1. Spazio, città e letteratura: la ricerca di una metodologia di indagine
1.3. Comporre una cornice metodologica: le teorie critiche di riferimento
1.3.2. La città come testo nome, spazio: la prospettiva semiotico-culturale di Jurij
L’idea bachtiniana dello spazio reale come supporto segnico su cui proiettare un’immagine poetico-letteraria della temporalità storica rimanda indirettamente alla dimensione simbolica e identitaria dello spazio urbano e alla metafora della città come testo in cui vengono a iscriversi, in forma di serie temporali, molteplici memorie e narrative sul sé. Il concetto stesso di testo, nella sua capacità di restituire il complesso e stratificato statuto semiotico della città, costituisce di fatto un ricorso certamente non nuovo nel panorama degli studi urbani. E tuttavia è soprattutto nella prospettiva semiotico-culturale di Jurij Lotman che esso emerge come un modello descrittivo particolarmente indicato per uno studio sulla produzione dello spazio letterario di Istanbul. È un fatto estremamente singolare che finora nessuna analisi critico-letteraria condotta in ambito turcologico abbia
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fatto ricorso ai lavori di semiotica urbana dello studioso estone dal momento che essi offrono invece spunti metodologici estremamente interessanti per indagare il complesso statuto semiotico di Istanbul nonché le valenze simboliche e identitarie che la sua spazialità può incarnare quando trasposta in letteratura.
Com’e noto la semiotica-culturale di Lotman muove dall’assunto fondamentale che la cultura possa essere definita come lingua, nel senso che la nozione assume in semiotica generale, ossia come sistema di segni semiotici sottoposto a regole strutturali e caratterizzato da una propria organizzazione interna47. È in tale prospettiva che lo studioso ricorre al concetto di testo come metafora formale atta ad illustrare sia i processi che gli esiti della produzione culturale.
In realtà l’idea di considerare la cultura o le culture come un’unica lingua ossia come un sistema di segni organizzati secondo una struttura e una gerarchia di regole uniche e universali, costituisce per Lotman un’astrazione necessaria perlopiù ai fini espositivi. Così precisa lo studioso:
Ad un’analisi più dettagliata non è difficile accorgersi che la cultura di ogni collettività si presenta come un insieme di lingue e che ciascuno dei suoi membri funziona come una sorta di “poliglotta”. […] Dunque la cultura è un fascio di sistemi semiotici (lingue) formatisi storicamente, che può assumere la forma di un’unica gerarchia (sopralingua) o quella di una simbiosi di sistemi autonomi.48
Il modello testuale, per quanto estremamente efficace sul piano descrittivo, presenta pertanto alcuni limiti sostanziali. Caratteristiche essenziali di un testo sono infatti la compiutezza, la finitezza e di conseguenza la capacità di conferire ordine e senso ad ogni singola porzione di realtà definendone dinamiche, relazioni e orientamenti interni. Peculiarità queste che apparentemente confliggono con il
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Jurij Lotman, Boris Uspenskij, Tipologia della cultura, a cura di Remo Faccani e Marzio Marzaduri, Bompiani, Milano 197, pp. 28-30 e 39- 41.
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dinamismo intrinseco proprio delle componenti semiotiche della cultura la quale può essere tutt’al più definita come un testo “vivente” composito, eterogeneo e stratificato oltre che “aperto” e in continua evoluzione. Ma la principale differenza tra testo e cultura risiede per Lotman nel fatto che quest’ultima non ingloba la totalità dei comportamenti ovvero dei testi possibili, ma solo una porzione di essi definita per contrasto non solo con la natura ma anche con la non-cultura ossia con un testo o un campo semantico “altro” che funzionalmente le appartiene ma non ne adempie le regole poiché dotato di propri codici differenti. La cultura, in altre parole, non è in grado di spiegare l’esistente nel suo complesso poiché per sua stessa natura presuppone la presenza di un secondo termine, di un punto di vista esterno o di una “possibilità” errata necessaria a circoscrivere il proprio spazio semiotico di riferimento. Cultura e non-cultura, testo e non-testo, spazio interno ed esterno, intrattengono rapporti complessi che vanno dall’isomorfismo all’antitesi, tuttavia l’aspetto essenziale per Lotman è la natura dialogica della loro relazione che consente a entrambi di sussistere in un regime di costante e reciproca interdipendenza. Di conseguenza benché in linea generale la si possa rappresentare come un insieme di testi in realtà, precisa lo studioso, per il ricercatore sarebbe più corretto “parlare della cultura in quanto meccanismo che crea un insieme di testi e parlare dei testi in quanto realizzazione della cultura”49.
La metafora del testo si rivela a questo punto centrale non tanto nel definire la cultura come oggetto d’indagine quanto nel descriverne l’attività fondamentale. In questa prospettiva il processo di “culturalizzazione” viene interpretato in termini di “testualizzazione” della realtà da parte della cultura che in questo modo
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produce e riproduce continuamente se stessa. In altre parole “culturalizzare”, nell’ottica lotmaniana, assume essenzialmente il significato di conferire le strutture della cultura al mondo ossia trasformare quest’ultimo in un testo. Ciò consente due tipi di approcci contrapposti: il primo parte dal presupposto che il mondo sia di per sé un testo e che dunque sia depositario di un informazione, di un messaggio dotato di senso. In tal caso afferma Lotman l’appropriazione culturale della realtà consisterà nel decifrare tale messaggio e tradurlo nella lingua propria della cultura di riferimento. Viceversa nel secondo tipo di approccio il mondo non viene percepito come un testo perché considerato assolutamente privo di ordine e significato. È questo, secondo Lotman, l’approccio alla base delle concezioni di appropriazione culturale fondate sull’opposizione “barbaro/civile” dove culturalizzare assume prevalentemente il significato di introdurre le strutture della civiltà nel mondo entropico e insensato della barbarie. In tal caso il concetto di traduzione esprimerebbe l’idea di una trasposizione dall’esistente al non esistente o nelle parole di Lotman del “mutamento di un non-testo in un testo”50.
La cultura non costituisce dunque un testo in senso letterale ma molti suoi fenomeni e manifestazioni possono essere analizzati e investigati in quanto tali da un punto di vista metodologico. È in tale prospettiva che la città assume una rilevanza centrale nella riflessione dello studioso come forma descrittiva tra le più rappresentative del meccanismo semiotico della cultura di cui è riproduzione isomorfa tanto nelle sue strutture e ripartizioni interne quanto nell’orientamento verso ciò che esula dal proprio ambito di riferimento, lo spazio non urbano o non testuale.
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La natura testuale della città sarebbe data per Lotman primariamente dal suo carattere costruito e artificiale o in altre parole del suo essere un prodotto culturale. La spazialità urbana afferma infatti lo studioso “reca in sé, fissati in segni sociali, informazioni su molteplici aspetti della vita umana: è cioè un testo nella stessa misura di una qualsiasi struttura prodotta”51. Lo studioso conferisce tuttavia alla città un duplice statuto come oggetto della produzione culturale ma anche e soprattutto come un sistema semiotico attivo capace a sua volta di generare cultura e dunque di produrre sotto-testi culturali. Ciò accade in virtù di due caratteristiche fondamentali della città-testo: plurilinguismo e pancronia. Scrive infatti Lotman:
La città come complesso meccanismo semiotico, generatore di cultura, può svolgere questa funzione soltanto perché si presenta come un contenitore di testi e di codici che si sono formati in modo diverso, sono eterogenei, appartengono a livelli diversi e fanno uso di diversi linguaggi. Proprio il poliglottismo semiotico, che in linea di principio caratterizza ogni città, la rende campo di conflitti semiotici diversi, impossibili in altre condizioni. Riunendo insieme codici e testi nazionali, sociali, stilistici diversi, la città realizza vari ibridi, ricodificazioni, traduzioni semiotiche, che la trasformano in un potente generatore di nuove informazioni.52
Requisito indispensabile perché la città, al pari della cultura, si configuri come un sistema semiotico attivo è altresì la presenza di storia. La cultura, così come la spazialità urbana, non comprende infatti solo una specifica combinazione contingente di sistemi semiotici ma include anche la totalità dei messaggi e dunque dei testi precedentemente elaborati. Lotman intende d’altronde la memoria come sinonimo di cultura definendo quest’ultima come la “memoria non ereditaria della collettività”. Lo stesso meccanismo semiotico della cultura, il suo
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Ivi, p. 33.
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J. Lotman, La semiosfera, L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, trad. it. e a cura di Simonetta Salvestroni, Marsilio, Venezia 1985, p. 232.
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costante lavoro di “testualizzazione” e “traduzione” del mondo è finalizzato, in tale prospettiva, primariamente alla conservazione e alla trasmissione dell’informazione delle collettività umane. Lo studioso è molto chiaro a riguardo laddove afferma:
La traduzione dei medesimi testi in altri sistemi semiotici, l’assimilazione di testi diversi, lo spostamento dei confini fra i testi che non appartengono alla cultura e quelli che si trovano oltre i suoi limiti, costituiscono il meccanismo d’appropriazione culturale della realtà. Tradurre un certo settore della realtà in una delle lingue della cultura, trasformarlo in un testo, cioè in un’informazione codificata in un certo modo, introdurre questa informazione nella memoria collettiva: ecco la sfera dell’attività culturale quotidiana. Solo ciò che è stato tradotto in un sistema di segni può diventare patrimonio della memoria. La storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi. L’origine della storia (e, prima ancora del mito) come un determinato tipo di coscienza è una forma di memoria collettiva.53
È interessante notare come il criterio della selezione, in base al quale solo certi eventi vengono tradotti in elementi del testo culturale escludendo e tralasciando altri che vengono dimenticati e dichiarati inesistenti perché semanticamente incompatibili, costituisca per Lotman il principio fondante l’organizzazione ma anche la rigenerazione della memoria collettiva. Benché apparentemente affini, lo studioso distingue tuttavia opportunamente tra la dimenticanza come fattore positivo e necessario alla riproduzione della memoria culturale, e l’oblio cosciente o forzato inteso invece come strumento finalizzato alla distruzione del patrimonio mnestico. Mentre nel primo caso tutto ciò che esula dai confini della cultura assume il carattere di un “non fatto” o di un “non testo”, ossia di un elemento non dotato di particolare significato ed è solo per questa ragione che non viene incluso, nel secondo l’esclusione è orientata invece verso l’annullamento e la cancellazione di quanto viene percepito come antitetico e ostile, caricato cioè di
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un valore semantico essenzialmente negativo. A verificarsi inoltre in quest’ultimo caso è, nelle parole di Lotman, “una scissione della cultura in quanto persona collettiva unitaria che possiede una continuità di autocoscienza e di accumulazione dell’esperienza”54.
Il rapporto con l’esperienza storica precedente è determinante nel rigenerare continuamente l’essenziale conflittualità semiotica dello spazio urbano, che può così configurarsi e agire come un potente meccanismo culturale produttore di senso, di codici e di testi. Alla base dei conflitti semiotici che animano la spazialità urbana spiega infatti Lotman:
[…] non c’è solo la presenza sincronica di formazioni semiotiche diverse, ma anche la diacronia. Le costruzioni architettoniche, i riti e le cerimonie cittadine, il piano stesso della città, i nomi delle strade e migliaia di altri relitti di epoche passate agiscono come programmi codificati, che rigenerano di continuo i testi del passato storico. La città è un meccanismo che riporta di nuovo in vita di continuo il passato, il quale ha la possibilità di cambiarsi col presente come se passato e presente fossero su un piano sincronico. In questo senso la città, come la cultura, è un meccanismo che si contrappone al tempo.55
Questa temporalità “pancronica”, che è per lo studioso aspetto semiotico peculiare dello spazio urbano, se da un lato rimanda all’immagine statica della città come immenso archivio mnestico, come testo complesso e stratificato che origina dalla sedimentazione di memorie ed epoche storiche differenti, dall’altro possiede un intrinseco dinamismo che è d’altronde funzionale a preservare e trasmettere l’unità della memoria stessa. La città non si limita infatti a contenere i testi ereditati dall’esperienza passata ma li rielabora, li riattualizza costantemente, rendendoli così perennemente disponibili nel presente. Si viene così a riprodurre, nel campo semiotico urbano, quella tensione reciproca tra necessità di conservazione e insieme di continuo autorinnovamento che è nella prospettiva
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Ivi, pp. 47-48.
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lotmaniana uno dei meccanismi fondamentali del lavoro della cultura. In tale prospettiva la questione della longevità assume naturalmente grande importanza definendo il problema specifico a cui il sistema semiotico della cultura, inteso come sistema memorizzante, deve far fronte. È un problema che si manifesta sotto una duplice forma poiché riguarda, in maniera disgiunta, sia i testi e che i codici della memoria collettiva. I due aspetti non si trovano necessariamente in una relazione di corrispondenza diretta benché, puntualizzi Lotman, la percezione dell’esistenza di una data cultura coincida con la continuità della propria memoria. Esistono tuttavia casi particolari in cui elementi di un vecchia cultura, superata o data per estinta, possano sopravvivere sotto forma di testi o di frammenti di testi il cui codice è andato smarrito ma che tuttavia continuano ad alimentare il dispositivo semiotico della città56.
Sebbene un po’ tutta la produzione teorica dello studioso sia a diverso titolo costellata di riferimenti alla spazialità urbana e alla sua complessa semioticità sono due le sedi in cu il tema viene esplicitamente affrontato attraverso il caso esemplare di S. Pietroburgo. Mi riferisco a Il concetto di ‘Mosca Terza Roma’ nell’ideologia di Pietro I57, scritto insieme a Boris Uspenskij nel 1982 e a Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi della semiotica della città58 risalente invece al 1984. Entrambi i saggi prendono in esame il peculiare statuto semiotico che Lotman riconosce alla città attribuendole “un posto particolare nel sistema dei simboli elaborati nella storia della cultura”59. Lotman distingue dunque l’indagine
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J. Lotman, B. Uspenkij, Tipologia della cultura, cit., pp. 44-45.
57
Jurij Lotman, Boris Uspenskij, “Il concetto di ‘Mosca Terza Roma’ nell’ideologia di Pietro I”,
Europa Orientalis, n. 5, 1986, pp. 481-494. 58
J. Lotman, La semiosfera, trad. it. e a cura di Simonetta Salvestroni, Marsilio, Venezia 1985, pp. 225-243.
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della semiotica urbana in due sfere fondamentali, “la città come spazio” e “la città come nome”, ciascuna delle quali viene separatamente esaminata nei due lavori. Alla simbologia della “città come nome” è dedicato il saggio sul concetto di Mosca “Terza Roma” quale nucleo fondante l’ideologia di Pietro I il Grande (1672-1725) nel suo rompere i legami con la tradizione medioevale per riallacciarsi a quella imperiale romana, eletta a norma e modello di riferimento politico della nuova potenza statale russa. Nel concetto dunque la cesura con la memoria storica più recente si accompagna al ricorso all’antichità come ideale epoca ancestrale, andando così a definire il nuovo orientamento culturale del potere petrino. Entrambi gli aspetti di questa ideologia – l’amnesia storico- culturale e l’appello a Roma – trovano espressione simbolica in diversi modi: il primo e il più evidente dei quali è rappresentato, secondo lo studioso, dall’adozione da parte dello zar dell’appellativo stesso di “grande” o di “padre della patria”, ma soprattutto dall’abbandono del titolo ufficiale di “car” in luogo di “imperator”60. Lotman individua inoltre inaspettate quanto importanti corrispondenze semiotiche del concetto di Mosca “terza Roma” esaminando anche alcuni aspetti legati alla costruzione di Pietroburgo, la nuova capitale imperiale.
Già ad un primo tentativo di definizione, seppur assai sintetica, s’intravede la possibile rilevanza della riflessione lotmaniana sulla città come espressione simbolica di uno specifico discorso di potere, in una prospettiva comparata con il caso il turco. Evidenti sono infatti le possibili analogie tra i tratti fondamentali
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Lotman nota come i due appellativi benché in un certo senso sinonimi perché accomunati dalla medesima derivazione etimologica dal latino “cesar”, venissero percepiti come antitetici a dimostrazione di come il conflitto tra le diverse coscienze culturali dell’epoca avvenisse primariamente in ambito linguistico. J.Lotman, B. Uspenskij, “Il concetto di ‘Mosca Terza Roma’…”, cit., pp. 482-483.
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dell’ideologia petrina con quella kemalista, a cominciare dal controverso rapporto tra l’esperienza storica precedente e la tradizione culturale ottomana, riflesso sul piano della toponomastica urbana nel passaggio da Costantinopoli a Istanbul, sino alla necessità di edificare Ankara, la nuova capitale costruita a immagine e somiglianza del mutato orientamento culturale su cui fondare il potere statale, moderno, laico e nazionalista. La lettura semiotica di S. Pietroburgo che Lotman porta avanti attraverso il concetto di Mosca “terza Roma”, peraltro elaborata in diretta relazione con Costantinopoli/Bisanzio, se applicata al caso di Istanbul suggerisce infatti importanti considerazioni. Il complesso statuto semiotico della città emerge in tutto il suo poliglottismo se si pensa all’incredibile varietà di nomi, epiteti e appellativi con cui storicamente ci si è riferiti alla capitale ottomana61. Il nodo cruciale della riflessione è tuttavia rappresentato, a mio avviso, dalla dicotomia Kostantiniyye/Istanbul laddove se con il primo termine ci si riferisce in maniera controversa alla capitale ottomana, multiculturale e cosmopolita, il secondo invece sta ad indicare, contestualmente alla fondazione della Repubblica, la città per molti versi simbolo delle contraddizioni e dell’intimo paradosso sotteso alla costruzione della nuova identità nazionale. Un’identità questa che si definiva moderna e secolare, nella misura in cui era fortemente improntata ai modelli culturali europei, percepiti come sinonimo della modernità, pur attestando la propria specificità e autenticità etnico-culturale nella presunta omogeneità della sua essenza turco-musulmana62.
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Si veda in proposito Halil İnalcık, “Istanbul”, EI2, pp. 224-248 e Philipp Mansel,
Constantinople: City of the World’s Desire 1453-1924, John Murray, Londra 1995, p. 17. 62
Il singolare approccio dell’ideologia kemalista alla matrice esogena del processo di modernizzazione viene acutamente definita da Orhan Koçak in termini di “occidentalizzazione malgrado l’Occidente”. Si veda Orhan Koçak, “‘Westernisation against the West’: Cultural Politics in the Early Turkish Republic” in Celia Kerslake, Kerem Öktem, Philip Robins (a cura di),
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Il tratto a mio avviso più interessante dell’indagine di Lotman, oltre a dimostrare il meccanismo semiotico-strutturale della città nella riproduzione di particolari nonché contrapposte visioni del mondo e concezioni di potere, risiede soprattutto nel metodo. Lo studioso utilizza infatti l’ideologia petrina, nella sua variante della dottrina di “Mosca terza Roma”, come sorta di codice o testo relativo mediante il quale decifrare e interpretare la complessa simbologia con cui si dispiega, per usare l’espressione lotmaniana, “l’esistenza ideologica” di Pietroburgo63. D’altra parte, seppur limitandosi solo a qualche puntuale considerazione in merito, Lotman pone altresì in luce come nello statuto semiotico della città si rifletta non solo l’orientamento culturale dominante di una determinata epoca storica ma soprattutto lo scontro, ancora una volta tutto ideologico, tra le differenti coscienze o soggettività che compongono il quadro culturale complessivo della medesima epoca. Uno scontro in cui la questione del rapporto con il retaggio storico e della sua interpretazione sono di cruciale importanza e che assume connotati primariamente linguistici, manifestandosi in maniera evidente nella denominazione della città ma anche nella ripartizione interna dello spazio urbano.
All’analisi in senso semiotico della “città come spazio” Lotman dedica invece il saggio del 1984 sulla simbologia di s. Pietroburgo e gli aspetti problematici legati alla sua elaborazione. Lo spazio urbano viene qui concepito essenzialmente nel suo duplice statuto semiotico come spazio isomorfo alla cultura di cui è il prodotto ma anche come meccanismo generatore di cultura. Anche qui il criterio metodologico si fonda sulla concezione della città come testo interpretabile alla
Turkey’s Engagement with Modernity Conflict and Change in the Twentieth Century, Palgrave
Macmillian, Londra 2010, pp. 305-322.
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luce del codice culturale di cui è il prodotto e che lo spazio urbano riproduce a attualizza a sua volta sul piano strutturale,oltre che nelle forme e nelle potenzialità espressive dei propri linguaggi urbanistico-architettonici, nel suo orientamento verso lo spazio fisico e culturale esterno, non urbano.
Partendo da queste premesse è possibile approfondire la questione della simbologia dello spazio di Costantinopoli/Istanbul sia nel suo orientamento con la dimensione storica che nelle sue divisioni interne. Se la capitale di epoca ottomana incarnava a tutti gli effetti il modello della città centrale, sede del potere