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I luoghi di Buzzati. La montagna, la città, il deserto: analisi critica e toponomastica dei Sessanta racconti

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Academic year: 2021

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1.

Introduzione

Come scrive Stefano Lazzarin «L’onomastica buzzatiana non è mai il frutto di un capriccio o del caso, ma sempre attentamente meditata, spesso allusiva, ricca di sensi molteplici […]»1. Ciò trova conferma nell’analisi toponomastica

che accompagnerà questo viaggio nei luoghi di Buzzati. Come vedremo, i toponimi presi in esame alle volte si rivelano importanti chiavi interpretative dei racconti nei quali fanno comparsa, altre volte si caricano di valori connotativi supplementari, che su più ampia scala marcano e suggellano la rilevanza dei temi e dei motivi cari allo scrittore. Come è solita dire M. Giovanna Arcamone, che con passione mi ha seguito e aiutato in questa ricerca, «i nomi sono punte di iceberg, sono la punta visibile di un mondo sommerso». Partendo dalla «punta», proveremo dunque a scrutare quello che «sta sotto» i toponimi che Buzzati utilizza per localizzare le sue ambientazioni privilegiate. Il testo di riferimento è la raccolta Sessanta racconti (edita nel 1958), nella quale confluiscono, per volontà dello stesso autore, le novelle da lui ritenute più significative2 più 19 racconti inediti. Vincitrice del premio Strega, il volume è

ritenuto dalla critica la summa della poetica buzzatiana, poiché in esso si condensano le tematiche nodali della sua vasta produzione letteraria. Nella raccolta troviamo inoltre i teatri prediletti delle sue ambientazioni, nonché i «veri personaggi»3 delle storie di Buzzati come scrive A. Veronese Arslan,

ovvero la montagna, la città e il deserto. Come vedremo, questi tre luoghi per Buzzati sono molto più che scenografie di fondo. Sono luoghi «della sua

1 Stefano Lazzarin, Intorno a qualche nome di Buzzati, in «Italianistica», XXXIII, 1, gennaio-aprile, 2003. Sempre sull’onomastica buzzatiana cfr. : Y.Panafieu, Le Désert des Tartares, un temps et un espace de crise, «Cahiers Dino Buzzati» VI, 1985, pp. 81-95.

2 Le novelle dal numero 1 al 9 compreso appartengono alla raccolta I sette messaggeri; quelle dal numero 10 al 18 alla raccolta Paura alla Scala; quelle dal 19 al 36 alla raccolta Crollo della Baliverna; quelle dal 37 a 60 alla raccolta Sessanta racconti.

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2 fantasia»4, che traggono sì ispirazione dall’esperienza biografica dello scrittore

(le montagne bellunesi, la città di Milano, i deserti dell’Africa) ma che sulla pagina divengono altro: luoghi «metafisici» custodi del tempo e del mistero dell’esistenza. L’analisi toponomastica, così come quella critica, si concentrerà proprio su questi tre luoghi, con l’obiettivo di mettere in luce la loro rilevanza semantica e i risvolti allegorici. Vedremo come essi siano, prima di tutto, proiezione di scenari interni, psicologici, luoghi che sulla pagina incarnano e catalizzano le fantasie e le angosce dello scrittore.

Ai fini della chiarezza non seguiremo l’ordine della raccolta, ma raggrupperemo i racconti in tre capitoli: Montagna, Città, Deserto. In ognuno di questi confluiranno i racconti caratterizzati dalla relativa ambientazione. La tripartizione non è però rigidissima: frequenti saranno i casi in cui ricorreremo ad altre novelle della raccolta, ma anche a romanzi e articoli di giornale scritti da Buzzati, laddove il loro contributo risulta prezioso ai fini interpretativi e onomastici.

Per quanto riguarda la montagna analizzeremo le novelle: I sette messaggeri, L’uccisione del drago, La frana, Il Grande Convoglio, Il borghese stregato, La canzone di guerra, Notte d’inverno a Filadelfia, Il cane che ha visto Dio, Il tiranno malato; per la città: La peste motoria, La pallottola di carta, Era proibito, Paura alla Scala, Il problema dei posteggi; per il deserto: Ombra del sud, Dove fui giovane stregone (articolo), Le mura di Anagoor, Il re a Horm el-Hagar, L’inaugurazione della strada.

Come già, accennato, l’analisi critica dei racconti selezionati sarà accompagna da un’analisi prettamente toponomastica, anche se non si escludono “salti” nell’antroponimia, nei casi in cui i nomi di persona si mostrano particolarmente eloquenti o ispirati da toponimi “reali”. Per quanto riguarda i nomi esaminati rimando all’Appendice. Qui, è riportata l’intera cernita onomastica della raccolta, preceduta, ai fini della chiarezza, da una sintesi di tutte le novelle.

4 Ibidem.

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3 Gli studi onomastici dedicati a Buzzati non sono molti e, per quanto riguarda gli antroponimi, si riducono a isolati accenni: si veda, su tutti, l’interessante saggio di Stefano Lazzarin Intorno a qualche nome di Buzzati. Per quanto riguarda la toponomastica, si riscontrano studi pressoché circoscritti al campo “alpinistico”5 o alle montagne bellunesi; a proposito di quest’ultimo ricordo

l’ottimo lavoro di Patrizia Dalla Rosa: Geografia e onomastica de «I miracoli di val Morel»6. La mancanza di un corpus esaustivo è certamente un limite al fine di confermare tendenze o spunti emersi dall’indagine dei singoli nomi. Questa ricerca toponomastica non si pone l’obiettivo di astrarre linee guida “assolute” ma, in maniera più circoscritta, si mostrerà un valido sostegno all’analisi critica dei racconti scelti. Come vedremo, alle volte l’indagine si limiterà a ipotesi, suggestioni, chiavi interpretative destinate a rimanere sospese, altre volte invece porterà alla luce significati latenti che incorrono a delineare una precisa idea, da parte dell’autore, di intendere e rappresentare lo spazio e, dunque, la realtà stessa.

5 Per i nomi legati alla passione di Buzzati all’alpinismo cfr. S. Metzèltin, Le Alpi di Buzzati, in «Studi buzzatiani», IV, 1999. Si vedano anche: I. Crotti, Le montagne geografiche metafisiche di Dino Buzzati, in AA. VV., Montagna e Letteratura, Torino, Museo Internazionale della Montagna, 1983; S. Jacomuzzi; Questa quiete assoluta: la montagna di Buzzati e letteratura, in AA. VV, Museo Internazionale della Montagna, 1983.

6 Patrizia Dalla Rosa, Geografia e onomastica de «I miracoli di val Morel» in Dove qualcosa sfugge, Quaderni del Centro Studi Buzzati, III, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 2004; p. 30.

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2.

I luoghi “reali” di Dino Buzzati

Vita e opere

Dino Buzzati nasce il 16 ottobre 1906 a San Pellegrino, presso Belluno, nella villa dominicale di proprietà della famiglia. Il padre, Giulio Cesare Buzzati, è professore di Diritto all’Università di Pavia e alla Bocconi di Milano mentre la madre, Alba Mantovani, è discendente di nobile famiglia7. Terzo di quattro figli

(i fratelli sono Augusto, Angelina, Adriano) Buzzati trascorre la sua fanciullezza tra la casa di San Pellegrino e quella di Milano, in piazza San Marco.

Più che il contesto cittadino, è il paesaggio della Val Belluna ad affascinare il piccolo Buzzati: il Piave che solca la valle e soprattutto la corona di pietra che cinge l’intera vallata. A nord il gruppo Dolomitico della Schiara, a sud le Prealpi Bellunesi e il Massiccio del Grappa. Sono queste montagne, in particolar modo le Dolomiti, a imprimersi indelebilmente nell’animo del futuro scrittore.

Penso che per ogni scrittore i primi ricordi d’infanzia siano una fase fondamentale. Le impressioni più forti che ho avuto da bambino appartengono alla terra dove sono nato, la Valle di Belluno, le selvatiche montagne che la circondano e le vicinissime Dolomiti.8

Il trasferimento nel 1919 a Milano, in piazza Castello, non spezza il sodalizio tra Buzzati e la montagna, anzi, per certi versi sembra consolidarlo. «Ora mi sembra di non poter essere felice che sulle montagne e di non desiderare che

7 Per chi fosse interessato alla discendenza della famiglia Buzzati rimando ai seguenti titoli: G. De vecchi, Per una storia della famiglia Buzzati, in «Studi buzzatiani», I, 1996, pp.86-96; G. De Vecchi, Per una storia della famiglia Buzzati: da Belluno a san pellegrino, in «Studi buzzatiani»; II, 1997, pp.137-144; Giovanni Larese, La famiglia Buzzati in una cronaca bellunese dell’Ottocento, in «Studi buzzatiani», V, 2000, pp.113-124.

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5 quelle» 9scrive all’amico Brambilla nel ‘23, da San Pellegrino, dove la famiglia

torna ogni estate per trascorrere le vacanze. Il fascino esercitato da questi luoghi non solo condizioneranno la sua futura attività artistica, ma lo spingono già in giovane età a praticare alpinismo, passione che mai abbandonerà. Le lettere che vanno dal ‘21 al ‘26 sono infatti piene di disegni e resoconti delle sue ascensioni, dalla Croda da lago alla Schiera, quest’ultima scalata a soli quindici anni e considerata da lui stesso la meta più significativa. Come scrive Maurizio Trevisan:

per Buzzati le montagne sono parte essenziale di un percorso creativo che, a partire dalla contemplazione e dal sogno, attraverso la pratica dell’alpinismo, si riflette nella sua esperienza di scrittore e artista10.

Questi anni sono fondamentali a formare in lui l’immagine di una montagna aspra, dirupata, franosa, che in seguito contraddistinguerà l’archetipo ambientale delle sue opere narrative (si vedano i racconti analizzati Il borghese Stregato, La frana, Notte d’inverno a Filadelfia). Come appropriatamente coglie Trevisan, è su una «larga cengia ghiaiosa che si compie l’avventura umana del tenente Angustina»11, nel celebre Deserto dei Tartari, oppure è nella scalata di

Benvenuto, il piccolo protagonista del Segreto del Bosco Vecchio, che Buzzati può tradurre in prosa la sua diretta esperienza di scalatore: «la ricchezza dei particolari, l’uso non certo casuale degli aggettivi, la scelta consapevole dei sostantivi rende evidente la dimestichezza che Buzzati aveva con la Croda»12.

Altresì, evidenti sono le analogie tra l’ambiente Dolomitico, con i suoi vertiginosi appicchi, i suoi “coni” di ghiaia, e quello in cui si muove Bàrnabo, il protagonista del suo primo romanzo:

9 C. Grande, L’uomo Verticale, La montagna fu per Dino Buzzati, alpinista della scrittura, un richiamo misterioso e irresistibile in «Il Foglio», 26 dicembre 2010.

10 Maurizio Trevisan, L’idea e l’immagine della montagna in Dino Buzzati e Massimo Mila, in «Studi buzzatiani», XII, 2011, p. 21.

11 Ivi, p.17. 12 Ibidem.

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Eccoli su uno spiazzo di ghiaia sotto la vera parete. La cima è scomparsa; appaiono solo i primi salti a picco e sopra il cielo. […]Adesso Bàrnabo vede le montagne. Non assomigliano veramente a torri, né a castelli né a chiese in rovina, ma solo a se stesse, così come sono con le frane bianche, le fessure, le cenge ghiaiose, gli spigoli senza fine piegati fuori nel vuoto13.

Tuttavia, le montagne da lui ammirate e scalate, sulla pagina acquistano tratti che sconfinano nella fantasia, nell’immaginario favolistico. Come vedremo meglio nei capitoli successivi, esse abbandonano l’ancoraggio realistico elevandosi a paesaggi metafisici, nei quali dimora la fantasia e il sogno:

Scalare una montagna mi ha sempre dato un’emozione spaventosa […]. L’unico punto fermo della mia vita era la passione per la montagna: una passione, del resto, che non mi ha mai abbandonato, anche se adesso da due anni, non tocco rocce… Invece, tutte le notti, sogno di scalare pareti vertiginose, di superare grandi abissi: è una specie di romanzo a puntate che si interrompe solo quando sono in montagna14.

Iscritto al Ginnasio “Parini” nel 1916, Buzzati conseguirà la maturità nel ’24, percepita da lui come una liberazione. Lo stesso anno all’amico Brambilla scrive: «Essendo passato sono felice. Me ne frego dei voti più o meno belli. A me basta essere venuto fuori da quell’abominevole scuola»15. Il solo professore

verso il quale sembra conservare gratitudine è Luigi Castiglioni, latinista di fama, docente severo e molto ammirato. Tuttavia il liceo Classico gli permette di istaurare solide amicizie, su tutte quella col già menzionato Arturo Brambilla; a lui Buzzati dedicherà molte lettere, confidandogli le sue inquietudini e le impressioni delle sue prime letture, tra le quali Poe e Hoffmann. Da queste lettere trapela la passione per l’egittologia (si veda il racconto Il re a Horm el-Hagar) che vede entrambi comunicare in un alfabeto geroglifico di loro invenzione. In questo divertito scambio epistolare (risalente agli anni ‘20), nel quale Arturo si firma Ar-Tueris e Dino Dinophis, i due ragazzi si sfidano a scrivere un poema su

13 Dino Buzzati, Bàrnabo delle montagne, Mondadori, Milano, 2014, p. 34.

14 Antonia Veronese Arslan, Invito alla lettura di Buzzati, Mursia, Milano, 1974, p. 29.

15 Lettera del 10 agosto 1924, in Dino Buzzati, Lettere a Brambilla, L. Simonelli (a cura di), Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1985, p. 154.

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7 una divinità egizia. Arturo sceglie Horus, il dio solare dalla testa di falco, mentre Dino preferisce Anubis, il dio-sciacallo che guida nell’oltretomba le anime dei morti.

Eravamo in quarta ginnasio. Avevamo tredici anni. È stato una follia. Tutto quello che era Osiride, Iside, Anubis, Orus, eccetera […] bastava vederlo e avevamo un senso di emozione quasi fisica. Lui faceva un poema su Orus, io facevo un poema su Anubis e così via…16.

Le composizioni di Arturo non sono mai pervenute; l’ Anubeide di Buzzati verrà invece conservato per anni dallo stesso nel cassetto (anche se a noi sono giunti soltanto i versi iniziali) probabilmente per ragioni affettive più che artistiche. Nonostante la dilettevole ingenuità che muove questo poema, vi sono già presenti alcune tematiche che caratterizzeranno la poetica del futuro scrittore. A tal proposito Simonelli17 sottolinea come l’attrazione di Dino verso

la divinità funeraria non sia solo il frutto di una sporadica passione (il tema della morte sarà infatti ricorrente nella vasta produzione buzzatiana); altresì Renata Asquer scrive:

sia pure in maniera ingenua, viene sviluppato il dualismo male-bene, vita e morte, tema “egiziano”, ricorrente nella futura narrativa buzzatiana, non come conflitto, ma semplicemente come aspetti diversi di una stessa realtà. Ancora e sempre il drammatico alternarsi di salita e caduta, cifra letteraria e psicologia di Buzzati18.

Due anni dopo queste lettere, siamo nel ’20, muore il padre per un tumore al pancreas. Di lui Dino conserverà un ricordo piuttosto confuso, improntato su aspetti più formali che emotivi. Molti anni dopo, commentando il suo album di famiglia a G. Grieco («Gente») dirà:

Conservo un ricordo assai vago della sua persona. Forse anche perché portava la barba dava l’impressione, a me ragazzo, di essere molto vecchio.

16 Dino Buzzati, Un autoritratto, Mondadori, Milano, 1973, p.27.

17 Cfr. Lettere a Brambilla, a cura di L. Simonelli, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1985.

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Quello che posso dire con certezza è che era un uomo estremamente chic: aveva una distinzione naturale, amava l’eleganza […]. Se ho preso qualche cosa da lui, è stato senza dubbio il mio gusto nel vestire19.

Terminati gli studi liceali, dopo aver sfiorato l'idea di intraprendere studi umanistici, Buzzati si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, portando così avanti la tradizione paterna. Pur senza particolare predilezione per il Diritto, porta doverosamente a termine gli studi, laureandosi nel 1928 con una tesi su “La Natura giuridica del Concordato”. In una lettera del ’30 valuterà così il risultato: «Da piccolo a scuola e anche all’università ho conosciuto dei falsi trionfetti che mi hanno montato: mi sono creduto superiore alla media. Il fiasco alla laurea è stato il primo segno del ristagno»20. Negli anni universitari si

inserisce il servizio di leva: frequenta il corso per allievi ufficiali presso la Caserma Teuliè, a Milano, dal quale è congedato l’anno dopo, nel ’27. Anche di questo periodo non conserverà un ricordo piacevole; in una lettera del 26 scrive: «Ora sono qui in questa specie di prigione in cui bisogna lavorare senza requie dalla mattina alla sera. Orribilmente ricoperti come forzati, sempre sotto la minaccia di punizioni»21. Come dichiara nella stessa lettera, alle pulsioni

giovanili e all’amore per la musica (altra grande passione di Buzzati22) si

accompagna, neanche a dirlo, il ricordo delle care montagne. Tuttavia, queste «bellezze» nel suo animo sembrano soffocare sotto la pressione della vita militare e, più intimamente, della vita adulta che sopraggiunge. «Così che le pupe, le montagne, la musica, la libertà appaiono cose così straordinariamente belle che sembra non si potranno mai avere»23.

Buzzati presenta domanda di assunzione al «Corriere della Sera», al quale seguirà l’assunzione in qualità di cronista nel 1928. Al Corriere Buzzati, salvo

19 «Gente», 9 luglio 1969.

20 D. Buzzati, Lettere a Brambilla… cit., p.182. 21 Ibidem.

22 «Ho studiato da principio il violino. Io mi ricordo, proprio in questa stanza qui, studiavo il violino - avrò avuto nove anni, allora - con un accanimento folle. Tre ο quattro ore al giorno. [...] Ho amato moltissimo la musica classica, ho avuto una passione tremenda per Bach, di cui avevo comperato i dischi», in Y. Panafieu, Dino Buzzati: un autoritratto… cit., pp. 34-5.

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9 una breve parentesi nel dopoguerra, resterà fino alla morte, svolgendo il suo lavoro con diligenza e passione: doti riconosciute senza riserbo da critici e colleghi. Di lui Indro Montanelli («Corriere della Sera», 29 gennaio 1972) scriverà: «Persino in un lavoro come quello nostro di giornalisti, casuale e estemporaneo, egli portava l’ordine, lo zelo, la puntualità dell’ufficiale di picchetto»24.

Mentre Buzzati muove i primi passi nel giornalismo, spostandosi continuamente tra la redazione e i commissariati alla ricerca di notizie di cronaca nera, comincia a stendere le prime bozze di Bàrnabo delle montagne. A tal fine, il tirocinio giornalistico non è certo da considerarsi un impedimento all’attività di romanziere, tutt’altro: attraverso il lavoro al «Corriere» Buzzati ha modo di rapportarsi, in maniera costante e coscienziosa, con la parola. La pratica giornalistica gli permette di inoltrarsi negli affascinanti ingranaggi del linguaggio, di manipolarli, smussarli, combinarli. L’attività di cronista sarà dunque un’ottima palestra di scrittura, che come vedremo condizionerà sensibilmente anche lo stile narrativo: «Buzzati si distingue proprio per una maggiore aderenza alla realtà: per un uso della fantasia non banale. E la non banalità è data proprio dal paradigma giornalistico che molte delle sue storie fantastiche assumono come sfondo»25.

Non solo il giornalismo entra nell’ universo letterario di Buzzati, ma anche la città di Milano, nella quale dimorerà per il resto della vita. Il capoluogo lombardo sarà scelto come teatro di molti suoi racconti; si veda ad esempio la novella Paura alla Scala e il romanzo Un amore. Anche Milano verrà plasmata dall’immaginazione di Buzzati; nelle sue novelle essa assume spesso connotazioni negative: metropoli disumanizzante, che incarna i falsi miti del progresso e del denaro.

24 «Corriere della Serra», 29 gennaio 1972.

25 A. Oppo, Qualcosa era successo... Per una lettura filosofica del giornalismo di Buzzati, in «XÁOS Giornale di confine», IV, Marzo-Giugno 2005/2006.

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10 Nel ‘33 viene pubblicato Bàrnabo delle montagne, racconto lungo incentrato sulla figura di Bàrnabo: guardaboschi chiamato a fare la guardia alla Polveriera, ovvero un deposito di polvere da sparo, preso di mira dai briganti che si aggirano per le montagne. L’idea dell’ambientazione nasce proprio dalle frequenti escursioni e scalate compiute da Buzzati negli anni precedenti; sul diario (1930) scrive:

Penso alla storia di Bàrnabo delle montagne, che attende di essere scritta. Ecco prima la strada che va su verso la valle, la sera e la stanchezza di Bàrnabo giovane; meglio passare al di là - la notte il fuoco lontano, il suono delle sette armoniche. […] La guardia alla polveriera, il pomeriggio grigio e gli spiriti, i vecchi ultimi spiriti della montagna26.

Nel 1933, per incarico del giornale, Buzzati parte per la Palestina, e fa tappa in Grecia, in Siria , in Libano. Lo stesso anno si reca in Libia, i cui deserti lo affascinano sensibilmente, tanto che il deserto diverrà un’ambientazione privilegiata delle sue future produzioni narrative.

Buzzati è colpito da mastoidite, siamo nel 1935, che rende necessaria un’operazione. Quest’evento ispira la celebre novella Sette piani, comparsa su «Lettura» il 1 marzo 1937. Sulla rivista, pubblicherà alcuni dei suoi racconti migliori: Una cosa che comincia per Elle (’39), I sette messaggeri (’39) Eppure battono alla porta (’40), tutti e tre confluiti nella raccolta Sessanta racconti. Nel ’35 esce Il segreto del Bosco Vecchio: romanzo anch’esso ambientato in montagna. In questo, si raccontano le vicissitudini di Sebastiano Procolo, vecchio colonnello che contende l’eredità (un leggendario e fatato bosco) al nipote Benevento, bambino rimasto orfano che incarna l’incanto e l’innocenza dell’età infantile.

Nel ’39 parte per Addis Abeba, come inviato speciale per il «Corriere». In Etiopia rimarrà per quasi un anno; Gibuti in letargo (7 Maggio 1939) è l’articolo che inaugura la “serie africana”. Prima di partire per l’Africa, consegna il manoscritto La fortezza, il cui titolo verrà poi mutato dall’editore in Il deserto dei Tartari. La storia del tenente Drogo, asserragliato in una fortezza immersa nel

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11 deserto, nella vana attesa dell’invasione dei Tartari, sarà data alle stampe nel ’40. Seguirà un successo di critica che consacrerà Buzzati tra i grandi esponenti della letteratura italiana. «Il deserto dei Tartari è destinato a durare, suppongo, più dell’ENI, è uno dei pochi capolavori italiani, facciamo: una delle poche cose italiane riuscite, di questo secolo»27.

Nel 1940, dopo aver superato un attacco di tifo, abbandona Addis Abeba per un breve congedo. A giugno si prepara per tornare in Etiopia, ma le navigazioni per l’Africa vengono sospese a causa dell’imminente scoppio della guerra. Durante il periodo del conflitto, Buzzati svolgerà il suo lavoro di giornalista a bordo di incrociatori marini; parteciperà così a numerose battaglie, tra le quali Capo Teulada (1940), Capo Matapan (1941) e la prima e seconda battaglia di Sirte (1941 -1942). A tal proposito, rimando alla raccolta, curata da Domenico Porzio, Cronache Terrestri, nella quale sono riuniti i più significativi articoli scritti da Buzzati in qualità di corrispondente di guerra.

Nell’agosto del ’43 termina il suo servizio di marina, lascia l’incarico di inviato e ritorna a Milano, dove riprende a lavorare per la redazione del «Corriere». Nel ’45 esce a puntate, sul «Corriere dei Piccoli» La famosa invasione degli orsi, con tavole disegnate dallo stesso Buzzati. La fiaba, in cui si racconta della guerra tra il Granduca di Sicilia e Re Leonzio, sovrano degli orsi, apparirà in forma completa, corretta e rielaborata, nel dicembre dello stesso anno, col titolo La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Il 25 aprile Dino Buzzati è richiamato al giornale, la cui direzione è stata assunta da Mario Borsa. Diversi colleghi lo ritengono un collaborazionista e preferirebbero lasciarlo fuori dal «Nuovo Corriere», ma le rassicurazioni di Gaetano Afeltra, che a Buzzati riconosce grande onestà intellettuale, riaprono a Buzzati le porte del giornale. Sarà infatti Buzzati a scrivere l’articolo sulla Liberazione di Milano: «Cronaca di ore memorabili» che apparirà in prima pagina (non firmato) il 26 aprile.

Alle vicissitudini politiche del giornale (1945) Buzzati assiste in modo defilato. Con la sospensione delle pubblicazioni Buzzati lascia il «Corriere» e

27 «Europeo», 10 febbraio, 1972.

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12 insieme a Gaetano Afeltra fonda un nuovo quotidiano «Il Corriere Lombardo»: un giornale di orientamento liberale moderato, incentrato sulla cronaca. Vi lavora per circa un anno e mezzo fino a quando, il 1° novembre 1946, ritorna al «Nuovo Corriere della Sera» diretto da Mario Borsa. Da questo momento in poi Buzzati racconterà, nelle vesti di inviato, i grandi avvenimenti del dopoguerra: l’omicidio di Rina Fort (1946), la tragedia di Albenga (1947) e di Superga (1949), il disastro del Vajont (1963), l’alluvione nel Biellese (1968).

Nel ‘48 Dino Buzzati scrive il racconto, Paura alla Scala, che esce in tre puntate su «L’Europeo». L’anno dopo è al seguito del Giro d’Italia, di cui racconta il celebre duello tra Coppi e Bartali. Questi articoli verranno poi raccolti in Dino Buzzati al Giro d’Italia, a cura di C. Marabini. Sempre nel 1949 esce la seconda raccolta di novelle Paura alla Scala (la prima è I sette messaggeri 1942). Nel 1950 diviene vicedirettore della «Domenica del Corriere» e lo stesso anno pubblica In quel preciso momento: raccolta di prose, abbozzi, appunti e pagine di diario. Nel maggio 1953 va in scena al Piccolo Teatro di Milano “Un caso clinico”, pièce tratta dal racconto Sette piani. Nonostante le poche repliche, la rappresentazione ha un buon successo di critica e pubblico, tanto che nel 1955 viene rappresentata anche a Parigi, al Théatre La Bruyère, col il titolo Un cas interessant. Autore dell’adattamento è il futuro Premio Nobel Albert Camus, con il quale Buzzati instaura un sincero rapporto di amicizia.

Un anno prima della rappresentazione parigina, (1954) esce la raccolta Il crollo della Baliverna che gli procura il Premio Napoli. Seguirà, nel 1958, con la raccolta Sessanta racconti, il Premio Strega, superando ai voti Il soldato di Carlo Cassola. Nel dicembre dello stesso anno, tiene la sua prima mostra di pittura (Le storie dipinte) alla galleria dei Re Magi di Milano. La mostra riscuote un buon successo, sebbene susciti nei fidati lettori un certo stupore. Va detto che la passione per le arti figurative accompagna da sempre Buzzati (si vedano le tavole della favola La famosa invasione degli orsi in Sicilia); da piccolo amava sfidare nel disegno l’amico Brambilla e, negli anni a seguire, era solito arricchire

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13 i suoi appunti o i suoi resoconti giornalistici con minuziosi disegni. Come lui stesso afferma:

il fatto è questo, io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa, le mie pitture quindi non le può prendere sul serio. La pittura per me non è un hobby, ma un mestiere; hobby per me è scrivere. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie28.

Nel 1960 esce a puntate sulla rivista «Oggi» il romanzo Il grande ritratto: storia fantascientifica ambientata nel 1972 ispiratagli probabilmente da una serie di incontri col professore Silvio Ceccato. Pubblicato in seguito in volume, il romanzo narra la storia di uno scienziato “pazzo” che, in seguito alla morte dell’amata moglie, tenta di restituirle la vita attraverso la creazione di un enorme cervello pensante. Attraverso quest’opera, Buzzati affronta per la prima volta il tema femminile, che si riverbererà in Un amore (1963). Quest’ultimo, ambientato in una grigia e peccaminosa Milano, racconta il tormentoso amore del quasi cinquantenne Dorigo nei confronti di una giovane prostituta di nome Laide. La storia è in parte biografica: ispirata a una difficile relazione con una giovane donna, che gli procura sofferenza e umiliazioni. Sul diario scrive

:

L’unica, per salvarmi, è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo alla porta della vecchiaia. E nello stesso tempo lei, incarnazione del mondo proibito, falso, romanzesco e favoloso, ai confini del quale ero sempre passato con disdegno e oscuro desiderio29.

Il romanzo riscuote successo, ma solleva accese polemiche, sia per il tema trattato sia per il linguaggio diretto. Buzzati viene accusato dalla critica di aver tradito, in vista di un crudo realismo, la sua indole misteriosa e fantastica: «Fra i libri di Buzzati, quest’ultimo a me sembra che stia troppo in disparte dagli altri

28 D. Buzzati, Un Equivoco, Alfieri, Milano, 1967, p. 7.

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14 e addirittura contro gli altri, quasi negandoli o almeno tentando di ributtarli dietro, su una riva di errori giovanili. […]»30. Buzzati, presagendo questo genere

di critiche, sul «Corriere» scrive:

All’improvviso mi si prospettarono alla mente le domande, o le accuse, o le deplorazione che probabilmente sarebbero state fatte. Per esempio: Come mai ti è venuto in mente di scrivere una storia del genere? Perché hai abbandonato il tuo solito mondo della fantasia? […]. Può sembrare ridicolo che un autore voglia difendere sé stesso prima ancora di essere pubblicamente accusato. Ma è istintivo mettere le mani avanti. E mi illudo che chi leggerà il libro si renderà conto fin dalle prime pagine che a dettarlo non è stata la moda ma qualcosa di molto più serio31.

Prima dell’uscita del romanzo, Buzzati perde la madre nel 1961. In un articolo apparso su «Gente» (9 luglio 1969) lo scrittore confessa il forte legame con la madre alla stregua di una devozione quasi religiosa:

È morta vecchissima e ha lasciato dietro sé un vuoto incolmabile. Non perché fosse mia madre, ma credo proprio che sia stata una delle pochissime creature venute al mondo senza il peccato originale. Era una donna straordinaria, di forte tempra umana eppure spaventosamente ignara della malizia della gente. […] Finché è stata viva, io sono vissuto con lei e non ho desiderato farmi una famiglia32.

Il lutto ispira l’articolo I due autisti (La boutique del mistero), uno degli scritti più personali e sofferti dello scrittore. In questo emerge infatti il forte senso di colpa di non esser stato vicino alla madre. Il forte attaccamento, la paura di staccarsi da lei emergono anche in una novella (precedente alla morte di Alba Mantovani) dei Sessanta racconti, Direttissimo. Qui Buzzati, attraverso la metafora del treno, ripercorre le “stazioni” della vita. In una di queste, lo scrittore prefigura l’ultimo saluto, si legga:

30 Mario Stefanile, Buzzati e l’amore, «il Mattino» 9 maggio 1963; in Buzzati, Un amore. Epopea del romanzo scandalosi un «sogno sbagliato», A. De Petrillo, G. Eusebi, M. Macrì (a cura di), Oblique Studio, 2013, p. 14.

31 Dino Buzzati, Una domanda a Dino Buzzati, «Corriere della Sera», 11 aprile 1963; in Buzzati, Un amore. Epopea… cit., p. 11.

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Non so come, con tutto il mio egoismo mi ritrovai nello scompartimento e mi sporgevo dal finestrino aperto, gesticolando per gli ultimi saluti. Fuggendo il treno, lei ben presto divenne ancora più piccola di quello che effettivamente era, una figurina afflitta e immobile sul deserto marciapiedi, sotto la neve che cadeva. Poi divenne un punto nero senza volto, una minuscola formica nella vastità dell’universo; e subito svanì nel nulla. Addio33.

Poco dopo l’uscita di Un amore è un altro lutto a sconvolgere lo scrittore: nel maggio del ’63 muore il carissimo amico Brambilla. A Panafieu, Buzzati confessa:

io dopo la sua morte in un certo senso sono stato un sopravvissuto. In un certo senso sono subito diventato vecchio… Sono diventato l’omino che va al cimitero, una sera di novembre…34.

Tra la fine del 1963 e l’inizio del 1965, Buzzati compie numerosi viaggi all’estero come inviato del «Corriere»: in Giappone (1963), a Gerusalemme, al seguito di Paolo IV (gennaio 1964), a New York e Washington (1964), a Bombay (dicembre 1964), a Praga (marzo 1965) e infine di nuovo a New York (1965) per scrivere sulla Pop Art. Nel 1965, inoltre, esce il suo primo libro di versi, intitolato Il capitano Pic e altre poesie. Nel 1966 Buzzati inizia la collaborazione con il regista Federico Fellini per il film Il viaggio di G. Mastorna, ispirato dal racconto Lo strano viaggio di Domenico Molo uscito su «La Lettura» e poi ripubblicato nella raccolta I sette messaggeri col il titolo Il sortilegio. La novella narra le vicende di un musicista che, morto in un incidente aereo, si ritrova a vagare in un caotico oltretomba. Benché ultimato, il film non verrà mai realizzato. Nel 1966 Dino Buzzati sposa Almerina Antoniazzi, giovane modella conosciuta nell’estate 1960 durante la lavorazione di un servizio fotografico per «La Domenica del Corriere».

Nel ‘67 stesso anno assume l’incarico di critico d’arte per il «Corriere della Sera», dirigendo dal ’69 fino agli ultimi mesi di vita la pagina settimanale «Il

33 D. Buzzati, Sessanta Racconti, Mondadori, Milano, 2014, p. 366.

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16 mondo dell’arte». Lo stesso anno pubblica Poema a fumetti: una sorta di rivisitazione Pop Art del mito di Orfeo ed Euridice. L’attività di pittore si fa sempre più intensa e nel ’70 a Venezia Buzzati inaugura la mostra personale I miracoli di una santa (le tavole confluiranno nel libro I miracoli di Val Morel). Nel ’71 esce l’ultima raccolta di novelle e elzeviri, Le notti difficili. Il romanzo Il reggimento parte all’alba rimarrà incompiuto: lo stesso male che ha colpito suo padre spegne Buzzati nel gennaio del 1972.

Giorno per giorno lo abbiamo visto allontanarsi come l’eroe di uno dei suoi racconti fuori dal tempo e dallo spazio: sempre più solo, sempre più ombra, bisbiglio, sussurro35.

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3.

La Montagna

Dino Buzzati, La parete, 1958.

I sette messaggeri

In questo celebre racconto che apre la raccolta, si narra il viaggio intrapreso dal protagonista (figlio di un re) verso i remoti confini del regno paterno. Qui ritroviamo condensati i topoi tanto cari allo scrittore: la solitudine, l’attesa, lo scorrere implacabile del tempo, la frontiera intesa come confine ultimo delle peregrinazioni dell’animo umano, oltre il quale si stende il regno dell’ignoto, del mistero, dell’inesplicabile.

Monti Fasani è l’unico toponimo presente nella novella, la narrazione infatti

si svolge in uno spazio vago e indeterminato, quasi onirico, dalle forti risonanze fiabesche. Ciò, oltre a proiettare il lettore in una dimensione fantastica, col suo carico di fascino e mistero, rende fin da subito palpabile l’impostazione allegorica di fondo. La quasi totale assenza di toponimi contribuisce a proiettare il lettore in uno spazio che non è geografico, fisico, ma è uno spazio traslato, interiore, in altre parole uno spazio dell’animo umano. Il viaggio intrapreso dal

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18 principe può essere letto come metafora di un viaggio esistenziale: aspirazione di superare i propri limiti, desiderio di inoltrarsi nelle regioni oscure dell’essere.

Come spesso accade ai protagonisti buzzatiani, però, questo desiderio è destinato a rimanere insoddisfatto, a ripiegare su se stesso in un crescendo inesorabile di vertigine e angoscia. Con l’aumentare della distanza tra il principe e la capitale, con lo sbiadire dei contatti con questa, rappresentati dalle sempre più rade visite dei messaggeri, il principe finisce per smarrire l’orientamento: «penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita»36, e

in lui si prospetta il tormentoso dubbio che «questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno»37.

Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudono il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neanche, e continuerò ad andare avanti, ignaro38.

All’interno di una dimensione spaziale così volutamente indeterminata, monti

Fasani rappresenta un’eccezione che, di conseguenza, mette in risalto il valore

del referente. Non è peregrino pensare, infatti, che attraverso l’attribuzione di un nome proprio Buzzati abbia voluto distinguere la figura delle montagne dagli altri alimenti antropici, che ricorrono invece coi nomi generici di capitale, città, praterie, boschi, deserti. La montagna in Buzzati assume valenze simboliche tutte peculiari, che in questa novella si reiterano con forte intensità. I monti

Fasani rappresentano la barriera che separa il principe dalle regioni inesplorate,

il confine tra il conosciuto e l’ignoto, la soglia di non ritorno: oltre la quale i contatti con la capitale si compromettono irrimediabilmente e per la prima volta il principe ammette di sentirsi straniero.

Trascorsi che furono sei mesi - già avevamo varcato i monti Fasani - l'intervallo fra un arrivo e l'altro dei messaggeri aumentò a ben quattro

36 Dino Buzzati, Sessanta racconti, Oscar Mondadori, Milano, 2014, p. 7; Cfr.: il verso di Montale: «la bussola va impazzita all’avventura», in La casa dei doganieri, Le Occasioni.

37 Ibidem. 38 Ivi, p. 11.

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mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all'addiaccio da chi me le portava. […]Le nuvole, il cielo, l'aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero39.

Aderente alla dimensione fantastica che domina il racconto, Buzzati utilizza un nome che non trova alcun corrispettivo nell’orografia esistente. Il nome

Fasani40esiste invece in qualità di cognome, con diffusione prevalentemente

lombarda: probabilmente da fasano o fasan (a seconda dalle varie parlate locali) e corrispondente all'italiano “fagiano”. Perlustrando l’aria veneta, invece, incorriamo nella piccola frazione Capella Fasani nel comune di Erbezzo, in provincia di Verona. Il comune, confinante col Trentino Alto-Adige e situato nell’alta Valpantena, è per altitudine il più rilevante della provincia (1.118 m s. l. m); che in questa area Buzzati abbia immaginato le montagne del suo racconto? i confini oltre i quali si stendono lande infinite? L’ipotesi non sembra peregrina: come avremo modo di sottolineare, infatti, Buzzati ricorre spesso a toponimi veneti, in genere poco conosciuti, sia per designare luoghi (si veda ad esempio

Limena nel Cane che ha visto Dio) ma anche nomi di persona (la signora Gron,

nel racconto Eppure battono alla porta, porta il nome di una piccola frazione nel comune di Feltre).

Tornando all’analisi del racconto, soffermiamoci su alcuni motivi ricorrenti. Nei Sette Messaggeri troviamo l’opposizione tra la città-capitale, chiusa, opprimente (nord) e gli spazi aperti, dilatati, incontaminati (sud)41. A questa

opposizione polare si inserisce quella verticale (alto-basso) offerta dai monti

39 Dino Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 9.

40 Fasano invece è tipico cognome meridionale, diffuso in Campania, Puglia e Calabria, derivato probabilmente dai toponimi come Fasana nel Salernitano o Fasano di Brindisi. L’origine toponomastica di Fasano è incerta: chi lo ritiene, come nel caso di Fasani, un derivato dal latino phasianus, “fagiano” (lo stemma della località ritrae un faso, antico nome che designava un colombo selvatico), chi dal nome latino di persona Fadius, con l'aggiunta del suffisso di appartenenza -anus.

41 Cfr. i racconti Ombra del sud e Il problema dei posteggi: in quest’ultimo oltre i confini della città congestionata dalle auto Buzzati immagina un vero e proprio deserto. Nel racconto Qualcosa era successo il treno è diretto a nord, laddove il passeggero ipotizza si sia verificato un terribile cataclisma.

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Fasani, il cui superamento produce nel protagonista lo sradicamento dalla

civiltà, dagli affetti, dalle tradizioni di cui la capitale si fa simbolo, determinando in lui una perdita di orientamento, uno smarrimento esistenziale. Inoltre, interessante è notare l’opposizione giovinezza-vecchiaia, quest’ultima è rappresentata attraverso la metafora della sera: crepuscolo della vita. Ormai vecchio e stanco, il principe non perde la speranza, nonostante all’orizzonte le montagne (questa volta senza nome) si facciano scure e misteriose, come la morte.

Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio42.

L’uccisione del drago

Spostandosi nel racconto Uccisione del drago, riscontriamo quattro toponimi:

Val Secca, Crocetta, Pallisano e Burel. A differenza del precedente racconto, la

dimensione temporale e spaziale qui è determinata già nell’incipit:

Nel maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Gesuoè Longo, che andava spesso a caccia per le montagne, raccontò di aver visto in valle Secca una grossa bestiaccia che sembrava un drago43.

Il riferimento cronologico «maggio 1902», così il toponimo Val Secca hanno la funzione di proiettare fin da subito la vicenda in un quadro verosimile, realistico, reso ancor più pregnante dallo stile cronachistico che caratterizza l’intero racconto. Molti studi hanno messo in luce lo stretto rapporto tra giornalismo e narrativa che contraddistingue la produzione buzzatiana; di

42 Dino Buzzati, Sessanta racconti… cit., pag. 11. 43 Ivi, p. 75.

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21 questo rapporto merita qui evidenziare alcuni aspetti, poiché ci torneranno utili anche in vista di una analisi prettamente onomastica.

Salta subito all’occhio come in molti suoi racconti predomini l’impronta giornalistica e come, viceversa, in molti suoi articoli predomini quella invece narrativa. Questo ribaltamento di piani per Buzzati è giustificato dal fine a cui tende, aldilà dei generi, il mestiere dello scrivere: la chiarezza, la libertà intellettuale, la semplicità intesa come il risultato di un assiduo e costante lavoro di limatura della parola. Come lui stesso afferma:

L’esperienza giornalistica mi è servita a scrivere. Ho imparato a togliere gli aggettivi, gli avverbi inutili, a evitare la prolissità. Ho imparato l’importanza di scrivere in assoluta libertà, senza schemi precostituiti. […] Tutti i grandi talenti, secondo me, hanno in comune una caratteristica, cioè l’estrema semplicità che, naturalmente, è cosa diversa da facilità44.

Lo stile che di Buzzati è difatti dimesso, asciutto, immediato, proprio come il linguaggio giornalistico richiede. A certi manierismi45 della sua epoca Buzzati

contrappone una lingua aderente al parlato, sintatticamente poco elaborata, di lessico comune. Una lingua semplice, ma dove semplice è da intendersi come il risultato di un rigoroso lavoro sulla parola. In certi suoi racconti, nei quali ha raggiunto stilisticamente i risultati migliori (si vedano i Sette messaggeri e i Sette piani), la tecnica utilizzata da Buzzati potrebbe essere accostata a quella di uno sculture: la penna come uno scalpello che sottrae materia linguistica al fine di ricavare una forma nuda, essenziale, e al contempo fortemente evocativa. Di lui colpisce infatti «l’abilità del “taglio” e la perfezione della “misura”: lo scrittore cioè è sapientissimo nello scegliere gli elementi indispensabili e nel definirli giustamente, come nel fermarsi quando anche una sola parola, o sfumatura,

44 Ioli G., Dino Buzzati, Mursia, Milano, 1988, p. 70.

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22 sarebbe superflua. L’effetto è ridotto, esternamente, al minimo, affinché agisca nel modo dovuto sull’animo di chi legge46.

Se narrativa e il giornalismo ambiscono alla medesima resa, è anche vero che Buzzati sa bene come la combinazione di questi due generi possa ampliare, sulla carta, le potenzialità espressive della parola: «certe esperienze cronachistiche […] penso siano nettamente vantaggiose agli effetti artistici»47.

Il racconto preso in esame chiarisce bene quali siano questi “effetti artistici”. Come in molti altri suoi racconti e romanzi, l’incipit dell’ Uccisione del Drago potrebbe a tutti gli effetti apparire come l’avvio di un articolo di cronaca (se si osserva risponde alle famose cinque “W” inglesi: Who? What? When? Where? Why?). Procedendo con la lettura, il piano realistico sconfina nel fantastico, e questo senza dare modo al lettore di avvertire contrasti. Ciò è reso possibile dal fatto che Buzzati tratta l’evento fantastico senza alcuna incredulità, senza palesare il suo carattere eccezionale, bensì col medesimo distacco con il quale un giornalista riporterebbe una notizia di cronaca. In altre parole il fantastico ci viene raccontato come se fosse reale, e di conseguenza ciò che inizialmente appariva reale finisce per sgretolarsi poco a poco liberando significati più profondi. «Io, raccontando una cosa di carattere fantastico, devo cercare al massimo di renderla plausibile ed evidente […]. Per questo, secondo me, la cosa fantastica deve essere resa più vicina che sia possibile, proprio alla cronaca48».

Per Buzzati il fantastico non è evasione, dimensione parallela, ma è connaturato nella realtà quotidiana, nella cronaca; il fantastico è prima di tutto sguardo poetico, mezzo conoscitivo, strumento per rompere la cortina del reale e liberare la meraviglia che si cela sotto la cortina di una realtà altrimenti assoggettata all’apparenza, alla menzogna.

46 Dall’ introduzione in D. Buzzati, La boutique del mistero, Oscar Mondadori, Milano, 1987, p. 7.

47 «Corriere d’informazione», 11 giugno 1966.

48 Yves Panafieu, Dino Buzzati: un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu, Edizione speciale del convegno di Feltre, Liancourt-St. Pierre, Y.P. Editions, 1995, p. 36.

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Le modalità stilistiche di Buzzati, certe in particolare, ma tutte in qualche misura, sono parte integrante di una ricerca di esplorazione di tutte le realtà possibili. La fantasia di Buzzati testimonia una domanda di significato aldilà delle apparenze, la ricerca di una verità che si trova altrove, poiché la realtà può nascondere aspetti che sono facilmente penetrabili o che sono menzogneri49.

Sulla scia di quanto detto, non stupisce allora che nell’Uccisione del drago la fantasia di Buzzati emerga all’interno di una cornice geografica ben definita. Ciò è resa dalle minuziose descrizioni che riserva al paesaggio montanaro, nelle quali è impossibile non riscontrare un rimando al franoso e derupato ambiente delle Dolomiti Bellunesi.

Ora a destra ora a sinistra una cornicione di terra si rompeva improvvisamente, e sottili rivoli di sassolini cominciavano a colare, estinguendosi con fatica. Ciò dava al paesaggio un aspetto di perenne rovina; montagne abbandonate da Dio, parevano, che si disfacessero a poco a poco50.

Oltre al prezioso contributo della Dalla Rosa (profonda conoscitrice della Val Belluna) che riconduce le descrizioni dell’ Uccisone del drago ai tratti tipici della Valle Cordevole51, è lo stesso Buzzati che ci offre modo di cogliere un esplicito

riferimento alle montagne della sua giovinezza. È sul monte Burel infatti si reca la spedizione guidata dal conte Gerol:

Dopo meno di un’ora arrivarono. La valle si apriva improvvisamente in un ampio circo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da muraglie di terra e rocce crollanti, di colore

49 Patrizia Dalla Rosa, Dove qualcosa sfugge, Quaderni del Centro Studi Buzzati, III, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 2004, p. 30.

50 D. Buzzati, Sessanta racconti…cit., p.80.

51 A proposito dello scenario dell’Uccisione del drago P. Dalla Rosa scrive: «Quello che a tutti non è noto, però, è che le descrizioni seguenti, scenario di una storia di impianto assolutamente fantastico, sono il naturale ritratto del realistico paesaggio proprio di certe tratti della valle del Cordevole, in particolare delle orride gole laterali»; P. Dalla Rosa, Dove qualcosa sfugge… cit., p. 129.

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24 rossiccio. Proprio nel mezzo, al culmine di un cono di sfasciumi, un nero pertugio: la grotta del drago52.

Il Burel è propriamente un montagna delle Dolomiti Bellunesi (2.288 m s.l.m), facente parte del gruppo della Schiara; in dialetto bellunese Burel significa “precipizio”, “burrone”; dal greco bothros, “fossa”, “voragine”. Nel capitolo 2 abbiamo accennato dell’amore di Buzzati per le Dolomiti, in particolar modo proprio per il gruppo della Schiara:

Ma è soprattutto la Schiara, con la sua aspra parete sud aver formato e condizionato l’idea e l’immagine che della montagna Buzzati aveva ed ha reso nelle suo opere. […] Vi era salito in una delle sue prime gite nel 1922 e due anni dopo, con l’amico Sperti, vi aveva compiuto una delle sue scalate più significative. Lui stesso la ha definita “la montagna della mia vita”53.

All’interno del gruppo montuoso, il Burel rappresenta una vetta di tutto rilievo: esso è infatti è costituito da una parete verticale di circa 1500 m di dislivello «nota agli alpinisti come una delle più spaventose e isolate di tutto l’arco alpino»54. L’asprezza del monte, certamente, avrà suggestionato Buzzati

non solo da un punto di vista poetico, ma anche da un punto di vista alpinistico, poiché soltanto i più grandi scalatori , tra cui Franco Miotto55 nel

1974, hanno avuto l’audacia si scalarlo. Un ambiente così remoto, così inaccessibile, certamente sarà sembrato a Buzzati l’ambiente ideale per nascondervi un drago. Tuttavia, non agli alpinisti ma a un’improvvisata comitiva di borghesi, muniti di carabine e polvere da sparo, Buzzati affida il compito di inerpicarsi per questo luogo e, in un crescendo di folle violenza, di uccidere la fantastica fiera: incarnazione della fantasia, della favola. Non è difficile riscontrare in questa vicenda una critica alla mentalità razionalista,

52 Ibidem

53 Maurizio Trevisan, L’idea e l’immagine della montagna in Dino Buzzati e Massimo Mila, in «Studi buzzatiani», XII, 2011, p. 12.

54 P. Dalla Rosa, Dove qualcosa sfugge… cit. p. 129.

55 Franco Miotto è uno scalatore italiano (Malles Venosta,1932) che dal 1973 al 1984 ha compiuto importanti ascensioni, tra le quali il Burel, la Schiara, il Pelmo, il Col Nudo.

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25 scientifica, che con tendenza insensibile e predatoria viola l’incontaminato mondo della natura uccidendo il fantastico che vi dimora.

L’atteggiamento della scienza è qui incarnato nelle figure dei due scienziati-naturalisti, tra tutti il professore dal cognome Inghirami, che evoca quello dello scienziato Giovanni Inghirami56: matematico, geografo, astronomo, vissuto tra

il XVI e il XVII secolo. Con Quinto Andronico57 Buzzati denota un altro

membro della compagnia, ovvero il «governatore della provincia»58. Il nome

“romaneggiante” ben si presta alla carica politica del suo portatore: si vedano ad esempio gli imperatori bizantini Andronico I, II, III, IV, V, ma anche l’imperatore di fantasia Tito Andronico dell’omonima tragedia di Shakespeare. Inoltre, si noti l’assonanza tra il nome del conte Gerol e la Val del Grisol: vallata situata proprio a ridosso del gruppo orientale della Schiara.

A questi personaggi, mossi da irriverente curiosità, Buzzati contrappone l'atteggiamento rispettoso dei montanari e del vecchio medico Taddei, il quale invita la compagnia a lasciar perdere l’impresa, in altre parole a salvaguardare la fantasia e l’incanto dalle incursioni della razionalità:

Può darsi che sia tutta una storia, ma potrebbe essere vero; se fossi in voi, non mi ci metterei. Poi, state a sentire: la strada è difficile a trovare, sono tutte montagne marce piene di frane, basta un soffio di vento per far nascere un finimondo e non c’è un filo d’acqua. Lasciate stare, governatore, andate piuttosto lassù, alla Crocetta (e indicava una tonda montagna erbosa sopra il paese), là ci sono lepri fin che volete59.

Questa citazione, ci permette di spostare l’attenzione su gli altri toponimi del racconto. Come visto, con Crocetta, Buzzati nomina una «tonda montagna erbosa sopra il paese». Il nome Crocetta esiste realmente in qualità di toponimo:

56 Tra opere più significative di G. Inghirami si contano: Tavole astronomiche universali portatili (1811); Collezione di opuscoli e notizie di Scienze (1820-30) Carta geometrica della Toscana (1830) Effemeridi dell’occultazione delle piccole stelle sotto la luna (1809-30).

57 Andronico deriva dal greco Andronìkos, composto da andros, “uomo”e niké, “vittoria” (uomo vittorioso); in latino Andronicus.

58 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 75. 59 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 76.

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26 modesta località di campagna in provincia di Treviso, il cui nome, etimologicamente, indicherebbe un incrocio fra strade attorno al quale si sarebbe sviluppata la località (Crocetta infatti nasce a metà strada tra le frazioni Ciano e Nogoré, quando quest’ultime, nel 1902, divennero comuni indipendenti). Non è da escludere che Buzzati, come nel caso di Capella Fasani, si sia ispirato a questa modesta località veneta per denotare la montagna di questo racconto.

Vediamo ora come la tendenza di Buzzati di mescolare realtà e fantasia coinvolga anche le scelte onomastiche. Attorno al monte reale Burel incorriamo nei toponimi di fantasia: Palissano e Val Secca; nomi inventatati che, in continuità col precedente, mantengono però una forte connotazione realistica.

Palissano infatti è costruito con il tipico suffisso di origine latina -ano, in genere

attribuito agli insediamenti prediali, mentre Val Secca presenta il tipico Val che caratterizza moltissime vallate Dolomitiche; Secca è nome trasparente che rimanda alla conformità geologica dell’ ambientazione narrata: è il medico Taddei che ci informa che lassù «non c’è un filo d’acqua»; a questa indicazione seguono le già note descrizioni della valle, arida, petrosa, inospitale:

Osservava le montagne che si facevano sempre più alte, dirupate e aride. Infondo alla valle si intravvedeva una successione caotica di cime, per lo più di forma conica, nude di boschi o prato, di colore giallastro, di una desolazione senza pari. […] Creste giallastre dove non era mai stata anima viva, vallette che si inoltravano ai lati nascondendo alla vista i loro meandri: un grandissimo abbandono60.

Altresì, ad essere “arida” non è soltanto la valle, ma anche l’anima di Gerol; si veda con quanta furia e brutalità egli uccida il drago e i suoi cuccioli. A proposito di quest’ultimi:

Due piccoli draghi, i figli, probabilmente usciti dalla caverna per fame. Fu questione di pochi istanti. Il conte dava bellissima prova di agilità. «Tieni! Tieni!» gridava gioiosamente roteando la clava di ferro. E due soli colpi bastarono. Vibrato con estrema energia e decisione, il mazzapicchio

60 Ivi, pp. 77-78.

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percosse successivamente i mostriciattoli, spezzò le teste come bocce di vetro61.

La frana

Se nell’Uccisione del Drago l’influenza giornalistica si manifesta da un punto di vista stilistico, nel racconto La Frana penetra in profondità, incarnandosi nella figura stessa del protagonista Giovanni. Egli è infatti un vero e proprio cronista che, svegliato all’alba dal direttore del giornale, si dirige a Valle Ortica per documentare una frana.

Era il direttore del giornale. “parta subito gli disse. “È venuta giù una grande frana in Valle d’Ortica… Sì in valle Ortica, vicino al paese Goro… Un villaggio è rimasto sotto, ci devono essere dei morti62.

L’inviato si precipita così sul posto, ma nel paesino di Goro «uno di quegli strani paesi di certe valli abbandonate, che sembrano essere rimasti indietro di cent’anni63» del disastroso evento non pare esservi traccia. Il giornalista tuttavia

non si da per vinto e, pensando che si tratti di un equivoco, riprende la caccia della notizia. Questa lo spingerà in luoghi sempre più elevati e remoti: da Goro al paesino «derelitto e miserabile» di Sant’Elmo, e infine su per ripide mulattieri che si aprono a precipizio nella vallata. Ma della frana nessuna traccia, a meno che, come rivela la voce narrante, la frana non assuma significati più profondi, metafora di smottamenti non fisici, ma esistenziali. Ma queste valenze a Giovanni non interessano minimamente, lui desidera soltanto la frana “reale” per scrivere il pezzo prima di qualunque altro, ed ambire così alla fama professionale.

Ciascuno ha in verità la sua propria frana, a uno è crollato il terriccio sul campo, all’altro sta smottando la concimaia, un altro ancora conosce il

61 Ivi, p. 88.

62 Ivi, p. 317. 63 Ivi, p. 318.

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lavorio dell’antico ghiaione, ciascuno ha la sua propria misera frana, ma non è mai quella che importa a Giovanni, la grande frana su cui scrivere tre colonne di giornale, che sarebbe forse la sua fortuna64.

Da un lato riscontriamo lo sguardo del cronista (Giovanni), rivolto al fatto, alla realtà empirica, dall’altro lo sguardo poetico del narratore che, viceversa, scava nell’animo umano al fine di trarre una realtà diversa, ma forse più “vera” perché universale. Questi due sguardi si combinano nel racconto senza strabismi, poiché convergono alla medesima messa a fuoco, offrendo alla vicenda narrata profondità semantica. Lo stesso vale per il toponimo Valle

Ortica: in superficie obbedisce al principio di verisimiglianza (risultato della

miscela di realtà e fantasia) ma in profondità si carica di altri significati, da ricercare nel suo carattere allusivo. Valle Ortica infatti rimanda all’omonima pianta, il cui carattere selvatico ben rispecchia l’abbandono e la desolazione che domina la valle. Altresì, le note proprietà urticanti dell’erba possono essere paragonate allo stato ansiogeno del protagonista. Raggiunta la valle, Giovanni si accorge che nessuna calamità si è verificata in quel luogo, allora nel suo animo si sviluppa una crescente irritazione che culminerà nello sfogo contro i montanari, colpevoli di aver depistato, se pur in buona fede, la sua ricerca:

“Bestia”urlò Giovanni fuori di sé. “Non lo potevi dire prima?”[…] Scese di corsa per la mulattiera, seguito dal ragazzo mezzo piangente per la paura di aver perso la mancia. L’affanno di questo ragazzo era incredibile: non riuscendo a capire perché Giovanni si fosse arrabbiato, gli correva dietro supplichevole, sperando di rabbonirlo65.

Piantò in asso il contadino, corse indietro alla piazzetta dove aveva lasciato la macchina, interpellò ansiosamente tre bifolchi che stavano palpando i pneumatici: “Ma dov’è finita la frana?” urlava, come se fossero loro i responsabili66.

64 Ivi, p. 324.

65 Ivi, p. 321. 66 Ivi, p. 323.

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Sant’Elmo è toponimo di fantasia, propriamente un agiotoponimo, derivato

dal nome dell’omonimo santo, meglio conosciuto come Sant’Erasmo: vescovo di Formia, vissuto nel III secolo a. C. e morto martire sotto l’imperatore Diocleziano (si veda più avanti la novella Il cane che ha visto Dio, nella quale Buzzati descrive il fenomeno atmosferico dei così chiamati “fuochi di Sant’Elmo”). Non si riscontrano significative analogie tra il paesino narrato e la figura del santo; certo è che il rintocco delle campane (che alludono ad una chiesa vicina) ben si intonano con la scelta di un nome di derivazione cristiana67.

Quattro chilometri soltanto separavano Goro da Sant’Elmo, ma parevano a Giovanni lunghissimi. La strada saliva con serpentine ripide e così strette da richiedere spesso retromarce. La valle si faceva sempre più scura e torva. Solo un lontano rintocco di campana diede a Giovanni sollievo68.

Perlustrando l’area veneta ci imbattiamo nell’isola di Sant’Erasmo, nella laguna veneta, la seconda per estensione dopo Venezia. Spostandoci a nord, invece, ecco che incontriamo il monte Elmo, una delle più suggestive e prominenti montagne delle Dolomiti Carniche (provincia di Bolzano, Trentino Alto Adige). Data l’ormai nota passione di Buzzati per l’alpinismo e le Dolomiti in genere, è difficile pensare che il riferimento alla montagna trentina sia frutto di una mera coincidenza (questa chiave pare dunque la più convincente). Inoltre, merita sottolineare la vicinanza tra Elmo e Ermo, quest’ultimo aggettivo dal significato di “incolto”, “solitario”, “disabitato”, proprio come il paesino descritto dallo scrittore.

Sulla scia di quanto detto, non stupisce che anche l’immaginario paesino di

Goro69 trovi un suo corrispettivo nella toponomastica esistente. Al tempo della

stesura del racconto Goro era una piccola frazione di Merola, comune nel delta

67 Molti agiotoponimi esistenti, infatti, derivano dal nome del santo a cui era intitolata la chiesa del luogo.

68 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 320.

69 Merita menzione la cantante e attrice Milva, nome d’arte di Maria Ilva Biolcati, soprannominata la “pantera di Goro” (Goro, 1939).

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30 del Po, confinante col Veneto. Il nome Goro - dal 1965 comune autonomo - deriva da Gaurus, un vecchio ramo del Po di derivazione del Volano. In questo caso la scelta di Goro si esaurisce nel gioco buzzatiano di trasfigurare toponimi esistenti sul piano del fantastico: il reale ancora una volta sconfina nella fantasia e la fantasia, viceversa, reinterpreta il reale.

Il Grande Convoglio

Così come Goro si trasforma in un immaginario paesino di montagna, così l’esistente monte Fumo diviene, nel racconto de L’assalto al grande convoglio, lo scenario fantastico nel quale dimora il vecchio brigante Gaspare Planetta.

Però una dimora l’aveva, un suo baracchino sul Monte Fumo, metà di legno e metà di sassi, nel mezzo delle boscaglie, dove una volta si rifugiava quando c’erano troppe guardie in giro70.

Il monte Fumo è propriamente una montagna delle Alpi dei Tauri occidentali e si trova lungo il confine tra Italia (Trentino-Alto Adige) e l’Austria (Tirolo). Dal versante italiano, la parete rocciosa si affaccia sulla valle del torrenteAurino, dal versante austriaco sulla valle Zillertal. Il tradizionale nome della montagna è attestato nel XIX secolo come Rauchkofl: letteralmente

"montagna aspra" (in tedesco “rauher Kofel”). Il nome italiano, coniato dal geografoEttore Tolomei (1865 –1952) fraintende questa base etimologica e ritiene che “Rauch-” significhi “fumo”.

Vediamo dunque come la scelta buzzatiana ricada nuovamente su un monte reale, la cui conformità geologica è senza dubbio prominente, di forte impatto suggestivo. Il monte (3251 m.s.l.m) infatti svetta sulle cime circostanti, con la sua caratteristica forma piramidale e con lunghe creste. Oltre al fascino esercitato da questo monte, alla scelta toponomastica possono aver contribuito

70 Ivi, p. 12.

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31 le suggestioni esercitate dal nome stesso. Il “fumo”71 infatti rimanda ad una

dimensione indistinta, nebbiosa, dunque perfetta per collocarvi la figura di un brigante la cui condotta di vita è caratterizzata dalla latitanza, dall’esigenza di nascondersi in zone remote. Altresì, su un piano più elevato, l’atmosfera “fumosa” coinvolge l’intera narrazione, immersa in una dimensione fiabesca, nella quale i contorni realistici sbiadiscono poco a poco nella caligine del fantastico. Su questa linea, interessante è notare come l’evanescenza del fumo trovi una diretta corrispondenza con la natura spettrale dei vecchi briganti che, a chiusura del racconto, si manifestano a Planetta «diafani come una nube»:

Dietro loro, in una radura del bosco, erano apparsi una trentina di cavalieri, con il fucile a tracolla. Sembravano diafani come una nube, eppure spiccavano nettamente sul fondo scuro della foresta72;

e ancora:

si levò ritto da terra non più in carne d’ossa come prima, ma diafano al pari degli altri e pure identico a se stesso. […] I cavalleggeri lo videro farsi piccolo e diafano; aveva un passo leggero e veloce che contrastava con la sua sagoma da vecchietto73.

Come nel caso dei Sette messaggeri, la quasi totale assenza di toponimi alimenta la sensazione di indeterminatezza dell’intera vicenda. Oltre a Monte

Fumo, infatti, riscontriamo soltanto altri due toponimi: la Capitale e il Mulino.

Questi sarebbero in realtà nomi comuni che, elevati al rango di nomi propri attraverso la maiuscola, acquistano sì una maggior rilevanza testuale, ma al tempo stesso mantengono un valore denotativo certamente minore rispetto all’eventuale utilizzo di nomi propri prototipici. Ne consegue una cornice

71 Buzzati spesso ricorre alla figura del fumo per introdurre l’evento fantastico; si veda Rigoletto nel quale l’imminente esplosione è preceduta da «colonne di polvere rossiccia» che si alzano dalle macchine atomiche del corteo, oppure Racconto di Natale nel quale Don Valentino scopre Dio all’interno del Duomo dopo aver attraversato un banco di nebbia.

72 Ivi, p. 25. 73 Ivi, p. 26.

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