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IL CONTESTO SOCIALE E CULTURALE

3.2. CLIENTELA E COMMITTENZA

La produzione della bottega è naturalmente vincolata al mercato, il cui andamento è in relazione al più generale contesto economico di fi ne XV – inizi XVI secolo. Tuttavia la domanda di manufatti artistici non subisce mai un arresto totale neanche nei momenti di maggiore diffi coltà politico-economica in quanto la richiesta di arredi e oggetti con fi nalità liturgico-devozionali (retabli scultorei e pittorici, cortine, paliotti, arredi liturgici), che rappresenta la gran parte della produzione artistica di questi secoli, non conosce mai crisi, anzi talvolta si registra un incremento della produzione proprio nei momenti più sfavorevoli (si pensi all'adempimento di voti in occasione di epidemie e guerre). Ogni chiesa era infatti dotata di un retablo nell'altare maggiore e di altri negli altari secondari; vi erano inoltre crocifi ssi, veroniche, simulacri di santi, senza contare le suppellettili metalliche (generalmente in argento) funzionali allo svolgimento della liturgia (lampade, turiboli, navicelle portaincenso, portapace, ostensori, reliquiari ecc.)5. I retabli erano

generalmente commissionati dagli amministratori della chiesa o da chi aveva il patronato sulla cappella (o altare) cui erano destinati, così si ha il caso di polittici realizzati per conto delle comunità parrocchiali, dei capitoli metropolitani, di vescovi, ordini monastici, corporazioni di mestieri, confraternite religiose, istituzioni pubbliche (consiglieri della città) e singoli cittadini appartenenti ai ranghi dell'alta borghesia e della nobiltà feudale. La commissione di un retablo è frutto di una contrattazione di cui resta testimonianza nei capitols scritti da un

notaio e fi rmati dalle parti. L'importo pattuito risponde a determinati parametri controllati dal gremio e sottoposti a regolamentazione da parte dell'autorità cittadina, che in alcuni casi poteva adottare misure

5_ Una testimonianza della presenza di questi arredi è data dagli inventari compilati in occasione delle visite pastorali. Per la diocesi di Cagliari si hanno inventari a partire dal 1577.

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per calmierare i prezzi6. Di questi parametri alcuni erano generalmente

costanti, come per esempio il costo della giornata lavorativa, del trasporto e del montaggio dell'opera e dei materiali ordinari, mentre altri variavano a seconda delle contingenze del momento, come quelli dell'oro e dei materiali preziosi (il blu oltremare ottenuto dal lapislazzuli proveniente dal Medio Oriente).

In ragione dell'impegno di spesa non indifferente che la realizzazione di un polittico comportava e dell'importanza del messaggio che doveva comunicare, i soggetti e i temi da rappresentare erano indicati dalla committenza, che raramente lasciava al pittore la libertà di scelta su cosa dipingere. Quand'anche non vi fossero particolari richieste poi, in ogni caso egli esercitava tale facoltà attenendosi al buon senso, ai princìpi del mestiere (si è detto che il gremio verifi cava anche della corretta trasposizione delle scene sacre) e alla coerenza iconografi ca d'insieme. Nei documenti non sono attestati casi in cui al pittore, che operava in una dimensione artigianale in cui l'autoaffermazione era limitata da forti vincoli corporativi, fosse concesso di dipingere in totale autonomia scene unicamente connesse alla sua personale devozione (rappresentazione di santi eponimi ecc.).

Il ruolo della committenza riveste pertanto un ruolo fondamentale rispetto alla confi gurazione (strutturale e formale) dell'opera, in quanto essa doveva non solo rispettare appieno i parametri di qualità, peraltro già controllati dal gremio, ma anche, e soprattutto, rispondere a esigenze funzionali e fi nalità comunicative specifi che. Di questi aspetti si è già trattato nella premessa metodologica (§ 2.1) e si tratterà più avanti in riferimento a esempi concreti (§ 4.1.4, 4.1.5), qui mi limito a mettere in evidenza che essi hanno una ripercussione diretta sulla prassi operativa della bottega, soprattutto nel caso dei retabli destinati all'altare maggiore. Questi polittici avevano infatti

6_ È il caso di quanto avviene a Sassari nei primi anni del Cinquecento, cfr. TILOCCA SEGRETI 2000, p. 386.

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una ulteriore, importantissima, funzione, strettamente connessa allo svolgimento della celebrazione liturgica: dovevano custodire al loro interno l'Eucarestia, che veniva preservata all'interno del tabernacolo ricavato al centro della predella. Poiché la lavorazione di un polittico comportavano tempi dilatati (in genere non inferiori a un anno – un anno e mezzo), sono registrati casi in cui, per non compromettere tempi di offi ciatura e custodia dell'Eucarestia, la committenza richiedeva la consegna della predella in anticipo rispetto al resto dell'opera e a breve distanza dalla data di stipula del contratto (rientra in questa casistica il retablo per il San Francesco di Alghero, cfr. § 4.1.4). La predella costituisce pertanto l'elemento più importante dell'intero polittico, non solo perché maggiormente esposta alla vista dei fedeli – le altre tavole erano molto in alto rispetto al punto di vista dell'osservatore; si tenga conto inoltre delle condizioni di visibilità all'interno delle chiese –, ma proprio perché custodiva il corpo del Santissimo. Ciò comporta necessariamente una esecuzione a distanza di tempo tra questo elemento e le altre tavole, che potevano venire montate anche a distanza di anni, e aiuta a comprendere (e spiegare) meglio la differenza stilistica e di mano che talvolta si rileva all'interno della medesima opera. A questo fenomeno fa riferimento la Scano Naitza quando formula la sua ipotesi di datazione del Retablo di Tuili del Maestro di Castelsardo (cfr. 4.2.4).

Un aspetto poco dibattuto – mi riferisco alla Sardegna di fi ne '400 - primo '500 – è quello relativo alla committenza per devozione privata, sul quale, in assenza di notizie documentali, è diffi cile costruire un discorso. È da credere che le modalità di commissione fossero del tutto simili, se non identiche, a quelle in uso per le opere destinate alla fruizione pubblica, così come pure i termini contrattuali, mentre differiva, evidentemente, la destinazione dell'opera, destinata ad ambienti privati non aperti al pubblico. Non si hanno elementi per stabilire se i ricchi borghesi e nobili residenti in Sardegna praticassero il collezionismo di arte profana antica e moderna, al pari degli

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omologhi della penisola italiana; in Catalogna il fenomeno si diffonde per il tramite dei circoli umanisti, di cui fu un importante esponente Miquel Mai (circa 1480-1546), già reggente della Real Cancelleria di Sardegna, che nella sua abitazione barcellonese collezionava marmi antichi7. Certo è che nelle dimore nobiliari non dovevano mancare

immagini sacre e altaroli da camera, come dimostrano due documenti da me rinvenuti, uno a Cagliari e uno a Barcellona. Quello barcellonese è l'inventario dei beni di Stefania Carros de Mur (doc. 15)8, stilato dai

suoi esecutori testamentari tra il 18 e il 21 marzo 1511. Stefania, fi glia del viceré di Sardegna Nicolau Carros di Arborea, non convolò mai a nozze e dopo la morte del padre (1479) si trasferì a Barcellona insieme alla zia materna Isabella d'Urrea de Mur; entrambe le donne, morte a pochi anni di distanza una dall'altra (1507, 1511) furono sepolte nella cappella del Santo Cristo della chiesa di Santa Maria di Jesus di Barcellona (cfr. 4.2.7). Nell'inventario è elencato un gran numero di gioielli, vesti, drappi, arredi che adornavano la dimora barcellonese di Stefania, erede universale della zia Isabella. Non sono indicati gli ambienti in cui i beni si trovavano al momento dell'inventario, per cui non è dato sapere se nell'abitazione, molto probabilmente un palazzetto, vi fosse anche una cappella privata, come fa supporre la presenza di suppellettili e arredi liturgici. Per limitarci alle opere di pittura, sono registrati ben otto retaules, un retaulet, tre tauletas, una taula e altri dipinti su tela,

tutti con scene e soggetti sacri. La descrizione degli oggetti è scarna ed essenziale, funzionale al loro riconoscimento a fi ni inventariali. Anche il documento cagliaritano è un inventario in cui sono elencate le cose appartenute ad Antoni Joan Carmona, fatto fare dalla moglie Catelina il 13 maggio 1521 . Qui i beni sono descritti nelle stanze in cui si trovano, per cui apprendiamo che nel salo c'erano un «altare e un retaule del

7_ Cfr. GARRIGA 1989 e BELLSOLELL 2011, pp. 169-186. 8_ AHBC, AH 307, Barcellona, 18-21 marzo 1511.

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devalament de la creu de tela vell», mentre nella primera cambra un «altar

sobre de huna cadira en que y ha dos tovalles velles y lo retaule es pintat la nativitat y altres fi gures».

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ARTISTI, OPERE, COMMITTENTI. CASI STUDIO

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