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CAPITOLO III: La seduzione del corpo malato nel secondo Ottocento: Fosca

III.3 La seduzione del corpo malato: Fosca di Igino Ugo Tarchett

III.3.4 Analisi

III.3.4.1 Clara: l’amore tenero e rassicurante

Allontanatosi dall’odioso paese natìo, Giorgio si reca a Milano quasi inconsciamente («Non so dire come ne partii per venire a Milano. Non so spiegarmi questa risoluzione, perché non aveva più alcuna forza di volontà quando vi venni. […] Vi era venuto, direi quasi, inconsciamente»),316 senza progetti «né idee, né

speranze di giorni migliori», dove incontra Clara, una giovane sposa «rassegnatamente delusa dal matrimonio»,317 bella e fiorente, che gli ricorda sua madre e che susciterà la passione d’amore «più vera e più grande» della sua vita. In un primo momento Clara incarna «l’aspetto primaverile e salutifero della femminilità»,318 ma col tempo finisce per aggravare le sensazioni angosciose e

conseguenza e insieme punto di avvio dell’esperienza erotica indica chiaramente che fine ed inizio, in quanto categorie dell’immaginario tarchettiano, sono uno».

316 F: cap. IV, pp. 249-250.

317 E. GIOANOLA, Clara e Fosca: Eros e Thanatos nell’ultimo romanzo di Tarchetti, in AA.VV, Iginio Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, Atti del Convegno di San salvatore Monferrato 1/3 ottobre

1976, a cura della locale Amministrazione comunale, p. 154.

318 A. M. MANGINI, La voluttà crudele. Fantastico e malinconia nell’opera di Iginio Ugo Tarchetti,

Carocci editore, 2000, Roma, p. 150. Similitudine con l’Ortis di Foscolo: se Clara è l’espressione per eccellenza delle pulsioni vitali, per Jacopo Teresa appare «divina», un miraggio consolatorio della bellezza, ma soprattutto una «sorgente di vita»: «Vicino a lei io sono sì pieno di vita che appena sento di vivere. Così quand’io mi desto dopo un pacifico sonno, se il raggio del sole mi riflette su gli occhi, la mia vista si abbaglia e si perde in un torrente di luce». (U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo

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melanconiche del protagonista, alimentando il sorgere di un nuovo struggimento che sembra evocare atmosfere allucinate e mortifere:

Alla notte fui assalito dalla febbre; ebbi strane visioni, feci sogni puerili: vedeva delle farfalle e degli angeli, dei paesi che non aveva mai visto; mia madre, più giovane di molti anni, piangeva vicino al mio capezzale, ed era vestita di un abito grigio che io l’aveva veduta portare da bambino. Allo indomani era malato (F: cap. IV, p. 255).

La condizione onirica rispecchia, come ben suggerisce Gioanola, il desiderio di avere accanto a sé una figura soccorrevole e benigna che gli ricordi la madre, sintomo di una evidente regressione all’età puerile, al bisogno di essere confortato da una donna che Giorgio cerca e trova in Clara,319 la cui tenera arrendevolezza lo spinge a riconoscere tratti tipici dell’attaccamento materno, tanto agognato e riscoperto in lei. L’identificazione Clara-madre, resa ulteriormente esplicita anche da un’altra descrizione («Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. Scopersi più tardi il segreto di quel fascino immediato che aveva esercitato su di me. Essa rassomigliava a mia madre»)320 spiega le ragioni del rapporto Clara-Giorgio che sembra confinare, in un primo momento, ad un aspetto prevalentemente affettivo, ma in «ambito edipico l’affetto della madre è originariamente ed essenzialmente erotico»,321 per cui il nostalgico ritorno al grembo materno non indica semplicemente

di Fosca: «Oh dolce creatura! Se tu mi porgessi quella tazza che l’età e gli affanni hanno allontanato col tempo sembra forse per sempre dalle mie labbra, come potrei rifiorire anch’io, e sorridere ancora alla vita!».

319 Clara incarna la vitalità, l’aspetto primaverile della femminilità, della pienezza, della salute: «aveva

indole forte, giusta, severa; vi era nulla di fatuo, nulla di fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai più affettuosa, più dolce, più arrendevole, più accarezzevole, più eminentemente donna» (F: cap. V, p. 256). La sua presenza segna il passaggio dall’inverno più cupo alla stagione più luminosa dell’anno, la primavera - in cui germogliano i fiori e le passioni del cuore, in cui la terra provata dalle durezze dei mesi invernali rifiorisce, così come rinasce e rinverdisce l’anima - legandola metaforicamente all’immagine dei fiori: «La rividi, il bel tempo era ritornato, aprile era finito, e maggio fioriva. Risentii tutte le febbri della primavera, quel fuoco ardente che il sole di maggio trasfonde nelle fibre, nelle vene, nel cuore. I fiori sbocciavano, gli uccelli riprendevano le loro canzoni, le fanciulle – fiori umani – scherzavano lungo le aiuole; dappertutto l’inno all’amore era cantato» (F: cap. IV, p. 254).

320 F: cap. V, p. 256.

321 E. GIOANOLA, Clara e Fosca: Eros e Thanatos nell’ultimo romanzo di Tarchetti, in AA.VV, Iginio Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, Atti del Convegno di San salvatore Monferrato 1/3 ottobre

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un fenomeno regressivo, ma è anche sintomatico di una condizione che rasenta l’incesto: il mancato superamento edipico genera complessi che inevitabilmente si riflettono sulla relazione che Giorgio ha con Clara, e sono l’effetto di quel senso di colpa maturato una volta raggiunto il pieno appagamento erotico e sessuale: «la pietà l’aveva condotta all’amore; fu l’amore che la condusse alla colpa».322 Il riflesso della

colpa di Giorgio – che alimenta il bisogno di autopunizione – è presente sul volto

sfiorito di Clara a cui corrisponde il rifiorire del suo amante, ma è anche il volto

della madre deflorata che sfiorisce per nutrire il figlio. Il senso di colpa inibisce l’Eros che diventa insostenibile perché incestuoso; Eros cede il passo a Thanatos che prende il sopravvento negando il completo raggiungimento di quella dimensione idilliaca nota ai due amanti - come già al Filippo di Una nobile follia - abbandonati «con una specie di dolce disperanza» alla passione che, nella malattia come nella morte, incontra il suo fatale ed ineludibile epilogo:

Eravamo troppo felici, o Clara, non era possibile che quello stato durasse; la nostra felicità stessa ci spaventava, sentivamo qualcosa nel cuore che ci diceva che essa doveva finire. Non ti atterrire di questa parola “finire,” no, la nostra felicità non è finita, tu lo sai, tu senti al pari di me che un amore come il nostro non può finire che colla morte, ma saremo felici in altro modo, con altra misura, con altro prezzo (F.

1976, a cura della locale Amministrazione comunale, p. 156. Per Freud, l’incursione dell’evento soprannaturale, definito Unheimlich, “sinistro”, genera ansia ed angoscia nel protagonista. L’Unheimliche o “perturbante”, corrisponde al ritorno del rimosso: «È detto Unheimlich tutto ciò che potrebbe restare [...] segreto, nascosto, e che è invece affiorato» (F.W.J. Schelling, Filosofia della

mitologia, 1846, a cura di L. Procesi, Milano, Mursia, 1990, p. 474.), ovvero l’insieme di ansie, eventi

perturbanti che l’Io racchiude nell’inconscio. Fantasmi, angeli e demoni non sono altro che proiezioni e rappresentazioni fantasmagoriche di paure e desideri che il soggetto non può riconoscere in se stesso, pertanto le colloca fuori di sé. Freud vede nei fenomeni onirici la «via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica, ritenendo che i sogni siano «l’appagamento di un desiderio inconscio rimosso vissuto nella scena onirica con la stessa parvenza di realtà con cui sono vissute le allucinazioni isteriche» (S. FREUD, L’Interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri editore, 1973, Torino). Egli distingue, all’interno della materia onirica, un doppio contenuto: un contenuto

manifesto (il racconto della scena onirica così come viene ricordata dal soggetto) e un contenuto latente (il significato del sogno, il desiderio represso che lo origina e che dà luogo alla scena onirica).

Se i sogni richiamano i desideri, non lo fanno in forma diretta perché, sottolinea Freud, si tratta di desideri inaccettabili dal soggetto, quindi censurati. Il contenuto manifesto dei sogni non è altro che la forma mascherata in cui si presentano i desideri latenti. Spesso alla base del rimosso ci sono desideri negati come quello di possedere la propria madre o desiderio edipico. L’impossibilità di riversare il suo amore su un soggetto diverso da quello materno, condurrà Giorgio alla follia.

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cap. VIII, p. 262). […] Voleva dirti che io morrei perdendoti. Lo sento in me, ne ho la certezza profonda, fredda, calma, incrollabile; e ciò forma la mia gioia: io sono dunque ben certo di non perderti che morendo. Io ti amo, o Clara, io t’amo fino all’adorazione, fino alla follia, fino a quel punto estremo delle nostre facoltà oltre il quale vi sarebbe la morte, la cessazione, il nulla (ivi, p. 263-264). […] Correre lungo quei viali, nascondervisi dietro i carpini; chiamarsi, inseguirsi, sedersi su quelle viole; oppure passeggiarvi a braccio, vicini vicini, colle teste che si toccano, colle mani intrecciate; e parlare di cose malinconiche, di ammalarsi, di morire… «prima io; no, prima io… assieme…» (cap. XVI, p. 289).

Entro questo circolo emotivo, l’inscindibilità del nesso amore-morte, perno dell’opera tarchettiana, si confonde nel vortice del desiderio, dell’Eros melanconico, mostrando tutti i limiti che la relazione tra i due amanti comporta. Di fronte all’inevitabile allontanamento di Giorgio, crolla, inesorabile, il loro Eden; l’idillio si rompe, confermando la caducità di quel paradiso costruito su una parvenza di eternità e riconsegna il personaggio alla sua insanabile malinconia: «Finito! L’amore muore. Ecco il grido terribile che si innalza da quel sepolcro nel quale ho composto per sempre le ceneri del mio passato».323