Le due economie hanno cominciato ad essere liberalizzate in anni diversi:
nel 1978 la Cina, nel 1991 l’India. Oggi entrambi i Paesi sono noti per i loro grandi progressi tecnologici, per i loro elevati tassi di crescita e per l’imbattibile concorrenza che fanno ai Paesi industrializzati su molti mercati, ma “il dragone e l’elefante18” nascondono alcune differenze.
18 Si veda Smith (2007).
La Cina nel 2006 ha attirato un afflusso record di investimenti stranieri, oltre 60 miliardi di dollari americani (pari all’1% del PIL), l’India ne ha ricevuti quasi un decimo (7 miliardi di dollari, pari al 3% del PIL). Gli economisti indiani parlano di un tasso di crescita del PIL, negli ultimi decenni, attorno al 6%: un risultato importante eppure inferiore al dato cinese del 9% medio annuo, che nel 2007 potrebbe consolidarsi a due cifre. Guardando ai mercati interni dei due Paesi, sono importanti le dimensioni della classe media, dato l’alto numero di consumatori e la crescente capacità di spesa: che significherà per le industrie un aumento del numero di clienti.
In tutti e due i Paesi la classe media conta 300 milioni di persone circa. Nel caso dell’India, però, le disuguaglianze sono più forti; non si assiste, infatti, ad un fenomeno migratorio dalle campagne alle città, così come sta avvenendo in Cina, fenomeno che permette un maggiore accesso ai consumi.
L’India ha a suo favore la conoscenza dell’inglese (è il secondo mercato dopo gli Stati Uniti), un sistema giudiziario di qualità basato sul sistema inglese e il costo del lavoro in cui batte perfino la competitività cinese.
Lo stipendio medio di un dipendente locale, infatti, è notevolmente più basso in India che in Cina. La differenza di retribuzione è poco rilevante ai livelli più bassi (operaio non specializzato), ma si fa più pronunciata ai livelli manageriali.
Sul piano commerciale, i due Paesi si sono ripromessi di intensificare le loro relazioni economiche. Negli ultimi anni, l’interscambio commerciale tra India e Cina è cresciuto ad un ritmo molto elevato: il valore del commercio bilaterale è passato da 1,9 miliardi di dollari nel 2000 a 13,6 miliardi nel 2004. Il premier cinese, nel 2005, è arrivato a proporre la creazione di una zona di libero scambio tra i due Paesi, ma la proposta è stata tiepidamente accolta dall’India:
Nuova Delhi teme infatti di essere sommersa dai manufatti cinesi.
La struttura della bilancia commerciale dei due Paesi si presta a interessanti considerazioni: la Cina, che importa dall’India soprattutto materie prime e semilavorati, soffre di un deficit nei confronti di Nuova Delhi che potrebbe, tuttavia, facilmente colmare rivendendo i prodotti ad alto valore
aggiunto (prodotti elettronici e composti chimici) che produce grazie alle importazioni indiane. Il premier cinese si è in realtà spinto oltre: ha proposto alla controparte una vera e propria partnership economica strategica che, oltre all’abolizione delle barriere tariffarie, dovrebbe includere una più stretta cooperazione in campo tecnologico, l’intensificarsi degli investimenti diretti e il coordinamento delle rispettive azioni in seno alla WTO. Nonostante i timori di un’invasione di prodotti cinesi, l’India potrebbe trarre interessanti benefici da una simile prospettiva: l’industria del software indiano, nata con le riforme di Rajiv Gandhi, è oggi una delle più sviluppate al mondo e potrebbe stringere un’alleanza strategica con l’industria cinese dell’hardware, tale da mettere in crisi il monopolio americano. Inoltre, l’apertura ai capitali cinesi permetterebbe all’India di migliorare il settore delle infrastrutture dei trasporti, attualmente il vero tallone d’Achille dell’economia indiana.
I Politecnici indiani licenziano 9 volte più laureati in ingegneria, matematica e fisica rispetto alle università cinesi. Stigmatizzando, mentre il
“dragone del sol levante” è più competitiva nell’hardware, in tutti i mestieri di produzione industriale l’India batte la concorrente nel software e, in generale, nelle attività di servizio che impegnano più talenti industriali.
Davanti a queste diversità politiche ed economiche anche le strategie degli investitori sono diverse: la Cina è spesso vista come una base di produzione a basso costo per poi riesportare ed è dotata di migliori infrastrutture a questo scopo; l’India comincia a essere vista come un mercato di consumatori e possiede, come già sottolineato, una manodopera meglio istruita e un migliore sistema legale.
Sempre di più tendono a diversificarsi anche i settori industriali, mentre alcuni (ad es. il tessile) rimangono punti di forza di entrambi i Paesi. La Cina continua a puntare molto sulla produzione manifatturiera: i servizi rappresentano ancora solo il 32% dell’economia; in India, il peso dei servizi è passato dal 46% al 56% dell’economia negli ultimi cinque anni: il Paese è cresciuto nelle operazioni di back office, nel business processing e nel design ingenieristico.
Anche le modalità utilizzate dalle imprese dei due Paesi per finanziarsi presentano forti differenze. In India è abbastanza complicato accedere al mercato del credito e le imprese quotate cercano di raccogliere le risorse finanziarie emettendo un numero consistente di titoli azionari. In tal modo, gli investitori privati giocano un ruolo di primo piano nell’allocazione dei capitali. In Cina la situazione finanziaria è agli antipodi di quella indiana. L’elevata propensione al risparmio dei cinesi e l’intenso flusso di investimenti diretti esteri che si è riversato sul mercato finanziario nazionale negli ultimi anni hanno contribuito a mantenere basso il costo del finanziamento per le imprese.
Nel complesso, il proseguimento delle riforme è essenziale affinché l’India, nel medio periodo, possa accelerare la sua crescita e ridurre i livelli di povertà così come previsto negli obiettivi governativi. Il percorso di riforme dovrebbe partire dal miglioramento della situazione infrastrutturale del mercato del lavoro, senza trascurare il completamento dell’apertura internazionale e della liberalizzazione dell’economia con una forte riduzione della presenza statale.
Dall’altro lato, la Cina subisce i rischi delle crescenti manifestazioni di
“surriscaldamento economico” legato all’emergere di limitazioni di capacità in alcune industrie-chiave, come ad esempio nel settore energetico, e alla formazione di un eccesso di capitale in altri settori, come in quello immobiliare e in quello delle automobili. E’ inoltre importante che Pechino renda la sua crescita maggiormente sostenibile sia da un punto di vista ambientale, attraverso il miglioramento dello sfruttamento delle risorse, la riduzione del degrado ambientale e l’aumento del risparmio energetico, sia da un punto di vista sociale, attraverso la riduzione delle differenze sociali tra zone rurali e città e con il miglioramento dei sistemi educativo, sanitario e previdenziale.
Relativamente al settore bancario, in entrambi i Paesi, la legislazione, soprattutto per quanto riguarda l’apertura agli investitori esteri, è ancora profondamente in divenire. L’India ha dato inizio alla trasformazione economica nei primi anni novanta, quando si era trovata sull’orlo dell’inadempimento sui pagamenti del debito estero e le riserve in valuta erano scese a livelli pericolosamente bassi. Per questo motivo il processo di riforma indiano ha avuto
come principale obiettivo quello di gettare le basi normative della ristrutturazione del sistema bancario e dei mercati finanziari.
Notevoli progressi sono stati effettuati in tre direzioni: distribuzione di dividendi, concessione di crediti alla clientela non garantiti ed estensione del business bancario. Anche per quanto riguarda l’ingresso degli investitori esteri nelle banche indiane sono stati compiuti importanti passi avanti, ma non si può assolutamente parlare di una liberalizzazione del settore.
Nel complesso il sistema bancario indiano, pur mostrando un continuo miglioramento negli ultimi anni (riduzione delle sofferenze, diversificazione delle fonti di reddito e dei rischi, miglioramento dell’efficienza operativa grazie all’applicazione di avanzate tecnologie), rimane caratterizzato da un dominio delle banche statali, da eccessive limitazioni all’acquisizione di banche locali da parte degli investitori esteri e da un elevato tasso di frammentazione (56 banche rappresentano il 95% delle attività), che richiedono ancora un forte intervento governativo.
In Cina l’apertura del settore bancario alla concorrenza estera è stata avviata agli inizi del 2007, proprio per questo la Banca Centrale Cinese ha appena varato una serie di iniziative e riforme atte ad adeguare la struttura al futuro ambito competitivo. Rimangono per ora in vigore alcuni dei limiti imposti all’ingresso degli investitori esteri nel settore.
Gli aspetti positivi che fanno del sistema bancario cinese il più ambito al mondo sono l’economia in forte e costante crescita, il sostegno implicito del governo, che va progressivamente riducendosi, e soprattutto l’alto tasso di propensione al risparmio, che supera il 40%.
Il realismo ha suggerito al governo indiano di sfruttare al meglio la posizione strategica che la storia ha assegnato all’India, chiamata, non dagli americani ma dalle leggi della geopolitica, a fare da contrappeso alla crescente e preoccupante potenza cinese nello scacchiere asiatico e mondiale. Negli ultimi 15 anni19, l’India è stato il secondo Paese per velocità di crescita nel mondo,
19 Si veda Rais (2007b).
registrando una media superiore al 6% l’anno. La crescita ha accelerato al 7,5%
l’anno scorso e probabilmente manterrà lo stesso passo anche quest’anno. Molti osservatori credono che l’India potrebbe espandersi a questo tasso in tutto il prossimo decennio.
E le cose non dovrebbero cambiare se si allunga lo sguardo. Per la Goldman Sachs, secondo quanto riportato da Newsweek, per esempio, nei prossimi 50 anni l’India crescerà più velocemente rispetto alle maggiori economie mondiali prevalentemente a causa del fatto che la sua forza lavoro invecchierà meno velocemente. Fra 10 anni la sua economia supererà quella dell’Italia e fra 15 anni raggiungerà quella della Gran Bretagna. Si noti che l’odierno tasso di crescita dell’economia indiana è superiore a quello indicato dallo studio (7%). Solo la Cina, l’altro gigante asiatico e mondiale, è riuscita a fare meglio, con una crescita media del 10%.
Si ricordi che i due Paesi hanno cominciato il loro straordinario cammino verso lo sviluppo e la modernità in tempi molto differenti. E sta forse proprio nell’inizio anticipato una delle ragioni principali del gap attuale a favore della Cina. Il regime di Pechino avviò le sue riforme, nel 1978, dopo la fine della
“rivoluzione culturale” e la morte di Mao. Dopo la crisi di Tiananmen del 1989, quando fu addirittura messa in discussione l’apertura degli anni precedenti, il processo riformatore ebbe un nuovo e più forte impulso, sotto la guida di Deng Xiaoping, all’inizio del 1992.
L’India sotto la guida illuminata dell’ex ministro delle finanze e attuale primo ministro Manmohan Singh, cominciava proprio nel 1991. Fu una scelta obbligata: dopo la caduta dell’impero sovietico (il suo principale partner economico e politico) il governo di Nuova Delhi si trovò spiazzato e isolato sulla scena mondiale, con un disastroso carico di debiti che rischiava di schiacciare il Paese; ma, a quel punto, aveva già perso il vantaggio che aveva sui vicini. Nel 1960 l’India aveva un reddito pro capite superiore a quello della Cina, oggi è la metà di quello cinese; quello stesso anno aveva un reddito pro capite uguale a quello della Corea del Sud, oggi quello della Corea è di 13 volte superiore. Eppure la partenza, nell’immediato dopoguerra, lasciava prevedere altri sviluppi. Dopo la
fine della dominazione straniera (15 agosto 1947), fu creata una repubblica laica, unificata e democratica con una rapidità eccezionale; ma l’economia, voluta socialista e pianificata, rimase alle corde, soffrendo quello che si è finito per chiamare “tasso di crescita indù”. Negli anni 1950 e 1960, l’India tentò la strada della modernizzazione, creando un modello di economia mista tra capitalismo e comunismo. Questo ha significato un settore privato incatenato e sovra-regolamentato e un settore pubblico massicciamente inefficiente e corrotto. I risultati furono miseri e negli anni Settanta, a mano a mano che l’India diventava più socialista, divennero disastrosi. La quota dell’India nel commercio mondiale scese a zero. Gli imprenditori e le grandi famiglie del mondo degli affari fuggivano all’estero per poter guadagnare soldi e sfuggire alla vulgata sovietica che pretendeva di fissare persino il numero di bulloni che una fabbrica poteva utilizzare.
In tempi più recenti proprio gli indiani della diaspora all’estero hanno giocato un ruolo importante nell’aprire le porte alla madre patria; sono tornati in India con soldi, idee di investimenti, standard globali e, soprattutto, un senso:
volendo si può raggiungere qualsiasi obiettivo. Il loro successo, in tutto il mondo, ma in particolare nelle due grandi Nazioni del capitalismo, gli USA e la Gran Bretagna, è un esempio vivo, sempre presente, stimolante soprattutto per i giovani indiani che sono la vera forza, numerica e intellettuale, della nuova India. La metà della popolazione indiana ha meno di 25 anni. La demografia, come evidenziato in Figura 1 e 2, è l’arma assoluta dell’India per l’oggi e il domani. È insieme una riserva di consumatori e una leva per perseguire i cambiamenti necessari. Oggi, insieme, India e Cina hanno una popolazione pari ai due quinti di tutta l’umanità20. I numeri sono impressionanti: più di 1.300 milioni di abitanti in Cina e quasi 1.100 milioni in India, ma il rapporto sta per cambiare: nel 2025 vivranno in India 1.395 milioni di persone e 1.593 nel 2050, i cinesi saranno 1.441 milioni nel 2025, però scenderanno a 1.392 milioni nel 2050 a causa del loro inferiore tasso di natalità.
20 Si veda Oliva (2007).
Figura 1 – Demografia di India e Cina a confronto
Fonte: United Nations Population Division (2007)
Figura 2 – Evoluzione dell’età lavorativa della popolazione a confronto
Fonte: United Nations Population Division (2007)
La più promettente risorsa dell’India è, dunque, una grande e giovane riserva umana, forte di un’educazione crescente e con il vantaggio di una conoscenza generalizzata e quasi naturale dell’inglese (l’India nel 2010 conterà il più grande numero di anglofoni del mondo). Già oggi, grazie a questa conoscenza, l’India è diventata “l’ufficio del mondo” in contrapposizione diretta con la Cina che viene definita “la fabbrica del mondo”21. La scommessa è quella di uno sviluppo più equilibrato. Per esempio, il modello attuale per il quale il mondo ammira l’India, e di cui il Paese va oggi orgoglioso, alla lunga potrebbe rivelarsi inadeguato o almeno insufficiente. Va bene essere all’avanguardia nelle tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni o nelle biotecnologie, va altrettanto bene essere il centro mondiale dei call center e dell’outsourcing, ma dal punto di vista dei numeri, tanto più quando si tratta, come nel caso dell’India, di cifre a otto e nove zeri, l’occupazione non è sufficiente ad assorbire un inevitabile esodo dalle campagne, dove ancora vivono 700 milioni di indiani, quasi tutti a livelli di miseria abissali. Occorre guardare anche all’agricoltura e, soprattutto, all’industria e al settore manifatturiero. Per creare più occupazione bisogna accettare di fare almeno un po’ di concorrenza alla Cina, che oggi è la meta preferita della localizzazione delle fabbriche dai Paesi più maturi (USA, Europa e Giappone).
Qualcuno, crudamente, ha fatto rilevare che l’India forse ha parecchie Silicon Valley22, ma ha anche tre Nigeria dentro di sé, con più di 300 milioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno; 800 milioni guadagnano meno di 2 dollari al giorno. L’India ha il 40% dei poveri del mondo e la seconda più grande popolazione infetta di AIDS. Nei Paesi in via di sviluppo, molti hanno sistematicamente promesso troppo e mantenuto poco. La tendenza è di spingere le riforme in periodi di difficoltà e di sprecare le risorse quando la pressione si abbassa. E anche in India, dall’inizio delle riforme nel 1991 a oggi, periodi di entusiasmo ed euforia si sono alternati ad altri di delusione e disappunto. L’India ha un evidente tallone d’Achille che potrebbe bruciare tutte le promesse e le
21 Si veda Battaglia (2007).
22 Si veda Confortin (2007).
premesse dello sviluppo: lo stato disastroso delle infrastrutture che impone costi addizionali alle imprese erodendo il vantaggio di un basso costo del lavoro. Solo le telecomunicazioni hanno avuto un significativo miglioramento, mentre è lontana la modernizzazione di aeroporti, strade, ferrovie e porti.
Gli indiani sanno quali sono i loro handicap: un’inflazione e un deficit di parte corrente troppo alti (4,2% del PIL), un peso dell’agricoltura ancora eccessivo e la mancata modernizzazione delle infrastrutture (per ogni abitante cinese il Governo di Pechino spende 24 dollari nella costruzione di nuove strade, 12 volte quello che spende l’India).
Un interessante studio che ha messo a confronto i modelli di sviluppo di Cina e India nel periodo tra il 1978 e il 2004, anni delle riforme cinesi, è stato condotto da: Barry Bosworth e Susan Collins, della Brookings Institution di Washington23, utilizzando il metodo della cosiddetta “contabilità della crescita”.
La crescita cinese media è stata del 9,2 %, quella indiana del 5,4%. Nel 1978, la produttività complessiva del lavoro in Cina era soltanto il 70% di quella in India. Nel 2004, il rapporto si era ribaltato: la produttività dei cinesi equivaleva al 130% (agricoltura), 220% (industria) e 110% (servizi) di quella degli indiani.
Il boom cinese è stato determinato sia da un alto tasso di accumulazione del capitale, fisico e umano, sia dal miglioramento dell’efficienza con cui questo capitale è utilizzato. Lo sviluppo indiano è fondato quasi esclusivamente su innovazioni tecnologiche e di processo.
L’agricoltura cinese è più efficiente di quella indiana. L’output per singolo lavoratore è cresciuto di 4,6 punti percentuali contro i 2,5 indiani. Il dato che colpisce dell’India è comunque che gli addetti all’agricoltura continuano a crescere nel tempo e ciò è attribuibile ad un insufficiente sviluppo dell’industria e dei servizi in rapporto alla crescita della popolazione. Infatti è nel settore industriale che appare netta la differenza tra Cina e India. L’industria cinese produce più della metà del PIL (58%), in India si resta sotto il 30%. Nel periodo
23 Si veda Bosworth e Collins (2007).
preso in esame, il settore si è sviluppato in entrambi i Paesi, con analoghi livelli di crescita dell’occupazione, ma l’efficienza è drammaticamente diversa.
Lo sviluppo dei servizi è la caratteristica che più ha impressionato dell’India, ma anche la Cina non è troppo indietro. Analoga a quella dell’industria (intorno al 10%)24, la crescita dei servizi cinesi ha però prodotto una percentuale maggiore di crescita dell’occupazione rispetto al settore secondario (5,8% contro 3,1%). La crescita del terziario è quella in cui l’India si avvicina di più alla Cina (9,8%) e va sottolineato che questa performance è stata raggiunta con un input di capitale inferiore; è nei servizi, quindi, che l’economia indiana si rivela più efficiente.
Confrontando il contributo dei diversi settori al PIL, si nota che, nei 26 anni presi in esame, l’apporto dell’agricoltura è sceso del 20% sia in Cina che in India; mentre in Cina si è distribuito uniformemente tra industria e servizi, mentre in India si è concentrato soprattutto nel terziario (18%). Tuttavia, Cina e India impiegano ancora un’altissima percentuale della propria forza lavoro in agricoltura, rispettivamente il 47% e il 57%.
Le conclusioni di Bosworth e Collins sono piuttosto ottimiste per entrambe le economie.
In futuro, la Cina dovrà, a differenza dell’India, affrontare il problema dell’invecchiamento demografico conseguente all’ormai trentennale politica del figlio unico. Dal punto di vista dell’efficienza produttiva, potrà comunque porvi rimedio continuando a trasferire forza lavoro dall’agricoltura agli altri due settori, processo già in corso con la massiccia urbanizzazione. I problemi dell’India sono lo scarso sviluppo del settore industriale rispetto agli altri e il livello ancora elevato dell’analfabetismo, nonostante picchi di assoluta eccellenza nell’istruzione avanzata. Secondo i due studiosi, entrambe le economie trarranno sempre maggiori benefici dall’integrazione nel commercio internazionale. La Cina, in questo senso, è più avanti: il suo commercio estero contribuisce ormai al 65% del PIL, quello indiano al 42%.
24 I dati citati sono forniti da Corriereasia, http://www.corriereasia.com/.