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codice rosso

Nel documento con gli occhi delle bambine (pagine 153-156)

S

ul piano legislativo molti passi sono stati compiuti anche se non sempre trovano una piena applicazione. Nel 2013, con la legge n. 119 si fa un riferimento esplicito alla “violenza basata sul genere”, che aggredisce la donna in quanto tale e la sottopone a sofferenze fisiche, psicologiche ed economiche.

Nello stesso anno, l’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica).

Ad essa si richiama esplicitamente il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020 che presta

un’attenzione particolare alle piccole vittime di violenza assistita e agli orfani di femminicidio. Quest’ultimi sono stati oggetto anche della legge 11 gennaio 2018, n. 4, recante “ Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre

disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici”.

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Infine, nel 2019, è entrata in vigore la legge n. 69, il così detto “Codice rosso”, che ha innovato e

modificato la disciplina penale della violenza domestica e di genere, con un inasprimento delle sanzioni, in particolare in presenza di minore.

In particolare – come si legge in RSPCT* Respect Stop Violence Against Women, della Fondazione Censis in collaborazione con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Pari Opportunità – il cosiddetto Codice Rosso, «introduce i reati di revenge porn, ovvero la diffusione non consentita di immagini o video sessualmente espliciti; la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni

permanenti al viso; il matrimonio forzato e la violazione del provvedimento di

allontanamento da casa ovvero di avvicinamento ai luoghi frequentati della persona offesa.

Ma la legge inasprisce anche le pene nei confronti di reati già esistenti e introduce una corsia preferenziale (il codice rosso), per accelerare i procedimenti penali relativi ai reati di genere e rendere più rapida l’adozione di eventuali provvedimenti di tutela».

Infine, il Decreto del maggio 2020, n. 71, prevede l’erogazione di misure di sostegno agli orfani di crimini domestici e di reati di genere e alle famiglie affidatarie. Le donne imparano, dunque, lentamente, a prevenire la violenza, a riconoscerla, a capire che uno schiaffo non è amore. Ne parlano di più e sanno come andarsene. Tra le studentesse si registra un calo delle violenze

fisiche e sessuali subite nell’arco di tempo che va dal 2006 al 2014: gli atti violenti dall’ex partner sono passati dal 17,1% all’11,9%, nel caso di partner attuale dal 5,3% al 2,4% e per i non partner dal 26,5% al 22%. «È la dimostrazione che l’istruzione è, sempre, un elemento fortemente protettivo, capace di fornire gli strumenti per

contrastare gli abusi psicologici e i maltrattamenti anche in chi è molto giovane» ricorda Maria Giuseppina Muratore.

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e violenze più gravi - tentato strangolamento, ferimenti, ustioni, ecc. – sono in aumento. Il numero di donne che ha temuto per la propria vita è quasi raddoppiato tra il 2006 e il 2014 e non arretrano gli omicidi delle donne (mentre diminuiscono quelli degli uomini). «Negli anni ’90 le donne rappresentavano l’11% delle morti violente, ora costituiscono il 35%» si legge nell’audizione di Linda Laura Sabbadini presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché ogni forma di violenza di genere21.

Il trend è confermato anche dal Ministero dell’Interno: «Nel 2018 su un totale di 154 omicidi consumati in ambito familiare/affettivo il 69,5% ha avuto come vittima una donna.

Ad una progressiva diminuzione, seppur altalenante nell’arco del decennio, degli omicidi volontari consumati nel contesto familiare/affettivo, non corrisponde un altrettanto netto decremento dell’incidenza delle donne uccise (107 nel 2018)»22. Neppure il lockdown da Coronavirus ha bloccato questa tendenza. Il totale degli omicidi volontari commessi nei primi sei mesi del 2020 è sceso dai 161 del 2019 a 131, ma il numero di donne uccise è addirittura salito da 56 a 59. A fronte di una flessione del 19% degli omicidi, la percentuale dei

femminicidi è salita del 5%, si legge nel rapporto del Servizio Criminale Interforze23. «In Italia i dati parlano di un femminicidio ogni tre giorni. Ogni tre giorni una donna è stata ammazzata per non essere stata donna nel modo ‘giusto’ – scrive Irene Facheris in “Parità in pillole” – Accade così spesso che abbiamo dovuto inventare una parola per parlarne in maniera concisa, dobbiamo parlarne così spesso che ci serviva un termine che riassumesse il fatto»24. È una parola che non ha valenza giuridica, non ha una propria definizione in un corpo di leggi o sanzioni, ma ad esso si riferiscono anche gli apparati di sicurezza, tanto esteso e specifico è il fenomeno. Soffocamento, armi da fuoco, oggetti contundenti ma soprattutto armi da taglio, sono gli strumenti della vendetta con cui l’uomo – nel 61% dei casi è il partner attuale, nel 23% è un ex partner – toglie la vita per segnare il proprio possesso, che non ammette deviazioni o ribellioni, sul corpo femminile25. Anche la stampa concorre, spesso, a “depotenziare” la gravità del femminicidio, resiste a stigmatizzare i violenti, indulge a raccontare la “normalità” dell’assassino. Raptus

amoroso, dramma della gelosia, il “gigante buono” che uccide l’amica, il vicino di casa che impazzisce d’amore, lo stimato professionista che non ha resistito all’abbandono, sono le premesse di molte cronache sui femminicidi, come fossero uno scarto inaspettato da un mondo “quasi perfetto”.

Le parole per definire abusi e uccisioni contano, ma contano anche gli stereotipi di cui si nutre l’humus culturale su cui prospera ed è tollerata la violenza verso il genere femminile.

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Nel documento con gli occhi delle bambine (pagine 153-156)

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