• Non ci sono risultati.

Circolarità dei modi di dire la malattia

Capitolo 5 – Verso un’etnografia del consumo

5.7 Circolarità dei modi di dire la malattia

La televisione installa a domicilio un enciclopedismo magico. Michel de Certeau400

Nella “tradizione” dell’antropologia medica centrata sul significato, nei lavori di Byron J. Good e Arthur Kleinman soprattutto, la malattia non è considerata semplicemente come un’entità, uno stato fisiologico. La malattia è anche un modello esplicativo e, in quanto tale, le rappresentazioni sono parte della sua stessa essenza. Questo non

398 Ibid., p. 19. 399 Ibid., p. 73.

significa, spiega Byron J. Good, negare la significanza della biologia, ma assumere che «la biologia, le pratiche sociali e il significato interagiscono nell’organizzazione della malattia quale oggetto sociale ed esperienza vissuta»401.

Nella convinzione che attribuire un nome all’origine del dolore significhi afferrare il potere di alleviarlo («riuscire a dare i nomi alle cose mi ha aiutata ad elaborare», afferma Lucia, studentessa ventiquattrenne402), Byron J. Good affida alle narrazioni della malattia «non solo lo scopo di descrivere le origini della sofferenza, ma di raffigurarne la sede e l’origine e quindi di essere una soluzione alla situazione»403. Ogni narrazione del malessere, ovvero ogni modalità di espressione della sofferenza personale, prende forma attraverso modalità di comunicazione dei sintomi che tradiscono la cultura medica dei pazienti e delle loro famiglie. I resoconti degli intervistati, limitatamente a determinate situazioni, dimostrano l’inadeguatezza della rigidità del modello secondo cui il medico parla della malattia «in un linguaggio settoriale fatto di comportamenti e funzioni biologiche» mentre i pazienti e le famiglie, anche quando fanno propri determinati termini specialistici, «parlano della malattia nel linguaggio culturalmente ampio dell’esperienza»404. Lo stesso Arthur Kleinman ipotizzava, nei primi anni Ottanta, che il diffondersi del modello biomedico della patologia nella cultura popolare potesse trasformare le credenze e le aspettative relative alla sanità di quel settore, «in modo tale che la gente comune, in particolare di classe media colta, si trovi a gestire un modello più meccanicistico e meno psicosociale della realtà clinica, e sia pertanto più interessata a informazioni e interventi tecnici, e meno a spiegazioni socialmente significative e a interventi psicosociali»405.

Vi sono letture differenti della mediazione prodotta da un sapere scientifico e tecnico che entra nella cultura popolare (a mio avviso, anche attraverso i medical dramas) “contaminando” la lingua comune delle parole e delle pratiche. Il sociologo britannico Mike Bury, per esempio, sostiene che uno dei quattro fattori-chiave che avrebbero condotto il paziente a riacquisire il diritto d’espressione della propria esperienza di sofferenza attraverso la narrazione sia proprio l’enorme espansione, avvenuta negli ultimi decenni nelle società tardoindustriali, dell’informazione sulla malattia e sulla medicina, via mass-media, stampa medica divulgativa, internet e le stesse medicine non

401 B. J. Good, Narrare la malattia, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, p. 84. 402 Dall’intervista a Lucia, realizzata in data 10/01/2011 a Bologna.

403 B. J. Good, cit., p. 185. 404 A. Kleinman, cit., p. 16. 405 Ibid., p. 17.

convenzionali e i gruppi di self-help. Ciò avrebbe prodotto, nelle parole di Bury, «un accesso crescente (anche se non sempre corretto) da parte dei profani all’informazione un tempo gelosamente custodita dai professionisti nel tempio della biomedicina. Riducendo inevitabilmente l’autorità medica come fonte di conoscenza, questo processo ha enormemente ampliato lo spettro di possibili narrazioni mediche (anche alternative) oggi disponibili al paziente. E, come sempre, il confronto ha fatto in buona parte venir meno quella fiducia ingenua nell’autorità professionale che aveva caratterizzato il modello paternalistico di relazione medico-paziente»406.

Mi trovo, limitatamente ai casi presi in esame nel corso della mia ricerca, a dover in parte confutare la tesi di Bury. È vero che i media di massa hanno allargato l’accesso ad un’informazione prima detenuta da soli specialisti, ma questo capitale mediatico accumulato non ha aperto la strada al moltiplicarsi delle narrazioni della malattia. Esso pare aver fornito al telespettatore/paziente un vademecum nozionistico ed enciclopedico del sapere medico che ha anzi sortito l’effetto di ridurre alle categorie biomediche i codici culturali utilizzati per rappresentare determinati sintomi. Le narrazioni elaborate dai miei interlocutori, stando a quanto essi affermano, appaiono molto meno personali ed idiosincratiche di quelle che si è soliti attribuire a chi non parla il linguaggio della biomedicina. Viene addirittura da pensare che lo spazio della narrazione, come pratica culturale di produzione di senso, venga progressivamente sottratto al territorio della malattia. E paradossalmente ciò sembra avvenire per mano di chi, invece, dovrebbe trarre giovamento da un’introduzione del linguaggio dell’esperienza nella comprensione della malattia. Questo certamente accade anche a causa di una consuetudine creatasi nel tempo, che ha portato ad una “selezione culturale” delle narrazioni che sono socialmente legittimate ad articolare il senso della sofferenza.

In questo processo, la cultura registrata dai mass-media non solo oggettiva espressioni e significati che nascono dall’esperienza vissuta, ma pare costruire un universo simbolico che si sovrappone a tale esperienza, rischiando di soffocarla. È certamente solo in minima parte opera dei medical dramas se possiamo rintracciare una sorta di riduzionismo biomedico che viene riproducendosi e legittimandosi non solo da e nell’arena professionale della medicina, ma anche in quella famigliare e popolare. Resta vero, però, che l’utilizzo del sapere medico-popolare appreso da questi prodotti di

406 M. Bury, cit. in G. Giarelli, La svolta narrativa: l’incontro clinico come negoziazione di significati, in

G. Giarelli, B. J. Good, M. J. Del Vecchio Good, M. Martini, C. Ruozi (a cura di), Storie di cura:

fiction e filtrato dalla televisione, pare autorizzare407 ancora di più lo schema teoretico dominante d’interpretazione dei sintomi della malattia. Byron J. Good definisce “modello empirista di ragionamento clinico” il modello di ragionamento in cui i sintomi di una malattia acquisiscono il loro significato in relazione a condizioni fisiologiche. Questo modello troverebbe le sue radici epistemologiche nella teoria empirista del linguaggio, che sostiene che in un linguaggio il significato viene associato ai termini base attraverso un’associazione convenzionale tra elementi del linguaggio e un dato elemento del mondo. La sequenziale ricerca di entità che sono “cause dirette” della malattia è proprio ciò che distingue la razionalità diagnostica (potentemente rappresentata in House M.D.), ovvero il processo di conversione di evidenze osservate in nomi/classificazioni di malattie408. La clinica, scrive Foucault, «senza posa invocata per il suo empirismo, la modestia della sua attenzione e la cura con cui lascia giungere silenziosamente le cose sotto lo sguardo, senza impacciarle con alcun discorso, deve la sua reale importanza al fatto di essere una riorganizzazione in profondità non solo del discorso medico, ma della possibilità stessa di un discorso sulla malattia»409.

Da ciò si possono trarre alcune conclusioni: la prima è che la conflittualità fra modelli biomedici e modelli profani (popolari) è meno radicale di quanto non appaia e, più che un’opposizione, è una dialettica di circolarità. La seconda, come dimostra questo studio se messo a confronto con quelli di Solange Davin e Sabine Chalvon-Demersay, è che i pubblici interpellati sull’argomento, siano essi francesi, italiani o britannici, hanno fornito interpretazioni molto simili e dichiarato di aver acquisito simili competenze. La stessa Davin aveva iniziato la sua ricerca dalla supposizione che telespettatori britannici e francesi avrebbero dato interpretazioni differenti dei medical dramas. L’ipotesi, spiega Davin, traeva la sua origine dal fatto che in Francia esistono relativamente pochi medical dramas e quelli che sono stati trasmessi hanno suscitato un interesse assai modesto, mentre in Gran Bretagna i medical dramas sono tanto numerosi quanto

407 Scriveva Pierre Bourdieu: «Poiché ogni linguaggio che gode dell’ascolto di tutto un gruppo è un

linguaggio autorizzato, investito dell’autorità di un gruppo, esso autorizza ciò che designa nel momento stesso che lo esprime, attingendo la sua legittimità dal gruppo sul quale esercita la sua autorità e che contribuisce a produrre come tale, offrendo un’espressione unitaria alle sue esperienze». (P. Bourdieu, La

parola e il potere, Guida, Napoli, 1988, p. 123).

408 Questo “riduzionismo” risponde ad un’esigenza di “sintesi” di cui alcuni medici riconoscono i limiti.

E. R., oncologo, 57 anni, intervistato in data 19/02/2014 afferma: «Chiaramente noi ci organizziamo, perché la medicina fa questo, per classificarle, per curarle al meglio perché è impossibile curare in modo diverso ognuna di queste persone, però alla fine, nella loro storia, vediamo che, se guardiamo le cartelle di questi pazienti, è una storia diversa. Non c’è mai la stessa cosa, non succede mai la stessa cosa: è simile ma non identica».

popolari410. Eppure l’antropologa francese si trova a dover ammettere che «malgrado questa discrepanza, la ricerca di variazioni interculturali si è rivelata vana: gli informatori affrontano le stesse tematiche e i loro commenti si fanno eco dalle due sponde della Manica»411. È questo un elemento che anche Sabine Chalvon-Demersay prende con forza in considerazione, quando scrive che «stabilire un nesso logico e univoco tra un tipo di analisi e un’appartenenza culturale è un’attitudine che schiaccia tutti gli altri possibili fattori d’interpretazione»412. Come i telespettatori francesi e inglesi, così anche i partecipanti italiani allo studio appena presentato provenivano da differenti contesti geografici e famigliari, possedevano diversi gradi di scolarizzazione e diversa consuetudine con l’ambiente ospedaliero e con la visione dei medical dramas. Le realtà cliniche, costruite culturalmente all’interno delle arene sociali, differiscono, secondo Kleinman, non solo nelle diverse società, ma anche nei diversi settori o arene dello stesso sistema medico, e spesso nei diversi agenti di cura all’interno dello stesso settore. Questo è vero, così come è vero che esistono tante modalità di rappresentare la malattia quanti sono gli individui e ancora di più quanti sono gli individui in diversi momenti della vita o in circostanze contingenti. Ma è anche vero che la televisione, attraverso i medical dramas, sta contribuendo a diffondere dei percorsi elettivi di descrizione della malattia e di costruzione di un sapere su di essa, che travalicano le frontiere e gli immaginari nazionali. A ben vedere, tutto ciò è una conferma che le audience “diffuse” sono sia locali che globali413: locali nella pratica concreta, globali in quell’immaginazione – non circoscritta nello spazio e nel tempo – che è una risorsa cruciale per chi si pone davanti e oltre lo schermo.

410 S. Davin, Urgences et ses spectateurs: la médecine dans le salon, L’Harmattan, Paris, 2007, p. 7. 411 Ibid. (trad. it. mia).

412 S. Chalvon-Demersay, cit., p. 240. 413 N. Abercrombie, B. Longhurst, cit., p. 76.

Capitolo 6

Apprendisti dottori:

gli studenti di Medicina a scuola di fiction