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CAPITOLO III: La seduzione del corpo malato nel secondo Ottocento: Fosca

III.3 La seduzione del corpo malato: Fosca di Igino Ugo Tarchett

III.3.3 Trama

L’arco esterno del romanzo - la nascita del quale sembra determinarsi dall’esperienza di un duplice amore,300 realmente vissuto da Tarchetti nel 1865 -

capitolo mancante; egli delirando balbettò poche parole, poi si voltò sul fianco e cadde in sonno profondo. Per fortuna avevo corretto ogni giorno le bozze della Fosca […]; mi accinsi con coraggio all’opera che doveva essere pronta per il domani, e nella medesima notte buttai giù quelle dieci pagine […]. Quel capitolo famoso è il XLVIII», mentre in La mia giornata. Care Ombre (Torino, STEN, 1913, pp. 27-29), il Farina afferma di essersi dedicato alla stesura del capitolo dopo la morte di Tarchetti, specificando che «Quel capitolo era, nella mente di Ugo, il solo pretesto a scrivere la Fosca; doveva essere la scena dolorosa, selvaggia, d’una notte intera passata con la protagonista isterica e brutta a fingere l’amore, e a costringere la repugnanza a non ribellarsi, ad accettare il delirio dei sensi e a corrispondervi, ubbriaco di pena lui, essa sola pazza di amore»; nel precedente volume la trama è ricordata come «la lirica pazza di una notte di falso amore fra la protagonista brutta e isterica e il maschio bello e isterico anch’esso […]».

300 La vicenda amorosa con Carlotta Ponti, a cui si può risalire grazie al recupero dei carteggi (I. U.

TARCHETTI, Lettere a Carlotta Ponti, in E. Ghidetti, Iginio Ugo Tarchetti. Tutte le opere, Cappelli, Bologna 1967, 2 voll.: vol. 2) con Tarchetti, appare molto vicina a quella che il protagonista del romanzo vive con Clara, a tal punto che si pensò ad una reale e coerente trasfigurazione narrativa di quell’episodio. Francesco Giarelli ricorda come l’incontro con il personaggio di Clara fosse avvenuto nelle medesime circostanze descritte dal capitolo IV: «Questo scorcio del 1875 lasciandomi un po' di sosta quanto a ricordi di cronaca – mi si conceda aprir qui la mia parentesi, e, dal momento che i nomi di Tarchetti, di Pinchetti e di Uberti mi sono caduti dalla penna – riassumere secondo le mie personali impressioni, qualche linea fisiologica. […] Iginio Ugo Tarchetti di S. Salvatore Monferrato, ne' suoi primi tempi era addetto agli uffici del commissariato militare. Ma non per questo egli bruciava meno per la fiamma della letteratura. […] Ciò che havvi di caratteristico nella sua vita è la parte sentimentale del suo individuo; la molteplicità de' suoi amori, quasi tutti rinchiusi in una cornice trascendentale ed accompagnati dal fatto costante che egli da' suoi amori trasse i suoi capolavori. L’affetto per la bellissima Clara, una sposa milanese che aveva a propria disposizione la onnipotenza del fascino, fa capolino nel racconto Riccardo Waitzen, e s’impersona poi integralmente nel personaggio appunto di Clara che così sovranamente campeggia in Fosca. Nulla di più strano dell’inizio di quella passione. Iginio Tarchetti, recandosi a visitare il suo Camillo, sbaglia d’uscio. Gli viene ad aprire una formosissima Clara. Vedersi e sprigionarsi fra i due la estemporanea scintilla della simpatia, fu tutt’uno. Tarchetti, fatto conscio dell’errore, geme una scusa. L’altra arrossisce come una pesca primaticcia, e confusa chiude rapidamente l’uscio alle spalle del visitatore. Maledizione! Tarchetti fa per andarsene. Non può. Il lembo del suo abito rimane serrato nella fessura della porta. Suona daccapo. Ricompare la bella, e Igino è finalmente liberato da quella strettoia. Il giorno dopo lavora la posta. Lui vuota il suo cuore. Essa risponde. Si amano. Se lo scrivono. Se lo ripetono a voce nei secreti e fidati colloqui. Escono insieme. Erravano nelle campagne suburbane fuori porta Magenta. Si fermavano ad un ponticello sul Seveso. Passavano ore deliziose dentro un baraccone disabitato laggiù in un’ortaglia solinga. Si immolavano – soltanto sensibili alla loro passione – nell’acqua che spesso rendeva difficile il loro passaggio attraverso i prati a marcita. Mangiavano per vezzo ed a gara gli steli dolcissimi d’una certa erba da loro scoperta e trovata una vera ambrosia. Si facevano rincorrere dai monelli del Borgo che loro gridavano dietro: I moros… La minèe…! Portavano a casa delle nidiate d’uccellini. Tubavano come tortore. Eran diventati inseparabili, come gli ocryzon dell’America meridionale. Tutta questa delizia durò sette mesi. Il 9 novembre del 1865 Iginio Ugo Tarchetti, che godeva la sua aspettativa, accarezzando Clara, e nell’assenza di questa il candido gattino che essa gli recava nel manicotto, affinché gli «parlasse» di lei quando era lontana – fu richiamato in servizio con destinazione a Parma. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore – è il vecchio proverbio che ha sempre ragione. Egli si intiepidì. Una lettera di lei - poi riprodotta mirabilmente ed artisticissimamente in Fosca – spense la fiammella ancora vagante. Ma – vedi inconseguenze del

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narra la storia di un giovane ufficiale, Giorgio, che soggiace ripugnante all’attrazione fatale di una donna isterica e deforme, «incadaverita e consunta» da cui però non riesce a sottrarsi («quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito»), sebbene riconosca la natura patologica e morbosa di quel legame. Costretto a lasciare Milano per motivi di servizio e l’amata Clara, giunge a Parma, cittadina di provincia «angusta e monotona» dove conosce Fosca, la cugina del colonnello comandante il suo reggimento. Dinanzi a lui si erge un rudere, il cui scheletro si sottrae all’osservanza

cuore! – Tarchetti restò come fulminato, come disfatto da quel brusco, incredibile abbandono. Ammalò. Subì una battaglia lunga, indescrivibile. Quando si levò non era più lui. […] Ed eccolo a Parma. Lui non vuol far sapere nel celebre romanzo che si trattava di Parma, e dice d’esser da Milano partito per «un paese di Pelli Rosse». Ma poi si tradisce descrivendo con meravigliosa ed irresistibile tavolozza il giardino pubblico di quella città elegante, gentile ed indimenticabile per quanti vi hanno vissuto ed amato» (F. GIARELLI, Vent’anni di giornalismo, Tip. Cairo, Codogno, 1896, p. 210 e ss.). A Parma lo scrittore incontra una certa Angiolina (o Carolina) che sarà la Fosca dell’omonimo romanzo: «È una congiunta del capo di casa. È Fosca, cioè a dire Carolina Co… una giovane sarda che si prese per l’ospite di una passione forsennata e tremenda. Dapprincipio egli non se ne accorse. Era ancora protetto dall’angoscia profonda per la rottura con la bellissima Clara. Poi, quando s’avvide della triste realtà, quando malgrado le sue riluttanze disperate, capì che aveva inspirato un affetto così pericoloso ad una povera epilettica; quando fu travolto nell’abisso delle sue tenerezze e de' suoi furori di donna dai nervi disordinati, e già assalita da una spietata malattia […] Ugo sentì - nel tumultuario combattimento interno della pietà coll’orrore – montargli la disperazione dal cuore al cervello; e mentre egli s’ostinava a fare l’elemosina d’un affetto fraterno alla sventurata fanciulla, questa gli imponeva la sua furibonda passione di innamorata pronta a tutto fuorché a perderlo. Essa lo afferrava per le mani. Essa lo inondava colle sue trecce colore dell’ebano. Essa esercitava sopra di lui la tremenda attrattiva del sepolcro. Quella moribonda s’era gettata su lui vivo e lo stringeva e lo soffocava col suo sentore di tomba. Essa – ormai scheletro in abito di seta, colle apofisi che le uscivano dal corsetto – non poteva rassegnarsi all’idea che egli avesse da sopravviverle». E così fu. Quando lasciò Parma era troppo tardi: «già nel sangue gli serpeggiava la morte. […] La conclusione è che la signorina Angiolina Co…, è ancora viva. […] Fosca ha resistito. Tutti gli anni al custode del cimitero monumentale di Milano – dove dorme nella pace eterna Iginio Ugo Tarchetti – perviene dalla Sardegna una splendida corona di «immortali» freschi. È Fosca che l’invia per lui». Nel corso di un altro articolo di Giannelli, Tarchetti e il suo tempo (comparso nella «Strenna italiana» del 1884) sono riportate alcune lettere indirizzate ad un amico, tra cui una particolarmente significativa poiché risale alla crisi della donna avvenuta alla vista del funerale, particolare che torna nel capitolo XV del romanzo: Caro… Siamo alle solite. Io attendo con impazienza tue notizie e tu non mi scrivi. Lasciami questo acciecamento che il cielo mi invia per compassione, lasciamelo! Per altro lato soffro le torture dell’inferno. Appena giunto qui quella sera, trovai quella signora che mi attendeva a braccio del medico. Quell’infelice mi ama perdutamente, è impossibile dirti tutto; il medico mi disse che morrà al più tardi fra sei od otto mesi, ciò mi lacera l’anima, vorrei consolarla e non ho il coraggio, vorrei abbellire d’una misera e fuggevole felicità i suoi ultimi giorni, e v’ha la natura che mi respinge da lei. Ieri eravamo seduti discorrendo; passò sulla via un feretro, essa si portò le mani al viso e fuggì piangendo dirottamente. Presente il suo fine. Più tardi mi si avviticchiò al collo e mi disse, baciandomi convulsivamente: - Sì, perdona tutto prima di morire! Ho una terribile superstizione; parmi che costei mi attiri verso la tomba: parmi di vedere la morte favolosa con la falce e colla clessidra che venga ad uccidermi, a soffocarmi fra le sue spire gelate. Quando le sue labbra toccano le mie, sento il germe della etisia insinuarsi per tutte le mie fibre. Ah devo lasciare questo paese, devo lasciarlo! Scrivimi presto, subito. Il tuo povero Ugo.

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scrupolosa delle proporzioni, privandolo di quelle fattezze che mai sarebbero state espressione di equilibrio e perfezione. È un corpo deformato dalla malattia, inconcepibile e metaforico, che passa attraverso il vaglio dello sguardo maschile, uno sguardo carico d’incredulità e di sgomento:

Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze – ché anzi erano in parte regolari – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, e folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente.301

Il ritratto del suo corpo informe, lacerato e deriso da una bruttezza che diventa sintomo della patologia isterica, strumento «del conformismo dell’autore»,302 ma che

non le appartiene per natura, esprime tutta l’ambiguità di cui si carica il personaggio: «Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la sua massima parte effetto della malattia, e che, da giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta».303

Fosca è un «mito»,304 la Gorgone travestita da essere reale, che fa della sua infermità una condizione del tutto normale («L’infermità in me è uno stato normale,

301 I. U. TARCHETTI, Fosca, XV, in Tutte le opere, vol. II, a cura di E. Ghidetti, Cappelli editore,

1967, p. 278. I passi tratti dal romanzo saranno indicati con la lettera «F» cui seguirà il capitolo di riferimento.

302 E. C. FUSARO, La nevrosi tra medicina e letteratura. Approccio epistemologico alle malattie nervose nella narrativa italiana (1865-1922), Edizioni Polistampa, Firenze, 2007, p. 220.

303 I. U. TARCHETTI, Fosca, XV, op. cit., p. 278.

304 Difatti Giorgio afferma: «Mi trovo di fronte a lei come di fronte ad un mito» (cap. XXVI). In

Tommaseo, mito è «nome introdotto recentemente nelle lingue europee, a significare le invenzioni mitologiche degli antichi»; ma significa anche «qualunque cosa della quale si parli come esistente, ma

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come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. […]. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità»);305 tutto questo in un corpo che esprime la dualità dei contrasti: l’esiguità del collo e la testa grossa, il pallore e il nero vivido dei capelli e degli occhi «nerissimi, grandi, velati»306 in cui si raccoglieva «tutta la sua vita», l’orribilità contenuta nel viso e la «beltà sorprendente» dello sguardo. Lo sguardo trattiene uno spirito ancora vivace, anzi vivissimo «delicato e romantico» (F: cap. XXVI, p. 313) che si contrappone all’esiguità della figura; un corpo ormai svilito, consunto, cadaverico che evoca inequivocabilmente l’immagine della morte: «L’ambiguità degli occhi traduce l’ambiguità semeiotica dell’intero corpo», suggerisce Fusaro, avvalorando il parallelismo tra il canale espressivo dell’anima - gli occhi - e l’involucro che la racchiude - il corpo. Il corpo è un corpo traditore perché, scrive Fusaro, «l’orrenda bruttezza non esprime la bellezza dell’anima», ma allo stesso tempo è anche «un corpo speculare, giacché la sua anima è anche nerissima - infatti la radice del suo male è l’iperestesia sessuale».307 La teratologica eroina di Fosca

che veramente non esista tale quale». Già in questa accezione il mito di Fosca non riguarda esclusivamente la sua persona e la sua malattia, ma ne rivela la potenzialità allusiva. Un’altra possibilità di interpretazione è da cercarsi, come sottolinea M. Guglielminetti, nell’urlo finale, «acuto, straziante, quale non aveva inteso mai uscire da petto umano» (cap. XLIX) in cui prorompe il protagonista dopo aver sparato al suo rivale, durante il duello finale. Continua Guglielminetti: «quest’urlo è della stessa origine e natura di quello che aveva annunziato, ad inizio del romanzo, la presenza di Fosca. Non c’è stato progresso, allora, nello svolgersi dei fatti, ma bensì compensazione». L’urlo di Giorgio è il segnale evidente che la malattia di Fosca si è «trasfusa» (cap. XLIX) in lui, morbo che dichiara di accettare quale «eredità del suo fallo»; queste parole riconducono allusivamente agli effetti del peccato originale, reinterpretato e riconfigurato in chiave tarchettiana. Ecco perché Fosca è stata definita, in precedenza, la figura “mito”, di un mito che fa di lei una sorta di Eva dei tempi moderni. La mortale tentazione diabolica, della quale è stata suadente ed incisiva portavoce, è da leggersi, infatti, sullo sfondo di una perdita della fede religiosa della quale Tarchetti ha dato segni frequenti» (M. GUGLIELMINETTI, Il sociale, l’umoristico, il fantastico ed altro nell’opera di Igino

Ugo Tarchetti, in AA.VV, Iginio Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, Atti del Convegno di San salvatore

Monferrato 1/3 ottobre 1976, a cura della locale Amministrazione comunale, p. 39).

305 I. U. TARCHETTI, Fosca, XV, op. cit., p. 279.

306 Il particolare dei capelli e degli occhi nerissimi sono un attributo costante della femme fatale nella

letteratura del secondo Ottocento.

307 E. C. FUSARO, La nevrosi tra medicina e letteratura. Approccio epistemologico alle malattie nervose nella narrativa italiana (1865-1922), Edizioni Polistampa, Firenze, 2007, p. 221.

L’iperestesia sessuale (o ipererotismo), spiega E. Sgreccia, consiste «nell’esaltazione morbosa sia del desiderio che della pratica sessuali. I fattori che connotano quest’anomalia psico-sessuale sono essenzialmente tre: l’esaltazione dell’istinto, l’incapacità di dominio, l’insaziabilità del desiderio anche dopo il soddisfacimento. Gli specialisti distinguono, inoltre, il vero ipererotismo - dipendente da una forte ossessione e da tensione psicogena -, dallo pseudoipererotismo, in cui la manifestazione

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appare come una figura dalla femminilità mortifera e dalla sessualità oscura ma anche esplosiva come le sue grida «acute e strazianti», emesse durante una crisi isterica, che introducono il personaggio prima dell’entrata in scena: «Un giorno, durante il pranzo, fui colpito da urla acute e strazianti che provenivano dalle stanze della signora. […] eccheggiarono sì fortemente e sì improvvisamente nella nostra camera, che io trasalii» (F: cap. XIII, p. 273).

Giorgio le si accosta incautamente senza prevedere il tragico epilogo a cui le circostanze, sommate all’insalubre affezione di quella donna, lo avrebbero condotto. Per Fosca nutre sentimenti opposti e contrastanti: la repulsione alimenta il desiderio del distacco, ma la pietà, congiunta ad un’oscura tensione verso la sofferenza, lo trattengono dal farlo. La violenta relazione che Fosca ha imposto al giovane, lo allontana ben presto dalla dimensione della realtà concreta e quotidiana, avviandolo verso la passività e l’ossessione del contagio; Giorgio si ammala progressivamente, quasi contaminato dal morbo di Fosca e, quando gli giunge una lettera di Clara e la comunicazione del proprio trasferimento, avverte che il suo destino sta per compiersi. Alla notizia della sua partenza, Fosca confessa apertamente la propria passione: «Oh Giorgio, non mi abbandonare, oh mio Giorgio! Mio adorato!» (F: cap. XLIV). Suo cugino, «fulminato da quella rivelazione», sentendosi tradito, decide di sfidarlo a duello. Straziato dall’abbandono di Clara, decisa a ritornare dal proprio marito, Giorgio trascorre la notte con Fosca, in un ultimo incontro, brutale e violento, percorso da una serrata lotta tra la «selvaggia voluttà» dell’Eros e sentimenti insanabili di amore e morte. Fosca muore dopo tre giorni e Giorgio, ormai solo, cade preda di quella «infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore […]; la malattia di Fosca si era trasfusa in me: io aveva conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore» (F: cap. XLIX, pp. 425-426).

di sfumata lussuria è una finzione connessa con l’isterismo e con l’abnorme desiderio di esaltazione dell’erotismo, anche in soggetti sessualmente frigidi» (E. SGRECCIA, Manuale di bioetica: aspetti

medico-sociali, vol. II, Vita e pensiero, 2002, Milano, p. 163). La necessità di amare e, soprattutto, di

essere amata, è all’origine della malattia di Fosca, che dimostra di esserne consapevole («Il bisogno di essere amata era il segreto di tutte le mie sofferenze, io lo comprendeva»), ma finisce per mutare in una tensione ossessiva e psicogena, facendo dell’amore l’imperativo della sua esistenza: «l’amore doveva essere il mezzo e lo scopo di tutta la mia esistenza» (cap. XXIX).

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