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Selezione strategica delle narrazioni

Capitolo 5 – Verso un’etnografia del consumo

5.6 Selezione strategica delle narrazioni

Il “racconto” dell’esperienza del malessere non si radica unicamente nel vissuto individuale della malattia. Esso si configura come un resoconto storico-culturale di una serie di emozioni, credenze, scelte operative che, a posteriori o durante il malessere, vengono elaborate dal soggetto, sofferente o guarito, per rappresentare l’evento della malattia e la sua incidenza nella propria vicenda

383 «J’ai l’impression que justement on commence à comprendre quelque chose alors que le monde de la

médecine est très très hermétique et que les rares fois où je suis allée à l’hosto, j’y pigeais rie net là, j’ai commencé a comprendre. […] J’ai l’impression que je comprends beaucoup mieux: on le clampe, on lui met de l’O2 négatif» (Ibid., p. 249).

biografica. Pertanto la narrazione mette in gioco non solo la dimensione individuale del malessere ma, contestualmente, è connessa alla produzione di significati culturali, alle relazioni sociali, alla profondità storica e ai rapporti economico-politici.

Giovanni Pizza384

Fra i diversi soggetti sociali coinvolti nel discorso esplicativo (la ricerca della cause), interpretativo (la comprensione dei significati) e narrativo (la formulazione espressiva di un racconto) generato dall’irruzione del malessere, si crea uno spazio di negoziazione che coinvolge tutti i soggetti agenti nel campo biomedico (medici, infermieri, pazienti, familiari, etc.) all’interno di una dialettica egemonica, per cui essi devono orientare la propria capacità di agire in un campo regolato da rapporti di forza. All’interno di questo spazio di negoziazione, i soggetti concettualizzano, rappresentano, nominano il malessere attingendo ad una “cassetta degli attrezzi” che deriva dal loro repertorio culturale. Le interviste raccolte mostrano che la maggior parte degli intervistati, per descrivere il proprio malessere, si sforza di utilizzare, nel dialogo con il medico, una terminologia “tecnica”, cioè un linguaggio vicino alle categorie biomediche di definizione della malattia. Ciò viene giustificato come un modo per tentare di velocizzare il processo diagnostico, per aiutare la comprensione allo specialista, ma soprattutto per guadagnare autorevolezza di fronte allo stesso. Enrico, 24 anni, studente di ingegneria biomedica, rivela385:

Cerco di utilizzare una terminologia medica in caso di bisogno, poiché ritengo che possa portare la persona che ho di fronte ad avere un “comportamento” più adeguato nei miei confronti: avere di fronte una persona che “ne capisce qualcosa” penso possa aiutare a non farmi liquidare con qualche frase banale o di circostanza. Un minimo di conoscenza, come in qualsiasi ambito, allontana dall’ignoranza e spesso si evitano rogne o situazioni spiacevoli.

Andrea, studente e coetaneo di Enrico, è dello stesso parere386:

384 G. Pizza, Antropologia medica: saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma, 2008, p. 87. 385 Dal questionario, compilato in data 09/12/2010.

Utilizzare il mio linguaggio – non ospedaliero – mi sono reso conto che porta a far capire al medico la situazione, ma ad essere comunque meno credibile e meno degno di avere una spiegazione concreta di quello che avverrà sul mio corpo o come agirà la terapia prescritta. Ritengo che dimostrare al medico di capire ciò che sta dicendo sia alla base di un rapporto medico-paziente meglio seguito, a tutto vantaggio della soddisfazione di entrambi rispetto all’altro.

Sofia, 24 anni, supplente educatrice nido, spiega perché, secondo lei, utilizzare termini tecnici aiuta ad essere più rispettati387:

In parte li utilizzo per farmi capire meglio, per essere più veloce, perché spesso i termini tecnici medici spiegano in maniera più sintetica un problema che a parole diventerebbe molto più lungo, e poi insomma non per mettermi al loro livello, però insomma avvicinarmi. Perché spesso i medici, c’è da dire, è un problema, che tendono a farti sentire molto più piccolo di loro. Nel senso che utilizzando molti termini tecnici – e io fortunatamente ne ho due molto bravi che non sono così, però ne ho conosciuti altri che insomma utilizzano i termini tecnici – e il loro sapere per farti sentire… insomma, per sminuirti, ecco. Allora magari può essere anche un meccanismo di difesa che utilizzo per far capire che non sono una sprovveduta, che con me devono anche avere un certo tipo di… rispetto, ecco.

Serena, 25 anni, studentessa, per paura di non essere capita, addirittura si prepara prima di incontrare il medico388:

Cerco di esprimermi in termini medici consultando fonti di informazioni su internet prima di recarmi all’appuntamento dal medico; ho infatti sempre paura che il medico non capisca abbastanza bene il mio malessere e quindi non sappia aiutarmi o peggio ancora mi dia una terapia non efficace.

Anche Francesca, 26 anni, in cerca di prima occupazione, ritiene che esprimersi con un linguaggio più tecnico possa essere d’aiuto alla formulazione di una diagnosi389:

387 Dall’intervista a Sofia, realizzata in data 28/12/2010 a Bologna. 388 Dal questionario, compilato in data 08/12/2010.

Cerco di utilizzare una terminologia il più precisa possibile. Credo di averla appresa sia dalla tv, che dalle letture di approfondimento che dall’istruzione superiore. […] Se uno sa descrivere in maniera chiara ed efficace quello che sente, può risultare un aiuto per la diagnosi medica.

È dello stesso parere Rossella, 34 anni, ufficio stampa, quando afferma390:

Magari mi faccio intendere lo stesso, ma se conosco un termine medico che aiuta a definire meglio il sintomo lo uso, perché penso che il dottore riesca ad arrivare più velocemente alla diagnosi.

Di parere opposto sono altri intervistati, come Marco, studente lavoratore di 27 anni, che riferisce391:

Credo che tutti dovrebbero essere più pazienti e meno dottori. C’è chi studia per capire i nostri sintomi, e trarre soluzioni da un telefilm non sempre può essere utile, anche perché si possono creare casistiche di panico per delle sciocchezze.

Chiara, studentessa in medicina di 25 anni, è d’accordo con Marco ma per altri motivi392:

Penso che essere precisi nel descrivere i propri sintomi, senza trascurare nemmeno quelli che non riteniamo importanti, o dei quali ci vergogniamo, possa aiutare in modo decisivo il medico nel comprendere la patologia. Penso che non sia compito del paziente esprimersi con un linguaggio medico e specialistico, ma sia il medico a dover adattare il proprio linguaggio, il lessico e il modo di esprimere i concetti al paziente che si ha di fronte.

Lucia, studentessa ventiquattrenne, ritiene che utilizzare un termine tecnico per spiegare la propria situazione possa far ottenere più “attenzioni” da parte del medico. Al contempo, però, osserva393:

390 Dal questionario, compilato in data 23/12/2010. 391 Dal questionario, compilato in data 30/12/2010. 392 Dal questionario, compilato in data 13/12/2010.

Non è che sono io che devo cercare le parole giuste: allora faccio il medico di me stessa e allora ce la faccio.

Anche Fabrizio, 31 anni, imprenditore, mette in guardia394:

Penso che l’uso di un linguaggio medico da parte di un non medico non aiuti particolarmente a farsi intendere, e anzi, possa addirittura fuorviare il medico.

Martina, studentessa di 27 anni, ritiene invece che il linguaggio appreso dalle serie tv possa essere «una specie di scoglio, di piccola àncora, che io posso utilizzare per far sì che il mio medico mi aggiunga altre informazioni», perché «la serie televisiva mi mostra il linguaggio e ciò che c’è attaccato, per cui quando magari il mio medico utilizza qualche tecnicismo che io là per là non capisco, gli posso fare qualche domanda»395. Se l’uso di un gergo specialistico da parte del medico è in molti casi lamentato come una forma di esclusione dal rapporto medico-paziente, lo stesso gergo viene appropriato dal paziente e riutilizzato in direzione opposta, cioè per tentare di scavare un via d’accesso a quel rapporto, mostrandosi agli occhi dello specialista meno sprovveduto e dunque “più degno di ascolto”. Era lecito pensare, all’inizio di questa ricerca, che un tale uso del sapere appreso potesse essere applicato in senso tattico, potesse insomma divenire l’arte del più debole. Scriveva Michel De Certeau: «sia pure all’interno della colonizzazione che li “assimilava” esteriormente, il loro uso dell’ordine dominante riusciva a farsi gioco del suo potere, in mancanza di mezzi per respingerlo, gli sfuggivano senza sottrarvisi. La forza della loro differenza derivava dai modi di consumo»396.

Al pari della costruzione di frasi proprie con un vocabolario e una sintassi ricevuti, «gli utenti giocano con l’economia culturale dominante operando, al suo interno, innumerevoli e infinitesimali trasformazioni della sua legge in funzione dei loro interessi e di regole loro proprie»397. Sotto questo profilo, torna alla mente anche la dinamica di consumo della cultura di massa evidenziata da John Fiske: la gente può prendere elementi di cultura di massa dal supermarket culturale, ma quando cucina

394 Dal questionario, compilato in data 20/01/2011.

395 Dall’intervista a Martina, realizzata in data 02/12/2013 a Bologna. 396 M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Lavoro, Roma, 2001, p. 7. 397 Ibid., p. 8.

(produce significati) essa mischia questi beni acquistati al supermarket con qualunque cosa abbia in dispensa a casa, individualizzando e trasformando il prodotto finale. De Certeau dice di più, suggerendo che l’astuzia di una riappropriazione nel testo dell’altro «rende il testo abitabile come un appartamento in affitto: trasforma la proprietà dell’altro in luogo occupato, per un momento, da un passante»398.

Le conoscenze e le categorie imposte possono dunque essere oggetto di manipolazioni da parte di chi le usa senza averle create. È questo, che, secondo De Certeau, definisce la tattica come azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio: «nessuna delimitazione di esteriorità le conferisce un’autonomia. La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. Deve pertanto giocare sul terreno che le è imposto così come lo organizza la legge di una forza estranea. […] è movimento all’interno del campo visivo del nemico»399.

Non è mia intenzione suggerire che medico e paziente siano nemici, tutt’altro. È però vero che, solitamente, il paziente, a causa dell’asimmetria informativa, della condizione di necessità in cui versa, e per il fatto che spesso e volentieri si trova a dover richiedere cure in un luogo che non gli è proprio (lo studio del medico o l’ospedale) è, all’interno del rapporto medico-paziente, in una posizione subordinata rispetto a quella del professionista che invece, fino a prova contraria, ricopre una posizione di “dominanza”. In questo senso si sostiene che il paziente deve giocare, con le arti del più debole, in un terreno che gli è imposto.