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Con la coda dell’occhio: un’analisi di Winnicott e Bateson in relazione al tema dell’illusione e del gioco

Un importante psicoanalista e filosofo inglese del Novecento, che ha manifestato un profondo interesse per il tema dell’illusione e del gioco, è Donald Winnicott. Questi, principalmente nella sua opera Gioco e Realtà, espone l’importanza del concetto di illusione nel bambino: infatti, l’illusione è il passo e l’elemento decisivo per l’apprendimento e lo sviluppo dell’autonomia del bambino stesso. Winnicott definisce il termine illusione come “stare in gioco” e, di conseguenza, separa tale concetto da quello di inganno.

Importanza dell’illusione e della madre nel processo di autonomia del bambino e definizione dell’area intermedia

L’illusione implica la consapevolezza di ciò che si fa e la consapevolezza dell’attraversamento della cornice, mentre l’inganno implica l’incoscienza e l’inconsapevolezza di attraversare una dimensione di senso per accederne ad un’altra. Vi è, però, un elemento significativo nella dottrina psicoanalitica e filosofica di Winnicott: ossia la descrizione di una terza area, o anche detta, area intermedia.

Egli osserva e analizza il comportamento del bambino nel gioco e nella fase di sviluppo della sua autonomia; così facendo, individua una serie di oggetti, che definisce oggetti transizionali, ossia degli oggetti con cui il bambino, fin dalla nascita, è in stretto contatto e con cui instaura un tipo affettuoso di rapporto

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oggettuale. “Io ho introdotto i termini ‘oggetti transizionali’ e ‘fenomeni transizionali’ per designare l’area intermedia di esperienza, tra il dito e l’orsacchiotto, tra l’erotismo orale e il vero rapporto oggettuale, tra l’attività creativa primaria e la proiezione di ciò che è stato precedentemente introiettato, tra l’inconsapevolezza primaria di un debito e il riconoscimento di un debito: [ad esempio come nel caso dell’affermazione] Dì: ‘Grazie’”34

.

È possibile osservare come Winnicott ritenga fondamentale l’esperienza dell’oggetto e del fenomeno transizionale, affinchè il bambino possa sviluppare una sua propria autonomia dalla madre. Gli oggetti transizionali sono quegli oggetti che rientrano in un’area gnoseologica ed epistemologica ben precisa: ossia, nell’area intermedia. In questa terza area il bambino usa gli oggetti come non facenti parte del suo corpo, ma, cosa fondamentale, non li riconosce ancora pienamente appartenenti alla realtà esterna. Infatti, lo scopo dello psicoanalista inglese, è quello di occuparsi del primo oggetto posseduto e dell’area intermedia compresa tra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivamente percepito. I fenomeni e gli oggetti transizionali appartengono a quest’area intermedia di esperienza, a cui contribuiscono la realtà interna e la vita esterna.

A partire da ciò, Winnicott osserva l’importanza di questa terza area nel bambino, poiché è ciò che gli permette di raggiungere uno stato di autonomia nel rapporto con la madre. Tale terza area è assimilabile, e del tutto simile, al mondo intermedio fino ad ora descritto: ossia, è assimilabile ad una dimensione, per l’appunto intermedia, tra la realtà interna e quella esterna. È un mondo questo che implica una condizione di relazione tra i mondi che unisce e, allo stesso tempo,

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D. Winnicott, Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Gioco e Realtà, tr. italiana a cura di Giorgio Adamo e Renata Gaddini, Armando Editore, Roma 2006, p. 20

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separa, e, a partire da ciò, Winnicott basa la terza area sulla sua condizione implicita di transizione. Questa è l’area in cui si viene a strutturare una relazione che sarà fondamentale per la crescita, lo sviluppo e l’apprendimento del bambino: ossia, la relazione primordiale tra madre e bambino.

Tale rapporto, oltre ad essere fondamentale per lo sviluppo cognitivo, implica anche un rapporto tra apprendimento ed autonomia.

Il bambino, descritto e analizzato da Winnicott, è in uno stato intermedio tra l’incapacità e la crescente capacità di riconoscere e accettare la realtà in quanto tale. Questa sua condizione intermedia è propria dell’esperienza della terza area e, a caratterizzare tale area, è l’uso del concetto di illusione.

Infatti, il bambino, per rendersi autonomo, prende i diversi oggetti che lo circondano e si illude di poterli gestire da solo. All’inizio, la madre fornisce al bambino l’opportunità di una illusione, secondo cui il suo seno sia parte del bambino stesso, ma il suo compito è quello di disilludere gradualmente il bambino.

In che modo Winnicott usa il termine illusione in riferimento al processo di autonomia del bambino?

I due protagonisti di tale processo sono la madre e il bambino, ed entrambi dovrebbero rivestire dei ruoli ben distinti: il bambino, non capace di autonomia, si affida totalmente alla madre per ogni esperienza, ma, gradualmente, quest’ultima deve esser capace di rendere sempre più autonomo il bambino mediante l’illusione di tale autonomia. Nel momento in cui il bambino è a contatto con un oggetto transizionale, la madre non deve essere di impedimento all’uso esclusivo di tale oggetto da parte del bambino, e neppure deve essere del tutto indifferente a

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questo atto. Infatti, l’idea che è alla base della teoria della terza area di Winnicott, è che: l’autonomia e il processo di apprendimento del bambino non si costituiscono nella rottura della relazione con la madre, ma nella relazione stessa che sussiste tra madre e figlio.

Il bambino, per crescere, deve essere in grado di uscire ed entrare dai diversi contesti che lo circondano, ossia deve imparare ad apprendere il senso del contesto che viene dato man mano dalle cornici che attraversa. Per sentirsi autonomo, egli deve prima esperire l’uso dell’oggetto transizionale come fosse un oggetto esterno. Ciò implica la consapevolezza dell’uso di una diversa categoria logica nella definizione dell’oggetto transizionale: da essere né oggetto interno e né esterno, diventa un oggetto concepito come esterno ed autonomo.

Il bambino, instaurando un rapporto di apprendimento fondamentale con gli oggetti che lo circondano, si illude, in un primo momento, di poter muovere da solo gli oggetti, senza l’aiuto della madre. Egli, però, sa che la madre lo sta osservando, e, di conseguenza, il suo stato di apprendimento si basa sul concetto di illusione. Il bambino si illude di poter muovere gli oggetti in maniera autonoma perché, nell’aver attraversato la finestra con accesso alla terza area, è consapevole del fatto che la sua momentanea autonomia sia controllata dalla madre. Per questo si parla di illusione, ossia di uno stato in cui il bambino sa di essere osservato, ma, nonostante ciò, si comporta come se la madre non lo stia guardando.

Winnicott si sofferma sull’importanza che ha la madre in questo processo di apprendimento dell’autonomia; egli fa un’analisi di come dovrebbe comportarsi la madre in questo caso, ed è, a tal proposito, che sostiene che il bambino necessiti di una madre sufficientemente buona: ossia una madre che sia in grado di adattarsi ai

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bisogni del bambino. Inoltre, tale adattamento deve diminuire poco a poco a seconda della capacità del bambino di crescere in maniera più o meno autonoma. È poi fondamentale che l’adattamento si riduca a seconda della capacità (sempre del bambino) di rendersi conto del venire meno a questo adattamento, e quindi di ritornare al mondo reale da quello intermedio, con la consapevolezza e la coscienza della realtà in quanto tale.

La madre sufficientemente buona descritta da Winnicott deve permettere che il bambino si illuda, perché solo in questo modo egli può uscire dal rapporto di stretta dipendenza che ha con lei. “Noi” -afferma Winnicott- “possiamo condividere un rispetto per l’esperienza illusoria e se lo desideriamo possiamo raccogliere insieme e formare un gruppo sulla base della similarità delle nostre esperienze illusorie. Questa è una delle radici naturali del raggrupparsi tra esseri umani”35. Ancora, egli afferma: “Non vi è possibilità alcuna per il bambino di

procedere dal principio del piacere al principio di realtà, […] a meno che non vi sia una madre sufficientemente buona. La ‘madre’ sufficientemente buona (non necessariamente la madre vera del bambino) è una madre che attivamente si adatta ai bisogni del bambino, un adattamento attivo […].[…] via via che il tempo procede vi si adatta gradualmente meno e meno completamente, a seconda della capacità crescente che il bambino ha di far fronte al suo venir meno”36

.

La madre ha perciò questo importantissimo ruolo e funzione nella vita del bambino: è lei che deve aiutare il bambino stesso a rendersi autonomo, e ciò avviene grazie all’illusione.

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Il bambino, nel muovere gli oggetti, si illude di essere capace di gestirli da solo (poiché si illude che la madre sia assente), ma, allo stesso tempo, sa (e, dunque, è cosciente) che la madre è accanto a lui. La consapevolezza di ciò lo porta a rifugiarsi nell’illusione di essere autonomo: contemporaneamente il bambino sa e non sa di essere autonomo, ossia sa che c’è la madre a guardarlo, ma finge (dunque si illude) che la madre non sia presente. Tale finzione o illusione è fondamentale affinchè il bambino si senta capace di autogestirsi, nonostante sullo sfondo ci sia la madre ad osservarlo. A questo punto, la madre non deve assolutamente inserirsi con prepotenza nel momento in cui il bambino muove gli oggetti da solo, perché ciò sarebbe un non riconoscimento dell’alterità del bambino, e, dunque, un riconoscimento del fatto che egli non possa essere capace di autonomia propria, in quanto lo giudica un suo doppio. In più, la madre non deve essere nemmeno del tutto assente e disinteressata a questa manifestazione di illusione del bambino: in questo caso vi sarebbe un ulteriore non riconoscimento, ma del nulla, poiché il suo è principalmente disinteresse dell’apprendimento di autonomia.

La cosa fondamentale è la presenza/assenza della madre, il sapere e il non sapere, l’illusione e la consapevolezza della cornice. La madre, davanti al bambino che muove gli oggetti, deve avere la capacità di ritrarsi, pur rimanendo lì ad osservare. È la compresenza di sapere e non sapere di essere osservato dalla madre che dà al bambino la possibilità di essere e sentirsi autonomo.

A partire dal processo dell’illusione, che la madre deve concedere al bambino, è fondamentale descrivere qual è l’altro ruolo che deve avere la madre stessa per favorire l’apprendimento della realtà in quanto tale. “ […] il compito principale

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della madre” -scrive Winnicott- “(subito dopo a quello di provvedere l’opportunità di illusione) è quello di disilludere. Questo è preliminare al compito del divezzare e continua inoltre come uno dei compiti dei genitori e degli educatori”37

.

L’autore ritiene che l’illusione sia parte degli esseri umani, ma nessun individuo è in grado di risolverla per conto proprio. Perciò è necessario un processo graduale di disillusione, affinchè il bambino, e poi adulto, sia in grado di accettare la realtà. Tale accettazione non è mai, per Winnicott, un processo completo, ma avviene sempre in maniera graduale. Infatti, il processo tramite il quale il bambino passa dall’oggetto e dalla realtà soggettiva a quella oggettiva e reale è dato dall’importante rapporto che deve sussistere tra illusione e disillusione. Ciò avviene nell’area intermedia di cui si è parlato precedentemente: “[…] quest’area intermedia è necessaria per l’inizio di un rapporto tra il bambino e il mondo ed è resa possibile da cure materne abbastanza buone”38

. La terza area di Winnicott funge da cerniera tra realtà interna al bambino e mondo oggettuale. In tal modo, illusione e disillusione devono essere considerati come gli elementi fondamentali per l’apprendimento dell’autonomia del bambino e per l’accettazione della realtà. La madre, nel momento in cui permette al bambino di illudersi di muovere gli oggetti da solo, si colloca sullo sfondo, o meglio, sulla cornice dell’azione. Lei non è direttamente percettibile dal bambino, ma è come se lo osservasse da lontano. Il bambino percepisce la sua remota (e non diretta) presenza, ma, nonostante ciò, si illude di agire in totale autonomia. La madre è dunque visibile con la coda dell’occhio, ossia è presente all’illusione del bambino, ma, allo stesso

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tempo, non lo è. Lei deve essere in grado di osservare, senza che la sua presenza ostacoli il processo di apprendimento e autonomia del bambino stesso.

Ciò che per Winnicott è fondamentale, non è l’opposizione di verità-inganno, ma il condividere o meno un’illusione. In altre parole, la realtà non dipende da un qualcosa che sta al di fuori o al di sopra delle relazioni sociali, ma, al contrario, essa consiste nelle illusioni e nelle esperienze condivise. A sua volta, anche la verità non si pone al di fuori o al di sopra, ma nella conoscenza dei limiti della condivisione, nell’esperienza del passaggio e nell’attraversamento del confine. “Il bambino deve illudersi di essere autonomo per poterlo poi effettivamente diventare. Egli si illude di essere autonomo, ma, mentre fa le cose da solo, sa che vicino c’è la madre, che egli può percepire con la coda dell’occhio39”.

L’illusione, ben lungi da essere sinonimo dell’inganno, è parte della verità e, più precisamente, è quella parte che permette di operare passaggi e fare attraversamenti da una cornice di senso ad un’altra.

A questo punto, è possibile osservare come il rapporto illusione/disillusione descritto da Winnicott si ritrovi nell’arte e nel particolare processo visivo, al quale il pittore richiama lo spettatore nell’osservazione del quadro. Nell’arte in generale e nella pittura, in particolare, il pittore prende il posto della ‘madre sufficientemente buona’ di Winnicott. Infatti, l’artista, in un primo momento, chiama lo spettatore e lo spinge ad osservare il quadro secondo il terzo occhio e, così facendo, lo spettatore si illude di vedere il quadro in totale autonomia, ossia senza che vi sia lo sguardo del pittore che lo accompagna nella rappresentazione. Chi osserva non è fin da subito consapevole del fatto che l’opera sia un oggetto

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transizionale e un mondo intermedio. Ma, dopo aver compreso di vedere l’opera

secondo lo sguardo dell’artista, lo spettatore gradualmente si disillude e ritrova la

sua autonomia di osservazione. Questi comprende che, per cogliere pienamente il senso del quadro, deve immergersi in esso e sentirsi in una dimensione di intorno piuttosto che frontale, e, per rendere ciò possibile, deve volgere al quadro uno sguardo particolare, ossia quello proprio del terzo occhio.

In questo processo di osservazione dell’opera, l’artista deve essere accanto allo spettatore per guidarlo nell’interpretazione, ma, allo stesso tempo, deve guidarlo da lontano, quasi come se l’osservatore non dovesse accorgersi della sua presenza. Proprio per tale motivo, il pittore deve essere percepibile con la coda dell’occhio affinchè la sua opera sia vista secondo il suo sguardo.

L’artista si pone l’obiettivo di raffigurare ciò che ha visto in natura e, una volta ordinate le idee di rappresentazione sulla tela, si pone un altro compito: ossia, quello di realizzare un’opera d’arte insegnando allo spettatore il modo in cui vedere il quadro. Il pittore vuole che lo spettatore penetri nella sua opera e si senta immerso in essa; così facendo, questi attraversa la cornice e, momentaneamente, si illude di aver compiuto questo passaggio in totale autonomia. Ma, una volta che l’osservatore diventa consapevole della cornice che delimita il suo mondo intermedio, egli percepisce la presenza e la volontà dell’artista e, di conseguenza, gradualmente si disillude.

Ciò vuol dire che lo spettatore diventa consapevole della finestra e del suo passaggio dalla dimensione reale a quella del quadro, e, disilludendosi, diventa anche capace di ritornare al suo mondo di senso reale. Così facendo, egli porta dentro di sè l’esperienza dell’attraversamento come profondo scuotimento del suo

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essere più intimo. In altre parole, il pittore deve illudere lo spettatore nel fare esperienza del mondo intermedio e, gradualmente, deve disilluderlo affinchè possa tornare al mondo reale con l’apprendimento del suo essere autonomo.

Rapporto tra gioco e imitazione

L’illusione ha dentro di sé l’elemento ludico e il carattere giocoso (infatti,

illusione deriva dal latino in ludo, ossia ‘essere, stare in gioco’). Winnicott,

avendo analizzato l’importanza dell’illusione nel processo di autonomia del bambino, sottolinea la centralità di questo concetto in relazione al gioco, in quanto dimensione fondamentale per la costruzione dell’identità degli uomini.

Winnicott ha, infatti, dedicato il suo lavoro alla psicoanalisi (disciplina che include anche la psicoterapia) ed è a questo proposito che afferma: “la psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace”40. L’idea di gioco, che l’autore sviluppa, è fondamentale per la realizzazione del suo stesso lavoro, in quanto psicoterapeuta.

Egli, infatti, sostiene che il gioco sia dotato di un luogo e un tempo suoi propri, tanto che lo spazio ludico non è né all’interno e né al di fuori dell’individuo, ma si colloca in una terza area. Winnicott conferisce al gioco un suo proprio spazio, ed è questo che definisce uno spazio potenziale nella relazione tra il bambino e la

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D. Winnicott, Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Gioco e Realtà, tr. italiana a cura di Giorgio Adamo e Renata Gaddini, Armando Editore, Roma 2006, p. 71

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madre: affinchè vi sia il gioco, entrambi gli individui (in questo caso la madre e il bambino) devono condividere un’esperienza che è quella ludica, e in più devono saper condividere uno spazio intermedio e potenziale entro cui è possibile giocare. Lo spazio intermedio varia, inoltre, a seconda del rapporto che sussiste tra la madre e il bambino, tanto che Winnicott mette in contrasto tale spazio potenziale con la dimensione del mondo interno e con la realtà effettiva esterna, la quale può essere osservata e studiata oggettivamente.

Ciò che lo psicoterapeuta inglese afferma è che: il gioco è universale. Tale fenomeno è, difatti, una particolare forma di comunicazione di cui si serve la psicoterapia per instaurare varie relazioni tra lo psicoterapeuta e il paziente (sia questo un adulto o un bambino). Nello specifico, la psicoanalisi si sviluppa come una forma altamente specializzata di gioco, tanto che questo fenomeno risulta del tutto naturale, mentre la psicoanalisi è una dottrina altamente sofisticata.

Nel momento in cui il bambino gioca, possono presentarsi due possibili manifestazioni di gioco: nel primo caso, il lattante e l’oggetto sono fusi l’uno con l’altro (dunque, il modo in cui il bambino vede l’oggetto è soggettivo), mentre, nel secondo caso, l’oggetto viene ripudiato, riaccettato e percepito obiettivamente. Quest’ultimo è il caso in cui il gioco si definisce come spazio in cui è possibile una relazione tra bambino e madre: infatti, questo stato dipende dal fatto di vedere se c’è una madre pronta a partecipare all’azione ludica del bambino. Questi, giocando, si immerge in un mondo intermedio (o spazio potenziale) e si illude di essere autonomo nel muovere gli oggetti da solo, ma, ad avere un ruolo importante nel momento ludico del bambino, è la madre, la quale deve essere capace di esserci e non-esserci. Lei deve esserci, per tenere d’occhio il bambino e

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farsi vedere da lui, mentre deve simultaneamente non-esserci, nel senso che non deve prender parte al gioco del bambino senza riconoscerlo in quanto partecipante del gioco stesso.

Solo se si detiene questo rapporto, tra il bambino e la madre, il gioco comincia, così da definirsi anche l’area di gioco. Il bambino, dunque, oltre a rivestire un ruolo di partecipante, si prepara ad affrontare lo stadio successivo: ossia, quello di ammettere una sovrapposizione delle due aree di gioco (quella della madre e la sua).

Inizialmente, è la madre che gioca con il bambino, ossia è lei che introduce il bambino nell’area del gioco, successivamente è lei che deve essere in grado di introdursi all’area di gioco che è il bambino a creare. La madre, in questa seconda fase, deve stare attenta ad introdurre il proprio personaggio e ruolo all’interno della terza area del bambino, senza che quest’ultimo sia sopraffatto dalla sua