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Dino Buzzati, Una fine del mondo, 1967.

La peste motoria

La scenografia periferica del Tiranno malato può essere letta anche come una sorta di purgatorio, che si interpone tra il mondo “alto” e trascendentale della montagna e il mondo “basso” e infernale della città141. Si noti, ad esempio, come

il racconto Viaggio agli inferi del secolo (raccolta Il Colombre) veda Buzzati stesso recarsi in veste di cronista negli scavi della metropolitana di Milano, nella quale si dice esser stata rinvenuta la porta dell’inferno. Il diavolo, d’altro canto, è presenza ricorrente nella produzione buzzatiana: nel racconto Appuntamento con Einstein la figura demoniaca assume le sembianze di un benzinaio che porta il

141 Sull’immagine della città in Buzzati cfr: U. Musarra, Immagini di città. Dino Buzzati e la tradizione moderna-postmoderna, in «Narrativa», numero 23; N. Giannetto, Il sudario delle caligini, significati e fortune dell’opera buzzatiana, Saggi di lettere italiane, Firenze Olschki, 1996; F. Gianfranceschi, Buzzati postmoderno, Introduzione a Il crollo della Baliverna, Milano, Mondadori, 1984.

63 nome di Iblis. Questi, come sottolinea Lazzarin, porta il nome del «capo e padre di tutti gli Yinn (spiriti creati da Allah con il fuoco)»142. La figura demoniaca del

benzinaio ci scorta nel racconto La peste motoria, poiché in questo lo scenario cittadino fa da sfondo ad una vera e propria peste che non attanaglia gli umani, bensì le automobili. La prima avvisaglia del morbo si manifesta in un garage dal nome fortemente evocativo: Iride.

Un mattino di settembre, nel garage Iride di via Mendoza - per caso ero presente - entrò un’auto grigia di marca esotica e di forma inusitata, con targa straniera che non si era mai vista mai. Il padrone, io, il vecchio capo meccanico Celada, mio ottimo amico, e gli altri operai eravamo tutti di là nell’officina. Ma attraverso una vetrata il grande salone dei posteggi era visibile143.

L’etimologia di Iride è greca, íris -idos, in latino iris -ĭdis. In origine significava “messaggera degli dei” o “annuncio” con riferimento all’omonima dea pagana della mitologia greca (personificazione dell'arcobaleno). Il termine è passato a designare l’arcobaleno stesso, poi esteso al fiore e alla parte dell'occhio. Ma è alla dea dell’Olimpo che Buzzati sembra alludere, poiché il compito di Iris è quello di annunciare agli uomini messaggi funesti. Ecco allora che il garage

Iride, così come la dea dell’Olimpo, “annuncia” la terribile piaga che da lì a

poco si diffonderà, inarrestabile, di motore in motore.

Dall’auto scese un signore sui 40, alto, biondo, elegantissimo un po’ curvo, che si guardò attorno preoccupato. Il motore non era stato spento e andava al minimo. Ciononostante, ne veniva un rumore strano, mai udito, un arido stridio, quasi i cilindri macinassero dei sassi144.

Evocativo è anche l’odonimo in cui è ubicato il garage, ovvero Via Mendoza. Esso è nome “spagnoleggiante”: dal basco Mendtza (composto da mendi-hotza), letteralmente “monte frìo”(monte freddo). Mendoza è nome di una città argentina, anche cognome di Pedro de Mendoza (1487-1537), conquistador

142 Stefano Lazzarin, Intorno a qualche nome di Buzzati, in «Italianistica», XXXII, 1, gennaio- aprile 2003, p. 42.

143 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 477. 144 Ibidem.

64 spagnolo, capo della spedizione che portò alla fondazione di Rio della Plata e Buenos Aires (egli morì di sifilide durante il viaggio di ritorno in patria). L’ispirazione di queste scelte onomastiche sembra provenire dalle spedizioni compiute dai colonizzatori europei nel nuovo mondo. Alla sottomissione degli imperi indigeni contribuirono infatti in maniera decisiva le malattie importate dagli europei, come il vaiolo ma anche la peste. A questa sembra infatti alludere il vecchio (potremmo dire “vecchissimo”) capo meccanico Celada, che da giovane dice di essere «stato nelle Americhe»145. Ascoltando lo stridio del

motore infetto, il meccanico capisce all’istante di cosa si tratta: «“Questa è la peste. Come nel Messico. Me lo ricordo bene”»146 - e quale peste ha conosciuto il

Messico se non quella importata dai colonizzatori? Inoltre si veda come il capo meccanico porti un nome fortemente allusivo: Celada in spagnolo significa “imboscata”, “agguato”; significati che ben si confanno alla minacciosa figura di un conquistador. Non solo, l’aura sinistra condensata nel nome sembra preludere al tradimento compiuto da Celada nei confronti dell’autista Giovanni. Questi, chiamerà il meccanico affinché possa guarire l’automobile infetta, ma Celada si presenterà in compagnia di due monatti:

Ecco aprirsi l’uscio del garage, presentarsi e venire avanti due sudice tute marrone, due facce scomunicate, due monatti, in una parola vidi mezza faccia del Celada che, nascosto dietro un battente, rimaneva lì a spiare. “Ah, lurida carogna…”147.

Per chiarezza, facciamo un salto indietro e riprendiamo il filo narrativo. All’avvisaglia del morbo verificatasi nel garage Iride, segue una vera e propria epidemia che costringe gli automobilisti ad abbandonare le vetture infette fuori città, dove vengono date alle fiamme. In questa atmosfera si inserisce la vicenda del narratore Giovanni, autista di una ricca vedova. Egli trasporta la donna

145 Ibidem.

146 Ibidem. 147 Ivi, p. 481.

65 guidando una Roll-Royce: marchio che qui diviene status simbol della condizione aristocratica.

Si trattava di una grossa Roll-Royce nera, già veterana, ma di aspetto superlativamente aristocratico. Ne ero orgoglioso. Per la via, anche le più potenti supersport smarrivano l’abituale tracotanza alla comparsa di quel superatissimo sarcofago trasudante sangue blu. Il motore poi, nonostante l’età, era un miracolo148.

Tuttavia, sebbene si dicesse «che le maggiori cilindrate fossero praticamente immuni» ciò non basta a premunire la Rolls-Royce dal contagio149. La vettura

manifesta il primo sintomo, in una piazza dal nome non certo rassicurante quale Bismark.

Quand’ecco, proprio mentre si imboccava piazza Bismark, percepii, nell’armonioso fruscìo del motore, una breve incrinatura, un aspro grattamento che durò una frazione di secondo. Ne chiesi alla marchesa. «Non ho sentito niente, io» mi disse. «Sta su di giri, Giovanni, non pensarci, questo vecchio catenaccio non ha paura di nessuno»150.

L’odonimo rimanda al nome del “cancelliere di ferro” dell’impero Tedesco, Otto von Bismark (1815-1898). Non solo, col medesimo nome è stata battezzata la celebre Bismark: nave da battaglia tedesca che durante la seconda guerra mondiale divenne celebre per essere ritenuta inaffondabile. Essa fu abbattuta soltanto dopo una lunga e assidua caccia svolta dalle corrazzate inglesi (si vedano le analogie con la mitica Corrazzata Tod dell’omonimo racconto). Così come la nave tedesca dovette infine cedere agli attacchi degli Alleati, così la Roll-Royce, la cui sola presenza bastava a intimorire tutte le altre vetture, si piega di fronte al male contratto.

148 Ivi, p. 480.

149 Una certa superbia di stampo aristocratico trapela anche nel racconto Eppure battono alla porta: qui l’aristocratica signora Gron si rifiuta fermamente di abbandonare la sua dimora, come se la sua condizione sociale bastasse a tenere lontana la minaccia del fiume in piena; si legga: «Col suo aristocratico sprezzo presumeva ora di opporsi alla rovina, di intimidire l’abisso?», D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 68.

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Tuttavia, prima di arrivare a casa, altre due volte quel sinistro cigolìo, o ingorgo, o sfregamento, non saprei proprio come dire, si ripeté, riempiendomi l’animo di orgasmo. Rientrato, a lungo rimasi nel piccolo garage a contemplare la nobile macchina, apparentemente addormentata. Finché, per certi indicibili gemiti provenienti a tratti dal cofano, benché fosse spento, fui certo del peggio151.

Il racconto si chiude in uno scenario infernale dalle forti risonanze Manzoniane. I monatti hanno condotto l’auto in periferia, dove verrà data alle fiamme. Giovanni, attraverso una fessura di una palizzata, non può che assistere, impotente, al consumarsi della tragedia.

A lungo restai con un occhio incollato a una fessura della palizzata, vedevo il rogo delle sventurate macchine, sagome scure si contorcevano spasimando tra le vampe. Dov’era la mia? In quell’inferno era impossibile distinguere. Solo per un istante, sopra il muggito selvaggio delle fiamme, credetti di riconoscere la sua cara voce; un urlo altissimo, straziante, che svanì presto nel nulla152.

Una pallottola di carta

Da Via Mendoza ci spostiamo ora in Via Calzavara; qui Buzzati colloca la palazzina dove abita il poeta del racconto Una pallottola di carta. La vicenda vede il narratore raccogliere un foglio accartocciato scaraventato fuori dalla finestra, dentro la quale il poeta sta componendo versi. Sono le due di notte, ovvero

l’ora remota e massima, il profondo recesso della notte dove nascono i sogni, e l’anima, se può, si libera dei dolori accumulati, spaziando sopra i tetti e le caligini del mondo, cercando le parole misteriose che domani soccorrendo la grazia, trapaneranno i cuori della gente, inducendola a pensare cose grandi153.

Calzavara è cognome tipico del Triveneto, in qualità di odonimo, invece,

riscontriamo Via Dai Calzavara in provincia di Trieste e Via Calzavara in

151 Ibidem. 152 Ivi, p. 482. 153 Ivi, p. 472.

67 provincia di Verona. L’origine del cognome deriva dal soprannome composto da “calza” (dal latino calceus, “scarpa”, “stivaletto”) e varia (dal latino varius “variegato”, “svariato”). Dato il tema centrale della poesia che domina questo racconto, suggestivo è pensare che Buzzati si sia ispirato a Ernesto Calzavara, poeta nato a Treviso e impostosi all’attenzione della critica soprattutto negli anni sessanta, per i suoi sperimentalismi poetici in dialetto Trevigiano. Tuttavia, al tempo della stesura della Pallottola di carta (la raccolta che lo comprende è del ’58) Ernesto Calzavara godeva di un attenzione certamente minore nei confronti della critica (le sue prime opere poetiche, in lingua, sono state pubblicate solo privatamente negli anni ‘40). Non riscontrando contatti diretti o indiretti tra lo scrittore e il poeta, questa tesi è dunque destinata a naufragare o quanto meno a rimanere sospesa.

Patrizia Dalla Rosa, che tra i molti saggi da lei scritti dedicati a Buzzati ricordo Geografia e onomastica de «I miracoli di val Morel», mi ha confermato la diffusione veneta del cognome154. Ciò rispecchierebbe, sempre come mi ha

riferito la studiosa, la tendenza di Buzzati di trarre ispirazione dall’onomastica a lui vicina, spiazzando così il lettore autoctono come quello straniero:

I toponimi, siano essi reali o inventati, non sono indicazioni geografiche, ma trascolorano nel sogno e nel ricordo, nella magia e nel mistero. ed esercitano un potere suggestivo sia nell’autoctono, il locale, che sullo straniero, il “forestiero”. Se i non autoctoni traggono stupore e un certo disorientamento dagli stessi suoni dei toponimi locali, gli autoctoni sanno invece riconoscere, in questi nomi di luoghi, località note: così possono ancorare fatti inspiegabili, misteriosi, inverosimili, miracolosi, a località che sono, invece, familiari, e allora un fantastico che poggia sulla realtà possiede ancora più accese le connotazioni del fantastico155.

Inoltriamoci adesso nell’analisi della Pallottola di carta, perché questa ci permetterà di sollevare temi e figure che ritroveremo nel racconto seguente. Come detto, il protagonista raccoglie la pallottola di carta ma, nonostante l’insistenza dell’amico Francesco, che lo incita a dispiegare il foglio e

154 Comunicazione personale.

68 ricomporre le parole trascritte (chissà, forse si tratta di «una bellissima poesia») il narratore decide di mantenere intatta la «preziosa sorpresa» che custodisce il cartoccio. Così lo chiude in un cassetto, preservando quel piacere che, secondo la filosofia Leopardiana, si compie nella sua attesa e non nel suo consumarsi.

Con tale certezza, io preferisco mantenere intatta la preziosa sorpresa chiusa nell’involto, tenerla in serbo per un vago futuro. E come nella vita l’attesa di un bene certo ci dà più gioia che il raggiungerlo (ed è saggio non approfittarne subito, ma conviene assaporare quella meravigliosa specie di desiderio che è il desiderio sicuro di essere appagato ma non ancora praticamente soddisfatto, l’attesa insomma che non ha più timori e dubbi e che rappresenta probabilmente l’unica forma di felicità concessa all’uomo)156.

L’evidente richiamo alla teoria del piacere di Leopardi è palesato dallo stesso Buzzati, che nel racconto cita un celebre passo dello Zibaldone: «Il bello in grandissima parte non è tale, se non perché tale si stima». Ecco dunque che un sentore di felicità invade il narratore nel solo gesto di stringere tra le mani quella pallottola di carta; felicità originata dal «pregustare» con l’immaginazione la bellezza di quei versi celati, il cui svelamento, invece, dissolverebbe il piacere prodotto dai vagheggiamenti della fantasia. Tutta Buzzatiana invece è la trasfigurazione della montagna a luogo incantato:

Quando apro il cassetto e stringo in mano la descritta pallottola di carta dove si presume sia celato, in un groviglio di lacerti, un abbozzo di poesia, sarà la forza della suggestione, ma d’incanto mi sento più contento, più vivo, più leggero, intravedo una luce di magnificenza spirituale, e dall’estremo orizzonte lentamente cominciano ad avanzare verso me le montagne, le solitarie montagne!157.

Non veniamo a conoscenza del nome del poeta, ma poco importa: il vero protagonista di questo racconto è la poesia stessa. Questa, intesa come forma misteriosa e ascendente, che conduce l’animo umano sopra «i tetti e le caligini» inducendo le persone a «pensare cose grandi». La poesia e le montagne sono

156 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 475. 157 Ivi, p. 476.

69 accomunate dal medesimo mistero, come dalla medesima funzione di elevare l’animo dalla vacuità terrena. Questa ascensione spirituale, reca piacere fintanto mantenga intatta la sua dimensione illusoria: si veda come nel celebre articolo L’Everest (1956) Buzzati consideri la conquista della montagna più alta del mondo come la fine di un sogno:

Guardatela la superba montagna, la solenne cattedrale che fino al 29 maggio poteva essere creduta un miraggio, una parvenza, un mito. Non è forse più piccola di ieri? Non è in certo senso meno bella? […] Oggi l’incanto è rotto, oggi siamo sicuri che la cima favolosa è fatta come le altre, che non vi abitano gli dei della montagna. Oggi l’Everest entra, pur se al primo posto, nel repertorio delle cime note, con nomi e cognomi di alpinisti, descrizioni dell’itinerario eccetera. È insomma cominciata la sua storia, ma è finita per sempre la leggenda158.

Allora Buzzati evoca la luna e i pianeti: luoghi ancora non profanati dall’uomo e dunque intrisi di favola e conturbante mistero:

Ci rimane la Luna - qualcuno dice - rimangono i pianeti. Gli spazi siderali. Qui non c’è limite per la sete di ignoto e di avventure. Esaurita la terra, esploreremo l’Universo. Ma quando? […]E intanto noi restiamo prigionieri sulla superficie del pianeta che gira eternamente, globo che ieri sembrava sterminato, oggi si è fatto piccolo, proprio una palla di cui conosciamo ormai tutti i segreti, frugata e percorsa in ogni senso159.

158 D. Buzzati, L’Everest, «Corriere della Sera» Giugno 1953, in D. Buzzati, Cronache terrestri… cit., p. 107.

159 Ibidem; Anche la Luna verrà conquistata. Nel luglio del 1969. Neil Armstrong, comandante della Missione Apollo 11, calpesterà per la prima volta il suolo lunare. Nonostante l’indiscusso successo raggiunto dalla Scienza, la conquista si riverbera nell’animo poetico di Buzzati come un’altra minaccia al mondo delle illusioni. Nell’articolo Apollo 14: soli soletti, Buzzati si domanda il senso di mandare ancora uomini sulla luna, consumando così la poca poesia che lì è rimasta: «Sono andati in cima all’Everest, al K-2 - pensa molta gente, anche se poi non lo dice - gli abbiamo decretato gloria immortale, gloria con tutta l’anima nostra, ma adesso che bisogno c’è di tornare in cima ancora una volta? […] una quarta, perché? Per un sacco o due di altri sassi che ormai si sa benissimo che cosa sono, sassi grigi e complessivamente cretini? Così pensa la gente la quale non si può rendere conto, compreso il sottoscritto, delle imprescindibili necessità scientifiche e del progresso e così via. E non dispone più di poesia, l’ha quasi tutta consumata»; in «Corriere della Sera» 1 Febbraio 1971.

70 A conclusione dell’articolo ritorna il tema della poesia. La vetta dell’ Everest è stata conquistata, sicché la poesia che lassù dimorava dove si è andata a cacciare adesso?

Ne rimaneva vergine solo un pezzettino, una gobbetta, un minuscolo bitorzolo di neve. Ivi si era rifugiata la poesia, con i sogni, le speranze, le illusioni, le bellissime cose inutili tuttavia così indispensabili alla vita. A partire dal 29 maggio scorso, la poesia se ne è andata anche di là. Dove potremmo ritrovarla?160.

Era proibito

Spostiamoci adesso nel racconto Era proibito. In questo Buzzati immagina un mondo nel quale la poesia è stata messa al bando dal governo, salvaguardando così i lavoratori dalle «peccaminose intemperanze della fantasia». Si scopre che il propugnatore della legge è l’onorevole Montichiari. Il nome parrebbe la trasposizione, in campo antroponomastico, di un toponimo esistente.

Montichiari (Munticiàr in dialetto bresciano) è infatti un comune Lombardo, in

provincia di Brescia161. Perché la Lombardia? La risposta forse è da ricercare

nell’ambientazione cittadina che fa da sfondo al racconto. Sappiamo come la città rappresentata da Buzzati sia fortemente connessa a Milano, sia che il capoluogo venga richiamato direttamente (si veda tra poco Paura alla Scala) sia che venga trasfigurato in veste allegorica. Così come Buzzati è solito attingere all’onomastica veneta162 per designare luoghi o personaggi legati alla montagna

qui sembra protendere per un nome lombardo per designare un personaggio di città163. Inoltre, il nome Montichiari si mostra fortemente allusivo. Esso veicola

160 In «Corriere della Sera» Giugno 1953.

161 Inizialmente il nome era Montechiaro, mutato poi in Montechiari su Chiese, fino alla denominazione attuale: si ritiene che il toponimo derivi dal composto tra il termine latino clarus (inteso come spoglio da alberi) e “monti”.

162 si vedano i nomi analizzati Monte Fumo, Cappella Fasani, Crocetta, Lìmena…

163 In Era proibito ritornano le connotazioni di una città piegata dalle logiche produttive e commerciali: «produrre, costruire, spingere sempre più in su le curve dei diagrammi, potenziare industrie, commerci»; le quali si concretizzano in un paesaggio anonimo,

71 la figura dei “monti”: abbiamo visto come la montagna per Buzzati si erga a dimora prediletta della poesia. Non solo, nel nome è presente anche “chiari”: aggettivo che ben si accorda con la luminescenza dalla luna, figura anch’essa dalle forti connotazioni poetiche164. Come si legge nel racconto in esame «[la

luna] illumina la città, producendo i noti effetti luminosi, le cupe ombre, gli effetti di trasparenza nelle nuvole»165. È il chiarore della luna che trasfigura il

paesaggio cittadino, intingendo gli animi innocenti di sentimento poetico:

Proprio lassù, sui tetti trasfigurati in certo modo dalla luna (neppure lui potrebbe negarlo onestamente) sta in agguato ancora la poesia, questa depravazione antica? E, benché innocenti, anche i bambini ne restano tentati, senza che alcuno gliene abbia mai fatto cenno? E dovunque nella città è lo stesso, come per una congiura che fermenti? […] E lui, Montichiari? Perfino dentro di lui quel sentimento occulto sta forse covando?166.

Persino Montichiari, ideatore della legge contro la poesia, sembra tentennare davanti al fascino conturbante dalla luna. Dapprima cerca di cacciarlo via spazzolandosi il cappotto, lì dove la luna fa piovere il suo candore:

Egli stesso, Montichiari, non si nasconde di provare una ingrata sensazione. Pure su di lui piovono silenziosamente dalla volta siderale cateratte di quella luce, così contraria alle direttive del governo. E gli viene fatto di spazzolarsi il cappotto con le mani per ripulirlo, tirar via la impalpabile ragnatela di argento che sembra depositarsi a strati167.

caratterizzato dalle industrie: «Nulla si vede tranne il banale panorama dei tetti deserti, degli alberi spogli, dei capannoni industriali di là dal viale» (non è difficile riscontrare nella città anonima di Era proibito un rimando alla produttiva Milano); p. 416, p. 418. Eloquente è la carica del personaggio Montichiari, ovvero quella di «ministro del Progresso»; si allude ad una concezione subdola di “progresso”: esso reprime il sentimento umano in virtù di un profitto fine a se stesso.

164 A ulteriore conferma di come la luna e la montagna siano per Buzzati ricettacoli del medesimo sentimento poetico si confronti il racconto 24 Marzo 1958: «Persino la luna, che un tempo pareva una cosa nostra, ha riacquistato la severa maestà delle montagne», Sessanta racconti… cit., p. 283.

165 Ivi, p. 418. 166 Ivi, p. 419. 167 Ibidem.

72 Infine Montichiari cerca rifugio tra le mura del Ministero. Qui, dopo aver sorpreso un suo collega comporre in segreto una poesia dedicata proprio alla luna, il ministro si affaccia sulla terrazza. Sotto la soffice luce lunare, le strade si

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