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Dino Buzzati, La grande luna nera, 1970.

La chiusura surreale del racconto Il problema dei posteggi, permette di traghettare l’analisi verso l’altro «luogo metafora» di Buzzati, ovvero il deserto. Esso fa da scenario ai seguenti racconti che andremo ad analizzare: Ombra del sud, Il re a Horm el-Hagar, Le mura di Anagoor, Inaugurazione della Strada.

Nella poetica Buzzatiana il deserto è luogo simbolicamente opposto a quello della città. Alle strade ingolfate di automobili, alla routine alienante, alle torri di calcestruzzo, si contrappongo i silenzi, le attese, gli infiniti e avvolgenti paesaggi desertici204. Nell’immaginario dello scrittore, il deserto è certo più

vicino alla montagna: entrambi sono luoghi inospitali e remoti, regni che custodiscono inesplicabili segreti che spingono l’animo a fantasticare.

204 È noto come sia stata la monotona routine redazionale a ispirare nello scrittore l’ambientazione del Deserto dei Tartari, si legga: «Molto spesso avevo l’impressione che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. E’ un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nella esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva: nulla di meglio di una fortezza all’estremo confine, mi parve, si poteva trovare per esprimere appunto il logorio di quell’attesa»; «Il Giorno», 26 Maggio 1959.

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Nel deserto Buzzati sembra letteralmente travolto da una bellezza e «potenza spirituale» ancora più intense di quelle provate davanti alle montagne. Ritorna, ma accresciuto, quel senso di intimità provato nei canaloni tra le rocce, una solitudine ancora più vasta dove qualsiasi incidente delle forme acquista un significato e un’espressione straordinari. Il deserto diventa così il trampolino dell’immaginazione, l’impercettibile scatto che proietta il finito in una nuova e inaspettata dimensione205.

Se la maestosità fisica della montagna spinge lo sguardo a cercar rifugio in cielo, il deserto proietta occhi e animo verso sconfinati orizzonti. È qui, tra le sabbie, che scaturisce il senso dell’attesa:

Secondo me quello che soprattutto fa impressione nel deserto è il senso dell’attesa. Uno ha la sensazione che debba succedere qualche cosa, da un momento all’altro. Proprio lì, scaturito dalle cose che si vedono206.

Ombra del sud

Ombra del sud trasporta il lettore in Africa. In questo racconto il deserto non compare mai direttamente, tuttavia la sua presenza è palpabile. Esso è «meta virtuale verso cui tutto l’intreccio tende, meta ogni volta allontanata dalla nave che, di porto in porto scarica i turisti solamente nei meandri delle cittadelle […]»207. Il narratore è un turista che, sbarcato a Porto Said, s’imbatte in una

strana figura: un uomo «vestito di una palandrana bianca» che, nell’indifferenza degli altri passanti, cammina dondolando come se stesse cercando qualcosa. Niente di particolarmente insolito, eppure quell’uomo si imprime nell’animo del turista senza che questi ne capisca il motivo. Pure lontano da Porto Said, il narratore avvisterà più volte la misteriosa figura (prima a Massaua, poi a Taulud, infine ad Harar) e ciò sarà per lui motivo di crescente inquietudine. Questa, a chiusura del racconto, va però sbiadendo: il turista si rende conto che la misteriosa presenza non è una figura ostile, bensì

205 P. Biaggi, Buzzati, i luoghi del mistero… cit., p. 58. 206 Ivi, p. 59.

88 un messaggero giuntogli in soccorso per indicargli la via. Egli proviene da regni ignoti e incantati:

L’uomo infatti era venuto da me (il mio compagno di passeggiata non lo aveva neppure notato). Considerato a distanza, quell’essere mi risultava adesso come una personificazione, racchiudente il segreto dell’Africa. Tra me e questa terra c’era dunque, prima che lo sospettassi, un legame. Era venuto a me un messaggero, dai regni favolosi del sud a indicarmi la via?208.

Il messaggero vorrebbe condurre il narratore nel deserto, laddove dimora la favola e l’avventura: dimensioni che nel racconto assumono le sembianze di un palazzo bianco, governato da un misterioso monarca: «Tu vuoi soltanto farmi capire - mi sembra - che il tuo monarca mi aspetta in mezzo al deserto, nel palazzo bianco, vigilato da leoni, dove cantano fontane incantate»209. L’animo

del narratore si mostra combattuto: da un lato insorge il timore di spingersi troppo oltre, e che dunque nell’aspettarlo «il re sprechi il suo tempo»; dall’altro il richiamo è così forte che infine decide di partire: «No no, in nome del Cielo. Sia come sia, o messaggero, porta la notizia che io vengo, non occorre neanche che tu ti faccia vedere ancora210». La decisione è presa, tuttavia la paura di non

farcela alberga ancora nel suo animo:

(Ma sarò poi capace? Non farà storie poi la mia anima al momento buono non si metterà a tremare, non nasconderà la testa tra le pavide ali dicendo di non andare più avanti?)211.

Veniamo ora ai toponimi: Porto Said, Massaua, Taulud (a questi si contano anche Mar Rosso, Tropico, Africa). Essi sono località esistenti, tappe del viaggio turistico compiuto dal protagonista del racconto. Porto Said è una città del nordest dell’Egitto, capoluogo dell’omonimo governatorato, bagnata dal lago Manzala, il Mediterraneo e dall’imboccatura del canale di Suez. Massaua è

208 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 50. 209 Ivi, p. 52.

210 Ivi, p. 53. 211 Ibidem.

89 invece città Eritrea, situata nella regione del Mar Rosso settentrionale (fu capitale dell’Eritrea italiana dal 1890 al 1897). Essa è anche il principale porto dello stato, tanto da essere considerata per importanza seconda soltanto alla capitale (Asmara). La città sorge su due isole, l’omonima Massaua e Taulud, collegate alla terra ferma mediante dighe. La figura del viaggiatore, imbarcato su una nave turistica, probabilmente è d’ispirazione biografica: nel 1933, per incarico del «Corriere» Buzzati si imbarca per una crociera che tocca la Palestina, la Grecia, la Siria e il Libano.

Ho fatto una crociera per il «Corriere della Sera» visitando la Palestina (allora si chiamava così) la Grecia, la Siria e il Libano. Ma li ho vissuti in pochi giorni. Poi ho fatto un viaggio molto bello nel deserto libico, andando proprio nell’interno, fino all’oasi di Kouffra, con l’automobile. È stata una cosa bellissima212.

In Africa Buzzati si è recato in prima persona, prima in Libia (’33) poi nel ’39- ‘40 in Etiopia in qualità di inviato speciale del «Corriere», col compito di raccontare il nuovo “Eldorado” italiano. Dalla capitale Addis Abeba scrive numerosi articoli sugli usi e costumi della popolazione locale. Frequenti sono gli spostamenti in automobile che lo portano a toccare la Dancalia meridionale (distretto dell’Eritrea nella regione del Mar Rosso meridionale). Da queste escursioni nasce l’articolo Vecchio facocero, apparso sul «Corriere» il 2 febbraio 1940 e inserito, in qualità di racconto, nella raccolta I sette Messaggeri (‘42) e in seguito nei Sessanta racconti (‘58). Significativo è anche l’articolo Dove fui giovane stregone («Corriere della Sera», Piana di Eleffi, Dancalia meridionale; 22 dicembre 1939). In questo, non solo ritroviamo la nota commistione di giornalismo e letteratura, ma che il tema dell’attesa, del tempo che fugge, di un’Africa intima e sognata. Di fronte al paesaggio della Dancalia, contraddistinto dalla «radura polverulenta» e di «rupe altissima bruciata dal sole» il giornalista-scrittore ha come la sensazione di essere già stato in quel

90 luogo: molti anni fa, da bambino, durante un sogno o una fantasia che lo vedeva prigioniero di una tribù di selvaggi.

Ventiquattro anni fa! Mi dissi con lo smarrito stupore di chi osa voltarsi indietro a misurare l’avidità del tempo. Ero un bambino allora ed abitavo bel lontano da qui, in una città d’Italia. Un pomeriggio che la casa era silenziosa e vuota, mi ero sdraiato su un divano e, fissando sul soffitto una tremula striscia di sole riflessa da un canale sottostante, stavo fantasticando. Mi ritrovai così nella gialla radura dove adesso me ne sto ad aspettare il compagno […]. Oramai me ne ricordo solo vagamente, fra tante avventure vissute in quegli anni. Ma so per certo che ero stato circondato da una tribù di selvaggi213.

A salvarlo dalla tribù nemica incorrono dei lupi, chiamati dal bambino Buzzati attraverso un fischio. Le fiere accorse spaventano gli indigeni e tagliano con i denti i lacci che lo tenevano prigioniero. A quel punto, i selvaggi usciti dalle capanne nelle quali si erano rintanati, si prostrano dinanzi al bambino, adorandolo quale nuovo stregone. La fantasticheria si dissolve col suonare di un campanello, che proietta il bambino nella realtà: «Poi udii suonare il campanello, mi alzai dal divano e la mia carriera di stregone ebbe termine»214. A

distanza di anni, ecco che al maturo Buzzati pare di riconoscere, in quel luogo remoto della Dancalia, traccia di un universo fantastico che gli appartiene, tant’è che chiede al suo compagno di viaggio se in quella zona si aggirano dei lupi. Alla risposta negativa («“signornò, qui non girare lupi, qui stare iene e sciacalli”») segue la consapevolezza che si tratta solo di un’illusione: che egli non è mai stato uno stregone e che la fantasia, che un tempo lo aveva condotto lì, non è che un misero e fugace incanto:

O Africa dei vecchi sogni, ridotta a una specie di grandioso parco quadrupedi. L’antico incanto si scioglieva in me miseramente, così come Ulisse durante l’ultimo viaggio215.

213 D. Buzzati, Dove fui giovane stregone, «Corriere della sera», 2 dicembre 1938, in D. Buzzati, Cronache terrestri… cit., p. 280.

214 Ivi, p. 281. 215 Ivi, p. 282.

91 Tuttavia, il paesaggio africano non esaurisce la sua fonte di fascino e mistero; esso è fonte di speranza: la speranza di credere ancora nella veridicità dei sogni.

Ma l’Africa nuovamente apriva dinanzi a me le sue porte favolose, autorizzandomi a credere ancora nella verosimiglianza dei sogni, ultimo lembo di terra dove restasse qualche probabilità, sia pur minima, di diventare un giorno stregone216.

Quanto emerso nell’articolo trova una diretta corrispondenza in Ombra del sud. Anche qui il narratore scopre un legame intimo con l’Africa, il cui mistero è personificato dalla figura del messaggero: «Considerato a distanza, quell’essere mi risultava adesso come una personificazione, racchiudente il segreto dell’Africa. Tra me e questa terra c’era dunque, prima che lo sospettassi, un legame»217. Soprattutto, emerge la tematica dello scorrere del tempo: centro

nevralgico di tutta la produzione Buzzatiana. L’Africa, negli articoli e nei racconti dello scrittore, assume le connotazioni di un paesaggio metafisico, che trascolora in una dimensione dove realtà e fantasia si mescolano indissolubilmente. Insomma, è la dimensione dell’infanzia, le cui porte si nascondo in cima a pareti rocciose o, nel nostro caso, nelle incontaminate regioni africane. Ma il tempo scorre implacabile e possibilità di ristabilire un contatto fra l’età adulta e quella infantile si fa sempre più illusoria. Il giornalista si rende conto che il paesaggio della Dancalia non è quello sognato da bambino, il turista del racconto non riesce a raggiungere il fantastico messaggero, che si dissolve ogni volta il narratore cerchi di raggiungerlo.

I toponimi di questo racconto riproducono la contaminazione tra realtà e fantasia alla quale Buzzati ci ha abituato. Essi hanno la funzione di piantare una vicenda surreale su un terreno realistico: ciò funge all’incremento della suspense e ad infondere nel lettore un’ effetto estraniante: se il surreale si verifica nel reale, le due dimensioni finiscono per scambiarsi linfa a vicenda. Altresì, non è certo casuale che i toponimi presenti richiamino località turistiche, urbanizzate,

216 Ivi, p. 283.

92 e soprattutto periferiche rispetto alle desertiche e inospitali regioni dell’entroterra africano. Ciò marca, in profondità, il confine tra realtà (di cui i toponimi sono espressione) e la fantasia, che nell’immaginario dello scrittore è da ricercare nel cuore del continente nero: è lì che si erge il «palazzo bianco» governato dal monarca, in una regione, non a caso, senza nome.

Le mura di Anagoor

Abbandoniamo ora le città turistiche di Ombra del Sud e inoltriamoci la nell’entroterra africano, laddove la realtà cede il passo all’immaginazione. Raggiungiamo così il Tibesti: qui si erge la leggendaria città del racconto Le mura di Anagoor. Come si legge nell’incipit:

Nell’interno del Tibesti una guida indigena mi domandò se per caso volevo vedere le mura della città di Anagoor, lui mi avrebbe accompagnato. Guardai la carta ma la città di Anagoor non c’era. Neppure sulle guide turistiche, che sono ricche di particolari, vi si faceva cenno218.

IlTibestiè lacatena montuosapiù elevata deldeserto del Sahara: la vetta principale (monte Emi Koussi) raggiunge i 3415 metri d’altezza. Di origine vulcanica, il massiccio montuoso è ubicato nel Sahara centrale: nella regione di Borkou-Ennedi-Tibesti, nella parte nord-occidentale del Ciad. Le pendici settentrionali del Tibesti si estendono fino alla confinante Libia. Non è difficile pensare che il paesaggio offerto da Tibesti, così inospitale e selvaggio, sia apparso perfetto a Buzzati per collocarvi la leggendaria città di Anagoor. Come si legge, nessuna carta indica questa città, il che ne alimenta il carattere misterioso e illusorio:

«Le carte» io insistetti «non registrano nessuna città di nome Anagoor, ciò fa supporre che sia una delle tante leggende di questo paese; tutto dipende probabilmente dai miraggi che il riverbero del deserto crea, nulla di più»

218 Ivi, p. 356.

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[…] «Una città come quella che tu dici sarebbe registrata sulle carte con un doppio cerchio e il nome in tutto stampatello. Invece non trovo alcun riferimento a una città di nome Anagoor, la quale evidentemente non esiste. Altre tre sarò pronto, Magalon»219.

La città invece esiste, se non altro nelle aspirazioni dell’animo umano. Essa si erge a luogo chiuso, protetto da solide mura, dentro le quale regna la felicità, ne è riprova, come sostiene la guida del protagonista, il fatto che «nessuno ne sia mai uscito».

«[Anagoor] vive per conto suo e neppure i ministri del re possono entrarvi. Essa non ha commercio alcuno con altri paesi, prossimi e lontani. Essa è chiusa. Essa vive da secoli entro la cerchia delle sue solide mura. E il fatto che nessuno ne sia mai uscito non significa forse che vi si vive felici?»220.

Ritorna il tema del confine, della soglia, oltre il quale dimora il mistero, l’inesplicabile. Le mura negano al protagonista, così all’essere umano, la possibilità di spingersi oltre l’«inganno consueto» di montaliana memoria. Si prefigurano due possibilità: che aldilà delle mura vi sia il nulla: «ma è poi sicuro che di là dalle mura ci sia qualcuno? La città non potrebbe essere ormai estinta?» oppure la promessa di una felicità eterna. Questa speranza sembra consolidarsi quando, di là dalle mura, si vedono salire delle spire di fumo221:

segno che la città esiste davvero? L’entusiasmo pervade gli animi dei pellegrini che attorno alla muraglia si sono accampati, nella speranza che le porte di Anagoor un giorno si aprano a loro. Il narratore, si mostra invece più scettico:

[…]quei fumi di per sé non dimostravano neppure che Anagoor fosse abitata. Infatti non poteva trattarsi di un casuale incendio dovuto al sole torrido? Oppure, ipotesi assai più probabile, erano fuochi accessi da predoni entrati per qualche pertugio delle mura a saccheggiare la città morta e disabitata222.

219 Ivi, pp. 357-358.

220 Ivi, p. 357.

221 Chissà se l’immagine dei fumi è stata influenzata dalle esalazioni del vulcano attivo, Pic Tousside situato nel Tibesti.

94 Attraverso la guida si viene a sapere che a qualcuno è stata concessa la possibilità di oltrepassare quella muraglia che separa il conoscibile dall’ignoto, proprio come la «muraglia» di Montale, alla cui sommità non vi sono «torrette» bensì «aguzzi cocci di bottiglia»223.

L’evento si è verificato molti anni fa, forse secoli, ad un viandante che si aggirava lì per caso, in cerca di un rifugio per la notte. A lui che ignorava persino che «fosse la città di Anagoor» si sono aperte le porte, si è manifestata l’epifania che i pellegrini, adesso, aspettano con perseveranza. Anche il protagonista decide di fermarsi, nella speranza di poter entrare anche lui. Ciò non accade: dopo ventiquattro anni di attesa (si veda come siano gli stessi anni che nell’articolo Dove fui giovane stregone intercorrono tra il sogno di Buzzati e il viaggio in Africa) il narratore decide di tornare a casa. «Quanta furia!» esclamano allora i pellegrini che lo vedono partire: «un minimo di pazienza, diamine! Tu pretendi troppo dalla vita»224.

Non è difficile riscontrare nella figura delle mura il limite ultimo, di là dal quale nessuno è tornato mai indietro. Nonostante il dubbio che oltre la vita non vi sia niente, la speranza di un riscatto, di un salvezza, di una felicità eterna spinge gente di ogni dove e di ogni ceto sociale ad attendere l’apertura delle porte del mistero. Ma il varco resta negato al protagonista, attanagliato dal dubbio esistenziale e dalla fretta di conoscere la verità suprema. Attendere una risposta non serve: soltanto ad un semplice viandante, libero dalla sete di conoscenza, le porte si sono aperte, inaspettatamente, e non a caso laggiù dove nessuno guardava.

«E gli altri? Cacciati indietro?» «Altri non c’erano. Si trattava di una delle porte più piccole e trascurate dai pellegrini. Quel giorno non c’era nessuno ad aspettare. Verso sera giunse un viandante che bussò. […] Non sapeva

223 Il riferimento va alla poesia di Montale Meriggiare pallido assorto (Ossi di seppia). 224 D. Buzzati, Sessanta racconti, cit., p. 360.

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niente di niente, era là per puro caso. Forse solo per questo gli hanno aperto»225.

Veniamo ora al nome, dalle sonorità esotiche e fantastiche, di Anagoor. Esso è frutto d’invenzione, in conformità alla natura non fisica, ma simbolica del referente; del resto è lo stesso Buzzati a ricordarci che la città non esiste sulle

carte geografiche. Interessante è notare la vicinanza fonica con Angkor Wat: imponente tempio khmer, presente all’interno del sito archeologico di Angkor, in Cambogia. Le mura perimetrali del tempio, che formano un rettangolo che copre più di tre km, trovano suggestive analogie con quelle di Anagoor, le quali altresì «si estendevano per chilometri e chilometri». Forse meno probabile, ma più suggestiva sul piano semantico è l’assonanza col verbo greco anachorèo, composto di anà (“avanti”, “indietro”) e chòros (“luogo”); da qui la forma latina anachorèta > anacoreta. Il termine designa chi parte per altro luogo, per vivere in solitudine lontano dai luoghi abitati (in particolare, sono così designati i religiosi, detti anche «padri del deserto» che nei secoli III-IV vivevano isolati nei deserti dell’Egitto). Forse solo una suggestione, certo è che la figura dell’anacoreta ben rispecchia quella del protagonista e dei pellegrini, i quali si sono ritirati nel deserto, alla ricerca di un contatto col trascendente.

Il re a Horm el-Hagar

In questo racconto Buzzati sembra convogliare la sua grande passione per i faraoni e le divinità egizie. Passione radicata già negli anni della giovinezza, come dimostra lo scambio epistolare tra Dino e l’amico Brambilla, risalente agli anni ’20 (si veda il capitolo Vita e Opere). Siamo in Egitto, nei pressi della Valle dei Re, dove il direttore degli scavi, Juan Leclerc, ha rinvenuto un antica stele. Al direttore è giunta una lettera, nella quale si dice che «un illustre archeologo

225 Ibidem.

96 straniero» di nome Mandranico verrà a fargli visita. Data la solitudine di Leclerc, l’annuncio gli è alquanto gradito; a tal proposito Buzzati scrive: «l’idea di vedere in quell’eremo una faccia cristiana che si interessasse un poco delle sue vecchie pietre non gli dispiacque»226. “Una faccia cristiana” è qui da

intendersi in senso figurato: “essere umano civile”. Il modo di dire, tuttavia, sembra concretizzarsi nel cognome di uno dei personaggi che vengono a fargli visita, guarda caso un certo tenente Afghe Christiani. Questi, assieme al barone Fantin, fanno da scorta al conte Mandranico. Dopo le presentazioni di rito, il direttore conduce gli ospiti a visitare il cantiere. Il conte, più che dei reperti rivenuti negli scavi, si mostra incuriosito dalle nuvole in cielo, che poco a poco

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