Realtà e fantasia
A conclusione di questo percorso, risulta chiaro come i termini “realtà” e “fantasia” in Buzzati siano facce delle medesima medaglia. Esiste una realtà empirica, sensoriale, serrata nell’implacabile stretta del tempo che fugge, così come esiste una dimensione più profonda, dove il tempo si dilata all’infinito preservando fantasie, incubi, misteri dell’esistenza. Da un lato c’è la ragione, che tenta di far luce in zone inesplorate, e dall’altro l’immaginazione che sopperisce al vuoto con le sue creazioni fantastiche. Questa dialettica si riverbera nei racconti analizzati, dando vita ad esiti drammatici quando la prima tenta di forzare o schiacciare l’altra. È il caso del racconto l’Uccisione del drago nel quale, in nome della scienza, si compie il folle massacro della fantastica fiera. Dalla carcassa martoriata di questa, fuoriesce un fumo funesto: è lo scotto da pagare per chi «si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi». Le stesse tematiche si reiterano in Era proibito: qui Buzzati immagina una città nella quale, in nome del progresso e della produttività, la poesia è stata messa al bando dal governo. Non bastano le leggi, però, a reprimere le «intemperanze della fantasia» e così, sotto una luna di leopardiana memoria, il popolo insorge proclamando la rivoluzione.
Razionalità e fantasia convivono invece nei personaggi che intraprendono un percorso di ricerca. Le due componenti non entrano in conflitto, ma si plasmano a vicenda, dando origine ad ambientazioni rarefatte e oniriche. La ragione cede il passo al dubbio, la fantasia al mistero. Si vedano ad esempio i racconti I sette messaggeri o Le mura di Anagoor, nei quali i protagonisti si inoltrano nei misteri dell’esistenza, alla disperata ricerca di un approdo che possa lenire quello che
104 Montale chiama «il male di vivere»244. Ma la ricerca è vana, e così i personaggi
ripiegano nell’attesa di un evento, di un riscatto, di un epifania soltanto agognati. Trapela così l’inquietudine, l’angoscia, l’assillo di uno scrittore che sa che la realtà non è soltanto «quella che si vede»245 ma al contempo sa che il
mistero che essa suggella è impenetrabile quanto le mura di Anagoor.
Il rapporto tra ragione e fantasia, tra conoscenza e mistero, si palesa anche sul piano strettamente stilistico. Palpabile è l’impostazione cronachistica, permeata dalla professione di giornalista, con la quale Buzzati tratta la materia fantastica. Ciò è più di una felice trovata formale. Come scrive Domenico Porzio, l’«insistente oscillare tra un realismo di cronaca e ed un realismo favoloso, sono, in Dino Buzzati, ben altro che una connotazione ripetitiva: formano la sostanza del suo sistema narrativo, agiscono come strumenti insostituibili per rielaborare l’approccio alle domande ultimative e, insieme, per approfondire la presa, in chiave fantastica della realtà»246. Il realismo di Buzzati
è però soltanto il punto di partenza, l’ancoraggio che gli permette di andare “altrove”. Come lo stesso scrittore dichiarò a Yves Panafieu «il mio fantastico è un gioco, o forse uno sport… mi serve per scherzare e prendere un po’ dal di fuori e dall’alto molte cose della vita pratica… il fantastico deve sboccare su una forma di realtà»247. Lo stile giornalistico diviene dunque lo strumento per
ribaltare i piani percettivi: se ciò che è fantastico viene raccontato come reale, di conseguenza il reale stesso si mostra illusorio, inconsistente; come scrive Dalla Rosa: «La fantasia di Buzzati testimonia una domanda di significato aldilà delle apparenze, la ricerca di una verità che si trova altrove, poiché la realtà può nascondere aspetti che sono facilmente penetrabili o che sono menzogneri»248. Notte d’inverno a Filadelfia è la dimostrazione di come giornalismo e letteratura possano combinarsi, ampliando le potenzialità espressive della parola. Al
244 Cfr. E. Montale, Spesso il male di vivere, Ossi di seppia.
245 Il riferimento è alla poesia di Montale Ho sceso dandoti il braccio, in Satura (1971). 246 D. Porzio, Introduzione, in D. Buzzati, Le notti difficili, Mondadori, 2014, p. 4. 247 Ivi, p. 6.
248 P. Dalla Rosa, Dove qualcosa sfugge, Quaderni del Centro Studi Buzzati, III, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2004, p. 30.
105 resoconto di un fatto di cronaca (il ritrovamento del cadavere di un americano) Buzzati alterna l’invenzione letteraria. Quest’ultima gli permette di andare indietro nel tempo, scavare nel fatto, ripercorrere le ultime ore di vita dello sfortunato soldato, dando voce così al grido disperato di una delle tante innocenti vittime della guerra. La fantasia si eleva dunque dalla realtà contingente e arriva a toccare note universali, che risuonano altrettanto vere perché connaturate nell’animo umano.
I luoghi del tempo
Non è solo la cronaca ad ispirare l’immaginazione di Buzzati, ma soprattutto i luoghi che ha vissuto ed esplorato in prima persona. Sulla pagina, le montagne venete, la città di Milano, i deserti africani, divengono qualcos’altro: luoghi archetipici da ricercare non “fuori” ma “dentro” l’animo dello scrittore. Se nelle moltissime pagine che Buzzati ha dedicato alla montagna non è difficile riscontrare riferimenti più o meno espliciti alle Dolomiti o a certi scorci della Val Belluna, è anche vero che la penna trasfigura, modella, plasma, crea insomma una realtà alternativa. Sulla carta la montagna assume le connotazioni di un luogo spirituale, metafisico, un «corrispettivo del paesaggio dell’infanzia e della prima giovinezza»249 come scrive Dalla Rosa. Anche nella rappresentazione della città è possibile riscontrare dei chiari riferimenti a Milano, ma la città di Buzzati è anch’essa qualcos’altro: è la radicalizzazione, spesso in chiave satirica, del consumismo, della produttività, della routine lavorativa. È altresì il corrispettivo della vita adulta, «prigione di asfalto e cemento250» nella quale non c’è più posto per i sogni infantili. Così anche i
deserti africani della Libia, dell’Etiopia, della Dancalia meridionale, ammirati
249 Ivi, p. 115.
250 D. Buzzati, Una tragedia della città, «Corriere della Sera», 1963, in D. Buzzati, Cronache terrestri… cit., p. 140.
106 ed esplorati nelle vesti di inviato del «Corriere», abbandonano la dimensione realistica e divengono, come scrive Arslan, «paesaggi psicologici»251. Il deserto è
il luogo dell’attesa, dell’assoluto, dove i personaggi buzzatiani errano alla ricerca di un contatto col trascendente. Perché è nel cuore del deserto che si nascondono città incantate o misteriosi palazzi, nei quali dimora il segreto dell’esistenza. Come i suoi personaggi, Buzzati ricerca in questi luoghi un senso di appartenenza che però è eluso. L’incanto infantile, di cui la montagna è ricettacolo, è compromesso ormai dall’avanzare dell’età adulta. La vita a Milano ha reso Buzzati un borghese, che romanticamente sogna i tempi di quando poteva essere un libero brigante come Planetta, nel racconto Il Grande Convoglio. La sofferenza si riversa sul destino dei suoi personaggi: la montagna rifiuta il curioso giornalista scatenando su di lui una slavina (La frana), il borghese, salito in cima ad una rupe, paga con la morte lo scotto di essere entrato nel «mondo non più suo delle favole» (Il borghese stregato). Viceversa, la città si scaglia brutalmente sui due stranieri, che hanno la sola colpa di non conoscere le usanze e i costumi del luogo (Era proibito). Insomma, tocca ai personaggi il compito di espiare quel senso di precarietà che in primis è da ricercare nell’animo di Buzzati.
Nella montagna, nella città, nel deserto, troviamo dunque rappresentate le età della vita: rispettivamente l’infanzia, la maturità, e infine la morte. I luoghi si elevano dalla loro collocazione geografica divenendo tappe di una cronologia esistenziale. In altre parole, i luoghi di Buzzati sono espressione della vita che scorre, sono la porta per indagare il tempo nelle sue fasi simboliche. Come scrive Arslan, i luoghi di Buzzati «simboleggiano soltanto i diversi aspetti del tempo. La contemplazione del tempo è il vero tema di Buzzati […], perché se ne possa dare una rappresentazione, il tempo deve passare attraverso tutte le figure della sensibilità, quelle almeno che lo scrittore può conoscere per diretta esperienza»252. Il tema della fugacità del tempo è a sua volta spia di un tema
251 A. V. Arslan, Invito alla lettura di Buzzati, Mursia, Milano, 1974, p. 117. 252 Ivi, p. 116.
107 ancor più intimo e assoluto, ovvero quello della morte. Essa è la vera ossessione di Buzzati, che si riflette con costanza nei suoi racconti, dando vita ad un inventario di rappresentazioni sceniche e figurative che richiamano la morte o la personificano: si veda ad esempio Il mantello, nel quale la morte assume le sembianze di un «misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada»253. Davide Papotti, che ha messo in luce il rapporto tra spazio e paura
nei Sessanta Racconti, definisce la paura della morte come una «meta-paura, una paura “superiore”, perché nascosta e mascherata dietro tanti altri oggetti di timore»254. Il timore della malattia, ad esempio, che ritroviamo come tema
dominante nei racconti Sette piani, Una cosa che comincia per elle e nella Peste Motoria; sebbene in quest’ultimo la malattia non colpisce gli umani bensì le automobili «in una parodica ma nondimeno sinistra antropizzazione della meccanica255». Nel racconto Direttissimo Buzzati ricorre alla metafora del
viaggio per rappresentare la caducità della vita. L’ignaro passeggero si domanda: «Per dove? Quanto è lontana la destinazione? Ci arriveremo mai? Valeva la pena fuggire con tanta furia dai luoghi e dalle persone amate?»256. È
questo interrogativo esistenziale che muove, in profondità, la penna di Buzzati. Il dubbio che oltre la vita non vi sia niente è lo stesso del turista che, di fronte alle mura di Anagoor, si domanda se davvero esiste aldilà di esse la città felice di cui si racconta; è lo stesso che spinge il cammino del conte Mortimer alla ricerca di un senso ultimo che si mostra irraggiungibile come il paesino di San Piero nell’Inaugurazione della strada. Negli ultimi mesi della sua malattia, Buzzati dichiara: «nonostante il residuo cattolico che rimane in me per l’educazione religiosa ricevuta oggi io non credo. Soprattutto non credo nell’aldilà. Però non posso non avere dei dubbi […]»257. Questi dubbi Buzzati li traspone sulla pagina scavando nelle angosce e nelle inquietudini dell’animo umano, e cavando fuori
253 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 74. 254 D. Papotti, I paesaggi della paura… cit., p. 19. 255 Ibidem.
256 D. Buzzati, Sessanta racconti… cit., p. 366. 257 P. Biaggi, I luoghi del tempo… cit., p. 97.
108 il mistero che si cela sotto l’apparenza delle cose: «il mistero, questa bellissima cosa senza la quale la vita sarebbe un totale schifo, si localizza nei posti di frontiera là dove non si sa bene cosa ci sia più avanti»258.
La funzione dei toponimi
La capacità di Buzzati di condurre il reale nel fantastico non si esaurisce sul piano narrativo, ma, a tale effetto, contribuiscono sensibilmente le scelte toponomastiche. I toponimi non hanno dunque la sola funzione di denotare i luoghi cari allo scrittore, ma guidano e contribuiscono alla traslazione dello spazio fisico a spazio interiore e allegorico. Ripercorriamo su larga scala le tappe di questa “dissolvenza”, partendo dai toponimi «reali».
In Paura alla Scala, come visto, i nomi delle vie presenti trovano una diretta corrispondenza nella geografia milanese. Di conseguenza, il fantastico è trattenuto, non si concretizza, ma sbiadisce in una dimensione di tensione e angoscia tutta interna ai personaggi attanagliati dentro le mura del teatro. Tuttavia, molto spesso i toponimi di Buzzati prevaricano il mero effet de réel, ecco allora che l’esistente via della Passione, sempre in Paura alla Scala, sembra preannunciare la sofferenza spirituale che da lì a poco invaderà il maestro Cottes. Anche in Ombra del sud le località citate sono esistenti, Porto Said,
Massaua, Taulud: tutte città turistiche, urbanizzate e soprattutto periferiche
rispetto alle inospitali regioni dell’entroterra africano. In questo caso, ad un livello più alto, i toponimi marcano la dimensione della realtà da quella fantastica, quest’ultima localizzata da Buzzati, simbolicamente, nel cuore del continente nero (è qui che si erge il misterioso «palazzo bianco», in una regione, non a caso, senza nome). Anche qui la spinta fantastica non si libera, ma si riduce testualmente nella sfuggente e misteriosa figura di un arabo. Insomma,
258 Ivi, p. 37.
109 laddove prevalgono ambientazioni realistiche, la fantasia non si materializza apertamente, ma resta schiacciata in una dimensione perturbante, ansiogena, originata dall’intimo sentore che sotto la superficie delle apparenze si nasconde una “realtà altra”.
Quando la componente fantastica si fa più manifesta, le tinte realistiche di pari passo vanno sbiadendo. A tale effetto, incorre la mescolanza di toponimi reali e inventati all’interno della medesima ambientazione. È il caso dell’Uccisione del drago: qui compare il Monte Burel, montagna delle Dolomiti, gruppo della Schiara, che, sulla pagina, viene eletta da Buzzati a dimora della fantastica fiera. Seguono toponimi d’invenzione (si veda il caso particolare di
Crocetta) tra i quali spicca il «trasparente» Val Secca, che evoca non solo
l’aridità dell’ambientazione narrata, ma anche quella dell’animo del personaggio Gerol, artefice del brutale massacro del drago. Caso analogo è Il cane che ha visto Dio: qui compare l’immaginario paesino di Tis (forse ispirato dall’esistente Tisoi) insieme al reale Limena (comune padovano). Nel racconto La frana è il tema centrale dell’attesa ad elevare lo spazio fisico a spazio allegorico. L’esistente comune di Goro si trasforma, sulla carta, in un remoto paesino di montagna; la Valle Ortica evoca sì il carattere selvatico del referente, ma anche la condizione intima del protagonista, il cui animo, come a contatto con l’ortica, va progressivamente “irritandosi”. Il paesino di Sant’Elmo, sempre nella Frana, sembra ispirato dalla passione di Buzzati per la montagna: Ermo è infatti una prominente vetta delle Dolomiti Carniche. La tendenza, altresì, non resta isolata: si veda l’esistente Monte Terne (montagna delle Dolomiti Bellunesi) che, nell’Inaugurazione della strada, compare nelle camuffate vesti di un paesino (Passo Terne), oppure il Monte Fumo, montagna delle Alpi dei Tauri, scelta da Buzzati per collocare il favoloso regno del brigante Planetta (Il Grande Convoglio).
I toponimi vanno riducendosi, fin quasi a scomparire, nei racconti dove l’impostazione allegorica è preponderante: si veda i Sette messaggeri, nel quale compare solo un oronimo, monti Fasani, forse traslato dal toponimo veneto
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Cappella Fasani. Nel Borghese Stregato, ad esempio, i toponimi sono del tutto
assenti; l’unico riferimento spaziale è offerto dall’albergo Corona: marchionimo che si carica di connotazioni tutte particolari da ricercare, come visto, nell’immaginario favolistico e simbolico dello scrittore. Lo spazio trapassa dunque nel fantastico, nel sogno: ne è riprova il terribile stregone che si manifesta agli occhi del curioso borghese. Lo stesso vale per il racconto Era proibito: un vero e proprio incubo nel quale riscontriamo soltanto un altro marchionimo, Hotel Strigoni, nel quale, come suggerisce il nome stesso, nasconde al suo interno un’altra figura stregonesca. Anche le città dei racconti Il problema dei posteggi e la Peste Motoria risultano anonime: segno che sono città simboliche, archetipiche, racchiudenti i mali della società moderna. Evocativi sono invece i marchionimi che abbondano nei contesti cittadini, su tutti il nome del garage Iride (La peste motoria) il cui meccanico, come la messaggera greca Iris, si fa annunciatore di un terribile messaggio.
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Appendice
Sintesi sessanta racconti
1. I sette messaggeri
In giovane età, un re intraprende un viaggio per raggiungere i confini remoti del regno paterno. Con sé porta sette cavalieri, il cui compito è quello di alternarsi nel tornare alla città natale per raccogliere notizie e recapitarle a lui. Con passare dei giorni, dei mesi, degli anni, i messaggeri compiono un percorso sempre più lungo per arrivare alla Capitale e tornare dal re. Così i contatti si fanno via via più radi fino a interrompersi. Nonostante il dubbio che non esista alcun confine, il re, ormai vecchio, prosegue il viaggio nella speranza di giungere un giorno alla meta agognata.
2. Assalto al grande convoglio
Planetta è un vecchio brigante che, uscito di prigione, torna sul Monte Fumo dove era il suo regno. La fama di un tempo però è andata persa e così i nuovi briganti faticano a riconoscerlo. Planetta si ritira allora in disparte, in una piccola baracca sul monte. Un giorno si aggiunge a lui un bambino, che considera Planetta ancora il capo di tutti i briganti. Per riscattare l’antica fama, Planetta decide di assaltare il Grande Convoglio: treno carico di ricchezze che nessun brigante è mai riuscito a saccheggiare. Durante lo scontro a fuoco, sia Planetta che il bambino vengono colpiti mortalmente. Allora, sopraggiungono gli spiriti dei leggendari briganti del passato per guidarli nel trapasso. 3. Sette Piani
Giuseppe Corte si reca al sanatorio per curare una leggera forma di febbre. La casa di cura è strutturata su sette piani: al settimo vengono ricoverati i pazienti meno gravi, ai piani inferiori, gradualmente, le malattie più preoccupanti. Inizialmente Giuseppe Corte viene sistemato al settimo piano ma, giorno dopo giorno, come in una discesa agli inferi, viene spostato ai piani sottostanti. La crescente preoccupazione di Giuseppe è smorzata dai medici che, ad ogni piano, con scuse e reticenze lo tengono all’oscuro delle sue vere
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condizioni di salute. Il settimo giorno Corte raggiunse il primo piano, quello dei moribondi, andando incontro al suo triste destino.
4. Ombra del sud
Durante una gita in Egitto, il protagonista scorge la figura di un arabo che sembra seguirlo ovunque lui vada. Soltanto il turista pare vederlo e, ogni volta che tenta di raggiungere la misteriosa figura, questa scompare nel nulla. Allora, ipotizza che sia un messaggero, giunto a lui per guidarlo in un luogo fantastico e misterioso: in mezzo al deserto, laddove, in un palazzo bianco, dimora un ignoto monarca.
5. Eppure battono alla porta
Un temporale imperversa fuori dalla casa di una famiglia aristocratica. Un giovane fa loro visita avvisando che gli argini del fiume stanno per rompersi. L’intera servitù è scappata ma la signora Gron, con «aristocratico sprezzo» si oppone all’idea di lasciare l’abitazione. La sua condizione sociale, però, non la salvaguarda dalla furia della natura. 6. Il mantello
Il volo delle cornacchie è presagio della triste sorte toccata a Giovanni: soldato che un giorno torna dalla madre avvolto da un mantello. La gioia della madre è presto smorzata dall’inquietudine e dalla tristezza del giovane. Il piccolo fratello, scostando la veste, rivela la ferita mortale che ha colpito Giovanni in guerra. Salutata la madre, il soldato raggiunge la morte che fuori lo stava aspettando.
7. L’uccisione del drago
Si racconta che sul monte Burel dimori un drago. Nonostante gli ammonimenti del medico Taddei e dei contadini del luogo, la comitiva guidata dal conte Gerol si reca sul monte per provare o smentire le voci. All’interno di un grotta non solo scovano la bestia, ma anche due cuccioli di drago. In nome della Scienza, con brutale ferocia Gerol uccide i fantastici animali a colpi di schioppo. Dal corpo martoriato del drago fuoriesce uno strano fumo. Respirandolo Gerol comincia a tossire, a tossire sempre più...
8. Una cosa che comincia per elle
Il dottor Lugosi, assieme a Don Valerio, fanno visita al mercante Cristoforo che, il giorno prima, non si era sentito bene. Poco a poco, spronato da Don Valerio, il mercante
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ricorda quanto accadutogli tre mesi fa: durante un viaggio, la sua carrozza è usci ta di strada e per rimetterla in carreggiata si è fatto aiutare da uno strano individuo. Si scopre che questi è una “una cosa che comincia per elle” ovvero un lebbroso, dal quale a sua insaputa il mercante a contratto il morbo. Cristoforo viene così costretto ad abbandonare di tutta fretta la città, scuotendo la campanella.
9. Vecchio facocero
In questo racconto si narra l’uccisione di un facocero da parte di un cacciatore. I suoi ultimi istanti di vita, divengono metafora della vita umana e della sua ineluttabile conclusione. Il deserto africano, arido e sconfinato, è l’emblema della solitudine, della mancanza d’amore, della morte.
10. Paura alla Scala
L’alta borghesia è tutta riunita alla Scala, per assistere alla prima dello spettacolo La strage degli innocenti. In sala cresce però la paura che fuori si stia compiendo la rivoluzione.