei canonici regolari è presente nel seguente contributo: C. Andenna, Mortariensis Ecclesia: una congregazione di canonici regolari in Italia settentrionale tra 11. e 12. secolo, Berlino 2007, pp. 2-163.

169 Esigenze di rinnovamento erano pertanto vive anche in seno all‟arcidiocesi ravennate; va infatti riconosciuto che, se da un lato l‟eredità esarcale e i privilegi ottenuti dagli imperatori avevano arricchito la Chiesa ravennate di terre e giurisdizioni, conferendole un peso politico tale da poter sfidare Roma, dall‟altro tutto ciò aveva ineluttabilmente prodotto un forte appesantimento delle strutture ecclesiastiche; tale situazione aveva causato inoltre un progressivo deteriorarsi dei costumi di un clero locale sempre meno ligio ai canoni disciplinari e scarsamente funzionale ai suoi compiti religiosi e pastorali. Da qui l‟esigenza di un forte rinnovamento.

Così nel 1116 papa Pasquale II, nella più ampia prospettiva del rinnovamento religioso-ecclesiale sancito dalla riforma gregoriana e caratterizzato da un più diretto controllo del Papato sulle chiese locali, approvò la regula portuensis, formalizzando l‟istituzione della canonica di S. Maria in Porto, da cui uscì nientemeno che l‟arcivescovo riformatore Gualtiero, di origine bavarese298

. Quest‟ultimo, forse anche in linea con la politica dei duchi di Baviera, durante il suo lungo episcopato (1118-1144) fu in grado di riprendere il dialogo con Roma, risollevando le sorti della Chiesa di Ravenna. D‟altronde, è proprio in questo coinvolgimento attivo nella temperie spirituale e culturale della riforma ecclesiastica che possiamo leggere la volontà e la capacità della Chiesa ravennate di risollevarsi dalla crisi di inizio secolo anche su un piano politico, cercando di riacquistare l‟autorità temporale che aveva esercitato in passato.

L‟arcivescovo Gualtiero, già canonico della cattedrale di Ratisbona, da un lato si segnalò per la significativa opera riformatrice che seppe condurre con energia, sia sul piano spirituale che su quello temporale, in seno alla Chiesa ravennate, in un‟epoca attraversata da istanze di rinnovamento religioso-ecclesiale cui tanto avevano contribuito nel secolo precedente i ravennati Romualdo e Pier Damiani299; dall‟altro, però, questo presule seppe anche conseguire importanti successi politici in estenuanti contenziosi che opponevano alla curia ravennate signori rurali e città comunali.

Sotto Gualtiero nell‟anno 1122 furono restituite alla Chiesa ravennate le terre arcivescovili occupate da Guido Traversari e da un conte Ugo figlio di Ugo; nel 1127 i capitanei e i consoli di Ferrara furono costretti a restituire al presule numerosi beni immobili di cui si erano appropriati nel periodo della sua prigionia; nel 1136 i figli del defunto Arardo di Ridolfo, allo scopo di risarcire i danni

298

M. Mazzotti, Questioni Portuensi, in «SR», II (1951), pp.307-322; A. Vasina, Romagna medievale, Ravenna 1970, pp.15-37.

299Per l‟arcivescovo Gualtiero si veda: G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den sächsischen

und salischen Kaisern mit den Listen der Bischöfe 951-1122, Lipsia-Berlino1913, p. 160.

Per le figure di Romualdo e Pier Damiani si rinvia a: P. Cavina, Pier Damiani tra esperienza giuridica e tensione spirituale: eremi e monasteri di Romagna, con premessa di C. Dolcini, Cesena 2005, passim; M. C. De Matteis, Fermenti religiosi, riforma ecclesiastica e riforma gregoriana: da Romualdo a Pier Damiani: un nuovo monachesimo, in Bologna nel medioevo, a cura di O. Capitani, Bologna 2007, II, pp. 329-357 (in Storia di Bologna, sotto la direzione di R. Zangheri, Bologna 2007).

170 arrecati dalla loro famiglia al patrimonio arcivescovile, donarono a Gualtiero tutti i loro beni posti nel Cesenate e al di qua del Rubicone; infine, nel 1142, alla morte del conte di Bertinoro Cavalcaconte I, che pure aveva occupato vari castelli di proprietà arcivescovile, il presule tedesco si dichiarò disposto a rinnovare l'investitura vassallatica al figlio del conte, Ranieri, appoggiando inoltre le sue nozze con una parente del papa, a patto però che costui gli giurasse fedeltà.

Da notare comunque come ancora nel XII secolo si avvicendassero presuli tedeschi sulla cattedra di S. Apollinare, chiaro segnale, comunque, della continuità di rapporti tra la sede ravennate e il mondo germanico pur in decenni segnati da un forte indebolimento dell‟autorità regia nell‟Italia settentrionale e da un riavvicinamento dell‟arcivescovo al Papato.

La capacità della Chiesa ravennate e dell‟elite cittadina di reagire alla crisi successiva alla scomparsa di Guiberto, la si può intravedere anche in altri atti.

Negli anni di Gualtiero infatti l‟aristocrazia locale, soprattutto quella maggiore e capitaneale, legata alla curia cittadina, cercò di riempire quel vuoto di potere creatosi attorno alla sede ravennate all‟inizio del XII secolo cercando, ad esempio, la convergenza di altre forze sociali. Da leggere in tal senso sono i legami commerciali instauratisi tra l‟ordo ravennate dei venditori di pesci, alle dipendenze degli arcivescovi e collegati alla antica schola piscatoria detta Casa Matha, e i Comacchiesi, ai quali la corporazione ravennate promise aiuti militari nelle aree vallive contro tutti fuorché i capitanei ravennati e il vescovo comacchiese.

Inoltre, si impone una considerazione ulteriore. Sebbene la sede ravennate, durante il duro scontro tra Papato e Impero negli anni di Guiberto, avesse indubbiamente conosciuto un momento di forte crisi, il sistema di potere facente capo agli arcivescovi restava pur sempre saldamente ancorato ad una solidissima base patrimoniale. Gli arcivescovi infatti nel XII secolo continuavano ad essere i signori territoriali di gran parte della Romagna e alla loro giurisdizione erano ancora sottoposti numerosi centri della pianura veneta e della Pentapoli, lungo una fascia territoriale che di fatto si estendeva da Adria ad Osimo, inglobando una larga porzione della pianura padana meridionale e della fascia appenninica umbro-marchigiana. Gli arcivescovi erano poi sempre titolari di tutta una serie di comitati cittadini e rurali che dal Ferrarese e dal Bolognese si estendevano fino al Cesenate e al Montefeltro.

Le cose erano poi destinate a migliorare ulteriormente, per gli arcivescovi, con il procedere degli anni. Infatti, anche se la grandezza dell‟epoca di Gebeardo e di Guiberto era ormai solo un ricordo, la restaurazione del potere imperiale nel Regnum Italiae realizzata dal Barbarossa nella seconda metà del secolo favorì le posizioni di potere della Chiesa ravennate.

171 Ravenna, con tutto il peso della sua tradizione, costituiva necessariamente uno di quei centri di potere che il sovrano svevo volle favorire con la concessione di privilegi; del resto egli si comportò in maniera analoga con i signori territoriali e con le città tradizionalmente filo-imperiali, nel quadro di una politica finalizzata a contrastare le autonomie comunali e a recuperare diritti fiscali e iura regalia nelle città del Regnum.

Federico I, perseguendo una politica già propria dei suoi predecessori sassoni e salici, fece della sede ravennate un caposaldo della restaurazione imperiale non solo nei confronti delle altre città padane ma anche nei riguardi del Papato e dell‟impero bizantino.

Dopo la morte del presule filo-imperiale Anselmo di Havelberg, di origine sassone, il Barbarossa impose, nel 1158, il trasferimento a Ravenna del cardinale Guido dei conti di Biandrate, proveniente quindi da una famiglia comitale vicina alla corte imperiale; alla dignità arcivescovile egli aggiunse e confermò la titolarità di più comitati cittadini e rurali, ristabilendo inoltre i vincoli feudali che legavano l‟aristocrazia locale all‟arcivescovo. Guido di Biandrate, come già il suo predecessore, assunse il titolo prestigioso di eiusdem [Ravenne] civitatis exarchus; emerge con forza la volontà dello Staufer di far rivivere la tradizione esarcale e tardo-antica della città e della sua Chiesa al fine di contrastare le rivendicazioni bizantine sui territori italici un tempo soggetti a Costantinopoli.

La politica di restaurazione del potere regio portata avanti da Federico I si basò quindi ampiamente sulla Chiesa ravennate, retta tradizionalmente da presuli di sicura obbedienza imperiale. Il disegno del Barbarossa trovò poi ampia continuità nell‟azione politica di Enrico VI, il quale designò alla cattedra di S. Apollinare un‟altra personalità assai vicina alla casa imperiale sveva, il lombardo Guglielmo da Cavriana. Ravenna si confermava dunque uno dei centri principali dell‟amministrazione imperiale nel Regnum Italiae.

Nel quadro dell‟Italienpolitik degli Staufer, volta in primo luogo al recupero da parte del sovrano delle regalìe e delle funzioni dirette di governo, il Barbarossa e i suoi successori puntarono alla creazione di una rete amministrativa autonoma, al di sopra delle città comunali, rette da podestà imperiali, e dei signori territoriali.

Un ruolo fondamentale nell‟amministrazione imperiale del regno italico fu quello svolto dai legati che, investiti dai sovrani svevi di ampie funzioni giurisdizionali, in particolare politiche, inglobarono nella loro attività ampie porzioni della cosiddetta Reichsitalien; l‟azione politica dei legati imperiali si manifestò naturalmente anche nei confronti della Romagna, dove, tra l‟altro, troviamo attestata la presenza di un conte imperiale; il famoso cancelliere Rinaldo di Dassel, i legati

172 imperiali Cristiano di Magonza e Bertoldo di Hohkönigsburg, il conte di Romagna Enrico d‟Agrioge ed infine Corrado di Urslingen e, soprattutto, il siniscalco Marcovaldo di Anweiler sono solo alcuni di tutta una serie di legati, ministeriales ed alti funzionari dell‟Impero che nella politica italiana degli Staufer rivestirono un ruolo imprescindibile.

Nel nostro caso riveste un interesse particolare la figura del ministeriale svevo Marcovaldo di Anweiler, in quanto fu chiamato da Enrico VI ad amministrare Ravenna, di cui venne nominato duca, un titolo al quale aggiunse quello di principe della marca di Ancona300.

Incaricato del governo di Ravenna e di larga parte della Romagna, Marcovaldo di Anweiler conferì alla città esarcale una certa importanza nella riorganizzazione statuale del regno italico. Nel quadro dell‟Italienpolitik sveva, questo alto funzionario riuscì in qualche modo ad inquadrare nella rinnovata compagine imperiale le forze sociali cittadine, arrivando ad un accordo con esse; fu così che nel 1195 il siniscalco svevo riconobbe ufficialmente ai cives ravennati, oltre a varie giurisdizioni e rendite, il diritto di nominare il podestà cittadino, mentre le regalìe consuetudinarie continuavano ad essere di spettanza della camera imperiale. Inoltre, circa i pedaggi e i dazi del porto cittadino e i proventi derivanti dallo sfruttamento delle saline di Cervia, si addivenne ad un intesa tra l‟Anweiler, l‟arcivescovo e le istituzioni del comune, che diedero vita per qualche tempo ad una “sorta di condominio” politico-istituzionale.

Tuttavia, la morte improvvisa di Enrico VI nel 1197 ed il conseguente sfaldarsi della compagine imperiale, con le crescenti rivendicazioni temporali del Papato, contribuirono in breve tempo a vanificare, almeno in parte, gli sforzi compiuti dai sovrani svevi nella seconda metà del XII

300

Sulle vicende biografiche di Enrico VI si vedano gli studi menzionati alla nota 275.

Sui legati imperiali in età sveva si rimanda essenzialmente agli studi di E. Goez e K. Görich: Görich, Die Reichslegaten, cit.

Sulla figura del siniscalco svevo Marcovaldo di Anweiler e la politica svolta da quest‟ultimo su mandato di Federico I e di Enrico VI si segnalano i seguenti contributi: T. C. Van Cleve, Markward of Anweiler and the Sicilian regency. A study of Hohenstaufen policy in Siciliy during the minority of Frederick II, Princeton 1973; H. Zielisnski, Markwald von Anweiler, in «Neue deutsche Biographie», XVI, Berlino 1990, pp. 225-226; W. Goez, Ein Brief des Grafen Guido Guerra III. an Markward von Anweiler, in «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», XXXII (1972), pp. 131-146; H. Houben, Markward von Anweiler. Ein Staufischer Ministeriale aus süditalienischer Sicht, in Kaiser, Könige und Ministerialen, a cura di F. Schmidt (Beiträge zur Geschichte des Trifels und des Mittelalters 3), Anweiler am Trifels 2006, pp. 55-76; Verwandlungen des Stauferreichs. Drei Innovationsregionen im mittelalterlichen Europa, a cura di B. Schneidmüller, S. Weinfurter e A. Wieczorek, Darmstadt 2010, p. 129.

Una fonte sveva assai interessante che, soprattutto in Germania, ha dato adito ad un certo dibattito è il cosiddetto testamento di Enrico VI del 1197, a quanto pare rinvenuto dalle truppe pontificie in Sicilia, nelle salmerie dell‟accampamento di Marcovaldo di Anweiler: Heinrici VI imperatoris testamentum, a cura di G. H. Pertz, Hannoverae 1837, in MGH, Leges II, p. 185. Con tale testamento l‟imperatore Enrico VI avrebbe trasmesso, tra gli altri domini, il ducato di Ravenna, la terra di Bertinoro, la marca di Ancona e i beni matildini di Medicina e Argelata alla Chiesa di Roma. Si tratta con ogni probabilità di un documento falso redatto dall‟Anweiler forse allo scopo di ottenere un riconoscimento pontificio della propria autorità a seguito della morte di Enrico VI. Per tale interpretazione si veda M. Thumser, Letzter Will? Das höchste Angebot Kaiser Heinrichs VI. an die römische Kirche, in «Deutsches Archiv», 62 (2006), pp. 85-133.

173 secolo301. Con la scomparsa di Enrico ed il repentino crollo del sistema di potere creato dagli Staufer nell‟Italia settentrionale, la Chiesa di Ravenna venne a perdere il suo principale sostegno, trovandosi nuovamente in una pericolosa situazione di isolamento politico e militare.

Il fatto che in una simile situazione gli arcivescovi avessero continuato a mantenere un deciso orientamento filo-imperiale, ripreso dal presule Guglielmo da Cavriana, ebbe come conseguenza il progressivo distacco di buona parte dell‟aristocrazia ravennate e delle forze locali dalle posizioni della Chiesa cittadina. Il tradizionale atteggiamento filo-imperiale inaspriva, inoltre, le tensioni con Roma, proprio negli anni in cui la politica di Innocenzo III riprendeva con forza l‟indirizzo ierocratico di Gregorio VII e puntava a rafforzare e ad ampliare l‟autorità temporale della Chiesa di Roma; la politica innocenziana volta alla recuperazione dei diritti temporali della Santa Sede mirava in buona parte proprio all‟antico Esarcato e al comitato di Bertinoro, oggetto della rinnovata contesa con gli arcivescovi ravennati.

Il declino politico della Chiesa ravennate nel quadro della politica italica e della dinamica dei rapporti tra Papato e Impero ebbe naturalmente forte ripercussioni anche all‟interno dei confini arcidiocesani, dove le aggressioni da parte delle forze comunali al patrimonio arcivescovile divennero sempre più frequenti e gravi. In tale contesto, sottoposta ad un‟azione centrifuga ed erosiva sempre più marcata da parte delle forze laiche, comunali in particolare, la signoria territoriale degli arcivescovi, fondata in larga parte su una ricchezza fondiaria e immobiliare sempre più oggetto di aggressioni e contenziosi, andò progressivamente sfaldandosi, senza che un‟autorità superiore potesse intervenire in suo sostegno.

La crisi politica prodotta dal vuoto di potere nell‟Impero si aggiunse dunque alle difficoltà patrimoniali ed economiche dell‟arcidiocesi. L‟azione erosiva delle forze comunali costringeva gli arcivescovi ad investire risorse sempre maggiori nella militarizzazione del territorio e nella diretta gestione del patrimonio fondiario, con ovvie ripercussioni sulle finanze arcivescovili. Le casse dell‟arcidiocesi dovevano essere ormai vuote. Infatti, le forti spese sostenute per il potenziamento delle strutture castrensi poste a difesa della aziende fondiarie unitamente alla progressiva contrazione di censi e tributi dovuti alla camera arcivescovile costrinsero ripetutamente i presuli ravennati ad alienare beni immobili o a ricorrere a prestiti di denaro per poter compensare le insufficienti disponibilità di moneta302.

Il tutto nel quadro generale di una crisi che, causando anche un forte indebolimento dei vincoli feudali che legavano all‟arcivescovo domini laici od ecclesiastici così come dei rapporti gerarchici

301

Vasina, Comuni e signorie, cit., pp.79-80.

302

174 interni al clero ravennate, coinvolgeva ormai in maniera irreversibile, tanto le strutture periferiche della signoria arcivescovile quanto gli organi centrali di governo della curia.

Ebbene, la condizione politica della Chiesa di Ravenna in età sveva ed il serrato confronto tra i titolari della cattedra di S. Apollinare e le città romagnole, Faenza in particolare, trova un‟ampia sintesi ed una chiara esemplificazione nelle vicende del castello di Lugo, fulcro della signoria territoriale degli arcivescovi nella Romagna nord-occidentale.

Tav. 13 – Enfiteusi arcivescovile del 1198; nel protocollo si legge chiaramente il nome dell‟arcivescovo Guglielmo (Archivio storico diocesano, cit., n. 3048; foto G. Fanti).