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La fiction tra realismo e verosimiglianza

Capitolo 3 – La medicina in televisione

3.3 La fiction tra realismo e verosimiglianza

La popolarità delle fiction di genere hospital, l’attenzione sempre più diffusa al tema della salute e l’elevata quantità di programmi a tema medico offerta dal mezzo televisivo non possono non sollevare questioni rispetto al legame fra questi programmi e la loro circolazione sociale, o meglio, rispetto alle implicazioni della loro fruizione da parte di professionisti e profani del campo medico.

L’analisi del consumo di prodotti di fiction si rivela per diversi motivi un punto di osservazione privilegiato sullo stato della negoziazione fra rappresentazioni della sanità ed esperienza vissuta. Innanzitutto, va considerato un dato generale: la televisione «racconta la maggior parte delle storie alla maggior parte delle persone per la maggior parte del tempo e di conseguenza si configura come un distributore di immagini su larga scala che plasma le tendenze della cultura popolare. […] È attraverso queste storie che le persone acquisiscono molte conoscenze diverse sul mondo e i suoi abitanti»157. All’interno di questo panorama, sono proprio le serie tv a possedere «una speciale abilità di coinvolgere gli spettatori in modi che i notiziari e i programmi politici non fanno»158 e ad avere la capacità di raggiungere spettatori che non sono interessati nello stesso modo alla stampa.

Quanto alla presenza, all’interno della fiction, di un universo di comportamenti, valori e norme sociali in cui convivono istanze diverse, essa risponde a una fondamentale esigenza dei suoi fruitori reali, ossia «la richiesta di una rappresentazione verosimile – non vera e non falsa - della realtà: una rappresentazione con la quale sia possibile confrontare la propria esperienza individuale e sociale per scoprire, di volta in volta, quanto se ne discosta»159. Il suo potere di fascinazione, di coinvolgimento, di creazione

157 «[Television] tells most of the stories to most of the people most of the time – and thus it is the

wholesale distributors of images, and it forms the mainstream of our popular culture. […] it is through these stories that people learn many different things about the world and its peoples» (N. Signorielli,

Television and Health: Images and Impact, in C. Atkin, L. Wallack (a cura di), cit., p. 96, trad. it. mia). 158 Ibid., p. 126.

159 G. Losito, Il potere del pubblico: la fruizione di comunicazione di massa, Carocci, Roma, 2002, p.

e di adesione, spiegano Pescatore e Innocenti, emerge dall’articolazione e da una particolare declinazione della categoria del verosimile, la cui efficacia deriva dalla modulazione di una dimensione simulatoria (del reale) e una dimensione narrativa (del “come se”)160. È utile, allora, ricordare in questa sede la distinzione tra verosimiglianza e realismo che Stephen Neale propose in un suo libro sul concetto di genere161. Se “realismo” è il termine più comunemente utilizzato per valutare se una fiction costruisce un mondo che possiamo riconoscere come il nostro, è pur vero che, nella fiction, la “realtà” è sempre ri-costruita e dunque quella del “realismo” è una categoria altamente problematica. “Verosimiglianza”, suggerisce Neale, non si riferisce invece a ciò che potrebbe o non potrebbe realmente accadere, ma piuttosto a ciò che la cultura dominante ritiene possa accadere, a ciò che è generalmente accettato come credibile, appropriato, pertinente. Le convenzioni di genere producono poi un secondo ordine di verosimiglianza – ad esempio: cosa dovrebbe succedere in un western o in una soap opera – attraverso cui la credibilità della verità del mondo finzionale che attribuiamo a un particolare genere è garantita. C’è allora, secondo Neale, da fare una distinzione tra verosimiglianza culturale e verosimiglianza generica. Mentre la verosimiglianza generica permette un considerevole gioco di fantasia all’interno dei confini della credibilità del genere (cantare i propri problemi nei musical o utilizzare l’aglio nei film horror), la verosimiglianza culturale si riferisce alle norme, ai costumi, al senso comune del mondo sociale fuori dalla fiction. Differenti generi, conclude Neale, producono differenti relazioni tra verosimiglianza culturale e generica. Sebbene verosimiglianza e realismo non possano essere nettamente separabili nella pratica, la distinzione è utile perché ci suggerisce come e perché il realismo sia sempre una questione di contesto, mentre il concetto di verosimiglianza si riferisca alle percezioni normative della realtà – ciò che è generalmente accettato come tale –.

Nella mia ricerca, è la categoria della verosimiglianza che ha guidato l’analisi delle rappresentazioni della sanità da una parte e la contestualizzazione delle affermazioni dei telespettatori intervistati dall’altra. L’atteggiamento che mi ha portata a relativizzare e talvolta a non curarmi del realismo dei medical dramas è speculare al ragionamento che il sociologo Eliot Freidson fece a proposito della definizione di malattia: «La confusione si manifesta solo se si insiste sull’oggettività della definizione di malattia. Per il sociologo non è assolutamente importante che la definizione sia oggettiva o meno,

160 V. Innocenti, G. Pescatore, cit., p. 35. 161 S. Neale, Genre, BFI, Londra, 1980.

perché, giusta o sbagliata che sia, reale o immaginaria, essa ha comunque delle conseguenze sociali. Dal momento che il compito di decidere l’esistenza reale e la causa vera della malattia spetta al medico, il sociologo può occuparsi delle conseguenze sociali dell’attribuzione della malattia e del concetto sociale che essa rappresenta»162. Quando si afferma che la fiction seriale, grazie ai suoi fenomeni di durata e persistenza, comincia a funzionare come una cosa reale, non ci si riferisce allora ad un “creder vero”, quanto piuttosto ad una funzione d’uso. Nonostante Walter J. Ong, ad esempio, sostenga che è capacità tutta particolare della televisione, quella di palesare la presenza e di confondere il vissuto e il rappresentato, il reale e l’immaginario, lo spontaneo e il costruito, quasi tutti gli spettatori sanno benissimo che gli eventi e gli esseri che si manifestano e accadono sullo schermo non hanno la stessa consistenza ontologica degli eventi e degli esseri che abitano le loro vite. Gli spettatori usano però quegli eventi e quegli esseri come pezzi d’esistenza reale, li fanno entrare nelle loro giornate (nelle conversazioni, nelle interazioni quotidiane) in funzioni del tutto simili a quelle riservate alle cose del mondo reale. In altri termini, li usano come risorse relazionali ed esperienziali, come merce di scambio tra individui e come modelli di interpretazione di situazioni della realtà.

Fra i generi televisivi, la fiction seriale è inoltre quella che meglio si presta ad una ritualizzazione del consumo. Essa non solo esibisce un rapporto di reciprocità con la vita quotidiana a causa dei suoi contenuti163 (la struttura narrativa è imperniata sul ricorrere costante degli stessi ambienti e degli stessi personaggi, ciascuno dei quali presenta tratti caratteriali specifici e una sua storia passata), ma implica una fidelizzazione dello spettatore che è fruitore costante e competente.

L’appuntamento settimanale, ad una determinata ora davanti alla tv, scandisce non solo il tempo della programmazione televisiva ma anche quello della programmazione “esistenziale” quotidiana: «spesso ciò che mostra non assomiglia alle esperienze effettivamente vissute dallo spettatore; nondimeno il mondo che si affaccia sul piccolo schermo in qualche maniera gli appartiene: un po’ perché appare con regolarità e

162 E. Freidson, La dominanza medica. Le basi sociali della malattia e delle istituzioni sanitarie, Franco

Angeli, Milano, 2002, p. 178.

163 Gianni Losito elenca come caratteristiche generali della fiction: la ripetizione, ovvero la reiterata

presentazione in testi diversi degli stessi elementi (sia formali sia di contenuto); la serializzazione, ovvero la successione di testi legati tra loro dalla continuità delle vicende narrate o dall’appartenenza allo stesso nucleo tematico e/o narrativo; la dilatazione, ovvero il prolungamento, virtualmente indefinito in alcuni generi, della successione. (G. Losito, cit., p. 108).

costanza; un po’ perché si interseca e convive con le vicende domestiche»164. A creare un’ulteriore continuità fra l’universo televisivo e i vissuti dei soggetti è infine il fatto che le audience televisive da “audience di massa” sono oggi sempre più “audience diffuse”. Nelle parole di Abercrombie e Longhurst, ciò significa che «ognuno diventa spettatore in qualsiasi momento: essere membro di un pubblico non è più un evento eccezionale, né un evento quotidiano. È piuttosto parte costitutiva della vita quotidiana»165.

A questo proposito è importante sottolineare due aspetti legati alla tematizzazione delle audience diffuse. Il primo è quello messo in luce da Jospeh Turow e Laura Grindstaff: occorre che gli studiosi rivedano la nozione per cui la televisione sarebbe principalmente un medium domestico vincolato ad una particolare tecnologia166. Dal momento che, al giorno d’oggi, le persone ricevono i programmi televisivi non solo via digitale terrestre, satellite o internet, ma possono consumarli da qualunque luogo e in qualunque momento attraverso smartphone e tablet, è sicuramente più corretto concepire il consumo televisivo come un consumo inestricabilmente immerso in un più ampio flusso mediale che, a seconda del punto di vista, è possibile denominare “video culture” (Turow e Grindstaff, 2006), “mediascape” (Appadurai, 1996)167 o “ecosistema mediale” (Jenkins, 2001)168.

Il secondo aspetto, legato alla scelta di intraprendere un’etnografia del consumo dei medical dramas piuttosto che di altro genere di programmi a tema medico, prende in considerazione un elemento operativo non scontato: i fan e gli spettatori di questo genere di prodotti sono facilmente rintracciabili on-line, attraverso i fan club dedicati alle serie tv o a partire dalle pagine facebook delle serie tv in oggetto169.

164 M. L. Bionda, F. Casetti, L. Corbetta, I media e la famiglia, in F. Casetti (a cura di), L’ospite fisso: televisione e mass media nelle famiglie italiane, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995, p. 53. 165 «Everyone becomes an audience all the time: being a member of an audience is no longer an

exceptional event, not even an everyday event. Rather it is constitutive of everyday life» (N. Abercrombie, B. Longhurst, Audiences: a Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, London, 1998, pp. 68-69, trad. it. mia).

166 L. Grindstaff, J. Turow, cit., pp. 119-120.

167 A. Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota

Press, Minneapolis, 1996.

168 H. Jenkins, Convergence? I Diverge, in “MIT Technology Review”, June 1, 2001.

169 Al 29 settembre 2014, più di 44 milioni di persone avevano apposto un like alla pagina facebook di House, M.D. e, secondo le statistiche della pagina, 17.616 persone ne stavano parlando, al momento della