CAPITOLO IV: Alcune analisi pre e post crisi del 2008
4. Il coefficiente di Gini e le curve di Lorenz
Prima di procedere nella trattazione del presente paragrafo è doveroso esplicitare sinteticamente cosa sono e cosa rappresentano il coefficiente di Gini e le curve di Lorenz: questi due strumenti vengono utilizzati per determinare il grado di accuratezza del rating in termini di capacità storica di prevedere il default.
Per misurare le prestazioni relative dei rating, utilizziamo la curva di Lorenz come rappresentazione grafica della proporzionalità di una distribuzione, e lo riassumiamo tramite il coefficiente di Gini. Vediamo nello specifico il loro funzionamento aiutando ci con un grafico.
Fonte: 2016 Annual Global Corporate Default Study And Rating Transitions
Per questo studio, la curva di Lorenz è tracciata con l’asse X che mostra la quota cumulativa degli emittenti, organizzata per rating, mentre l’asse Y rappresenta la quota cumulativa degli inadempienti, anch’essa organizzata per rating. per entrambi gli assi
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della curva, le osservazioni sono ordinate dalla fascia più bassa della scala delle valutazioni (“CCC/C”) alla fascia più alta (“AAA”). Ad esempio, se le entità classificate come “CCC/C” costituivano il 10% della popolazione totale degli emittenti all’inizio del periodo esaminato (asse X) e il 50% degli inadempienti (asse Y), allora le coordinate (10, 50) costituirebbero il primo punto della curva. Se le valutazioni societarie si S&P Global Ratings avessero solo un rischio di default approssimato a caso, la curva di Lorenz sarebbe caduta lungo la diagonale e il coefficiente di Gini, che è una statistica riassuntiva della curva di Lorenz, sarebbe quindi pari a 0. Se le valutazioni aziendali fossero ordinate in modo perfetto in modo che tutti i default si verificassero solo tra le entità con il punteggio più basso, la curva catturerebbe l’area sopra la diagonale (ideal curve) e il coefficiente di Gini sarebbe 1.
La procedura per il calcolo dei coefficienti di Gini è illustrata nel grafico ed è data dall’ area B diviso il totale delle aree A più B, dove:
• L’area A è delimitata dalla curva di Lorenz e dalla curva ideale;
• L’area B è delimitata dalla curva casuale (random curve) e dalla curva di Lorenz. In altre parole, il coefficiente di Gini cattura la misura in cui l’accuratezza delle valutazioni effettive diverge dallo scenario casuale e aspira allo scenario ideale. All’interno dei vari default studies analizzati sono stati calcolati ed esplicitati i coefficienti di Gini per diversi orizzonti temporali, sia a livello globale, sia a livello regionale, per quanto riguarda Stati Uniti ed Europa. Di seguito verranno riportate alcune tabelle ricavate dai report contenenti questi dati che andremo poi a commentare per descriverne l’andamento e le differenze rilevate nei diversi anni analizzati. Riportiamo per semplicità di trattazione i dati relativi agli anni 2005, 2008 e 2016.
59 Coefficiente di Gini (%)
2005 1 anno 3 anni 5 anni 7 anni
Globale 84 78 75 72
USA 82 77 74 71
Europa 94 89 84 74
Fonte:Standard& Poor's Global Fixed Income Research; Standard & Poor's CreditPro®7 .02.
Coefficiente di Gini (%)
2008 1 anno 3 anni 5 anni 7 anni
Globale 81.56 75.9 73.2 71.6
USA 80 74.7 72.2 70.2
Europa 91 84 76.7 75.4
Fonte: Standard & Poor’s Global Fixed Income Research and Standard & Poor's CreditPro®.
Coefficiente di Gini (%)
2016 1 anno 3 anni 5 anni 7 anni
Globale 82.3 75.1 71.7 69.5
USA 80.5 72.9 69.6 67.5
Europa 90.3 86 82.9 78.3
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Si è detto che i coefficienti di Gini rappresentano una valutazione quantitativa delle performance del rating, ossia la capacità storica dei rating di prevedere il default. I coefficienti contenuti nelle tabelle riportate mostrano, in generale, un alto grado di accuratezza del rating, sia a livello globale che a livello regionale. Inoltre, si nota che i coefficienti diminuiscono col tempo in quanto orizzonti temporali più lunghi consentono maggiori opportunità di degrado del credito tra le entità con rating più elevato.
Volendo fare un’analisi più precisa si vede che nel 2005, tra le entità valutate da Standard & Poor è stato registrato un coefficiente di Gini medio di un anno dell’84%; tre anni 78%; cinque anni 75%; sette anni 72%. Queste risultano essere delle percentuali abbastanza elevate che negli anni successivi non sono più state raggiunte. Infatti, dal 2008 in poi i coefficienti di Gini registrati per le stesse scadenze sono stati relativamente più bassi, soprattutto per le scadenze più brevi e sono rimasti pressoché costanti negli anni successivi. Come ci si poteva aspettare, l’accuratezza con cui i rating sono stati in grado di prevedere i default si è abbassata di qualche punto percentuale e ciò è dovuto, sicuramente, all’alto numero di downgrade e di default avutisi fra il 2008 e il 2009, soprattutto nelle categorie di rating investment-grade, che hanno in qualche modo destabilizzato le previsioni fatte dai rating stessi.
A parte queste “anomalie”, si può comunque dire che, in generale, i coefficienti di Gini contenuti in tutti i default studies analizzati per redigere il presente lavoro mostrano un grado di accuratezza delle previsioni elevato, sia a livello globale che a livello regionale, e ciò dimostra che Standard & Poor ha svolto, tutto sommato, un buon lavoro nell’assegnazione dei rating agli emittenti nel tempo.
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CONCLUSIONI
L’obiettivo che ci si era posti all’inizio della trattazione era quello di monitore il rischio di credito nel tempo, sia per quanto riguarda le variazioni del rating di singoli emittenti, sia per variazioni nella misurazione del rischio di credito in generale, descritta dalle matrici di transizione delle agenzie di rating internazionali.
Per concludere questo elaborato, quindi, si andranno a riassumere i risultati ottenuti nei vari capitoli e a descrivere qual è stato l’impatto causato dalle variazioni del rischio di credito sui mercati mondiali e soprattutto in che modo è andato a influire sulle matrici delle probabilità di transizione, sulle probabilità di default e sulle varie categorie di rating nel corso del tempo. Per quanto riguarda ciò che si è trattato nei primi due capitoli, c’è poco da dire in quanto, nel primo si sono semplicemente esposte formule e proprietà di un processo matematico ben conosciuto, ossia quello delle catene di Markov, mentre nel secondo si è data una definizione di rischio di credito, elencandone i componenti, e si è descritto il funzionamento e il ruolo delle agenzie di rating nel panorama economico mondiale inserendo, tra gli altri, un paragrafo in cui sono stati delineati gli aspetti fondamentali dei default studies, ossia dei report che le agenzie di rating sono tenute a pubblicare annualmente. Proprio questi ultimi documenti, in particolare quelli pubblicati da Standard & Poor’s, sono stati molto importanti per il lavoro svolto in quanto da essi è stato estrapolato un numero consistente di dati e informazioni utilissimi per svolgere le analisi e raggiungere gli obiettivi di cui sopra. Tali dati sono stati fondamentali per la redazione del terzo capitolo, il cui obiettivo particolare era quello di dimostrare che Standard & Poor’s, nel redigere le matrici delle probabilità di transizione tra diversi livelli di rating su più orizzonti temporali utilizza, appunto, lo strumento matematico-probabilistico delle catene di Markov, trattato nel primo capitolo. Per fare ciò si è partiti, ovviamente, con una descrizione generale delle matrici di transizione e del loro funzionamento per poi passare alla dimostrazione vera e propria. Il primo passaggio è stato quello di riportare la matrice di transizione a un anno pubblicata da S&P’s. A tale matrice sono state applicate le formule delle catene di Markov tramite cui, a partire dalla matrice a un anno, si possono ricavare le matrici per orizzonti temporali più lunghi. In particolare, la nostra verifica ha riguardato, rispettivamente, le matrici a due, tre, cinque, e dieci
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anni. Una volta applicate le formule e riportati i risultati ottenuti, questi ultimi sono stati posti a confronto con quelli ottenuti da S&P’s. Come ci si poteva aspettare, i dati ottenuti dalle nostre elaborazioni divergono, anche se in misura minima, da quelli dati dall’agenzia di rating per una serie di motivazioni, tra cui:
• Quantità e qualità dei dati utilizzati: la quantità di dati e informazioni in nostro
possesso è notevolmente inferiore rispetto a quelli in possesso dell’agenzia di rating. Infatti, S&P’s effettua le proprie analisi sulla base di un quantitativo di dati ricavati sia da proprie fonti, ricerche e database, sia da informazioni ricevute direttamente dalle società emittenti, mentre i nostri calcoli e le nostre analisi sono stati elaborati unicamente sulla base delle informazioni ricavate dai default studies direttamente emessi da S&P’s.
• Metodo di calcolo delle matrici di transizione pluriennali: S&P’s, nel calcolare
le matrici di transizione pluriennali, confronta i tassi di transizione all’inizio del periodo pluriennale considerato con i tassi alla fine di tale periodo e, in seguito, ne ricava una matrice di transizione media. La nostra analisi, invece, basandosi su una dotazione di informazioni iniziali nettamente inferiore, è stata fatta applicando semplicemente la formula generale delle catene di Markov alla matrice di transizione a un anno ricavata dai default studies dell’agenzia di rating. Per questi motivi, inoltre, le sfasature tra i valori aumentano all’aumentare dell’orizzonte temporale considerato, restando, comunque, in un range abbastanza piccolo.
Quindi, tenendo in considerazione le differenze nella dotazione di informazioni iniziale e nel metodo di calcolo utilizzato, i risultati che sono stati ottenuti tramite i nostri calcoli possono considerarsi soddisfacenti in quanto divergono in misura relativamente minima dai risultati ricavati direttamente dai default studies di S&P’s e possiamo, senz’altro, confermare che l’agenzia di rating considerata utilizza le formule e i concetti delle catene di Markov per redigere le matrici di transizione pluriennali. Nel quarto capitolo sono state svolte alcune analisi particolari con lo scopo di mettere in mostra l’andamento del rischio di credito e delle probabilità di default nei mercati mondiali. Per fare questo sono stati presi in considerazione, ancora una volta, i default studies pubblicati da S&P’s, in particolare, quelli del 2002, 2005, 2007, 2008, 2010,
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2011, 2014 e 2016. Per ognuno di questi report sono stati raccolti dati e informazioni varie in modo da descrivere l’andamento delle variabili considerate in ordine cronologico, descrivendone l’andamento e mettendo in evidenza le differenze tra quanto rilevato prima e quanto rilevato dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Le variabili prese in considerazione sono le seguenti:
Andamento del default aziendale
Questo punto viene ben sintetizzato dal grafico inserito nel primo paragrafo del capitolo in questione il quale mette in evidenza il numero di defaulters per ogni anno considerato dal 1981 al 2016 e che riproponiamo di seguito. Ciò che è stato notato è che esiste una chiara correlazione fra l’andamento del ciclo economico dei mercati mondiali e il numero di società inadempienti. Tralasciando il leggero picco di default registratosi tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la situazione tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 sembra essere peggiorata notevolmente. Infatti, questi sono gli anni in cui si è registrato un indebolimento dell’economia globale, un netto calo della qualità del credito e un aumento delle emissioni di bassa qualità collegato, tra l’altro, a un cospicuo numero di scandali societari.
Per comprendere meglio basti pensare che nel 2002 sono andate in default 226 società emittenti, cui era collegato un debito di 190 miliardi di dollari e un tasso di default globale del 3,63%. Questi dati sono ancora più interessanti se consideriamo che negli anni precedenti il record di società inadempienti era stato raggiunto nel 1991 con circa 90 defaulters e un volume di debito interessato di circa 23 miliardi, mentre per gli altri anni il numero di inadempienti si era sempre mantenuto, tra alti e bassi, intorno ai 30. Dopo i primi anni 2000 la situazione è migliorata, favorita dall’abbondanza di liquidità, da un ambiente macroeconomico favorevole e da una continua e forte propensione al rischio degli investitori che ha portato il numero di inadempienze a diminuire fino al 2007, anno in cui si sono registrate solo 22 default, 8,2 miliardi di debito ad esse collegato e un tasso di default globale dello 0,36%. Inoltre, un dato molto importante che riguarda questi anni è dato dal notevole aumento del numero di emittenti classificati come speculative-grade in quanto esso poteva rappresentare un indizio dell’arrivo di una futura imminente ondata di default, come d’altronde è successo. Infatti, fra il 2008, anno dello scoppio della crisi dei mutui subprime, e il
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2009, si è registrata un’ondata di default mai vista prima che ha visto fallire, in particolare, nel 2009 265 emittenti con un volume del debito interessato di circa 627 miliardi di dollari. Importante notare, che tra gli inadempienti molti erano classificati come investment-grade, motivo per cui il debito risulta così alto, e la portata della crisi così ampia.
Fra il 2010 e il 2015 la situazione sembrava essersi nuovamente stabilizzata, con il numero di defaulters che si aggirava intorno ai 70 e il tasso di default globale intorno all’1%. Anche in questi anni, però, si è registrato un aumento degli emittenti speculative-grade e, a tal proposito, la storia insegna che tale crescita può essere precursore di un’ondata di default. Infatti, nel 2016 uno stress prolungato nei mercati energetici globali, soprattutto per ciò che riguarda il petrolio e il gas naturale, ha portato a un notevole aumento del numero di defaulters (162) e del debito interessato (240 miliardi).
Da quanto appena esposto si può chiaramente dire che il default aziendale è strettamente collegato all’andamento dell’economia mondiale rispecchiandone le situazioni di crescita e difficoltà e che l’attività svolta dalle agenzie di rating è molto
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utile per gli investitori in quanto permette loro di farsi un idea sul merito creditizio di un particolare emittente anche se, i giudizi assegnati dalle agenzie possono, in alcuni casi, essere errati, come è avvenuto per i numerosi emittenti appartenenti alle categorie investment-grade risultati inadempienti fra il 2008 e il 2009. A parte queste discrepanze, si può comunque affermare che, in generale, i giudizi espressi dalle agenzie di rating, e in particolare da S&P’s, sono più che affidabili e rispecchiano il reale merito di credito degli emittenti valutati.
I cambiamenti delle categorie di rating
In linea generale, tutti i default studies di Standard & Poor’s hanno trovato una chiara correlazione tra la qualità del credito e la distanza temporale dal default: più alto è il rating e più bassa è la probabilità di default, e viceversa. Le uniche eccezioni si verificano quando il numero di default è molto piccolo, ad esempio tra le categorie di rating più alte. Questa piccola dimensione del campione, infatti, può tradursi in tassi di default che possono essere controintuitivi. Ciò non implica, ad esempio, che le società con rating “AA” siano più rischiose delle società con rating “AAA”, ma che entrambe abbiano una probabilità di default molto bassa. Risulta chiaro, quindi, che le società cui S&P’s assegna un rating più alto sono più stabili rispetto a quelle con un rating più basso. A conferma di quanto appena detto, se guardiamo le probabilità di transizione contenute nei report analizzati e, in particolare la probabilità che qualsiasi emittente valutato "A" all'inizio di un certo periodo (ovvero, 1 gennaio) continui a essere valutato "A" alla fine dello stesso periodo (ovvero, 31 dicembre) e la probabilità che un emittente con rating "B" all’inizio dell’anno venga valutata "B" alla fine dell’anno troviamo che, la prima probabilità si aggira intorno al 90%, mentre la seconda intorno al 75%.
Se si dà uno sguardo più accurato a queste probabilità, però, si possono notare delle “anomalie” che in alcuni anni sono andate ad intaccare la composizione delle categorie di rating. In particolare, dopo un periodo economico relativamente stabile osservato tra il 2002 e il 2008, si sono registrati dei cambiamenti stravolgenti all’interno delle categorie di rating, soprattutto in quelle investment-grade, causati dai fallimenti di grandi società e dai downgrade di altrettante grandi società e Stati Sovrani, tra cui, il più rilevante, quello degli Stati Uniti nel 2011, che è passato da “AAA” a “AA+” e a
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cui sono seguiti i downgrade di numerose istituzioni finanziarie il cui rating era implicitamente collegato a quello degli USA.
Il segmento speculative-grade non è stato esente da cambiamenti. A tal proposito, il numero di emittenti classificati in tale categoria è sempre aumentato, soprattutto nei periodi di stabilità economica precedenti alle ondate di default, caratterizzati da tassi di default bassi, abbondanza di liquidità e soprattutto dall’aumento della propensione al rischio degli investitori che portava questi ultimi a investire in società con un rating più basso.
Per dare un’idea della portata di tali cambiamenti basta dire che il numero di emittenti valutati da Standard & Poor’s con rating “AAA” è passato da 89 nel 2008 a 19 nel 2014, mentre il numero di emittenti con rating “BBB” sono passati da 1400 nel 2007 a 1700 nel 2014.
L’evoluzione delle probabilità di default
Le probabilità di default sono sicuramente uno dei dati più importanti inseriti nei default studies perché danno una visione concreta sul rischio che ci si assume andando ad investire su un certo emittente appartenente ad una certa categoria di rating. Per mettere in evidenza come tali probabilità si siano evolute prima e dopo la crisi del 2008 abbiamo estrapolato dai default studies del 2005, 2008, 2011 e 2016 le probabilità di default a 1, 5 e 7 anni per ogni categoria di rating e le abbiamo inserite in tre tabelle. Dall’osservazione di tali dati si è notato, in generale, un trend più o meno lineare per tutti gli anni e per tutte le categorie di rating considerate. Alcune piccole differenze sono state evidenziate prendendo in considerazione, ancora una volta, il 2008. Infatti, per ciò che riguarda il segmento investment-grade, dal 2008 in poi si è registrato un aumento delle probabilità di default su tutti e tre gli orizzonti temporali considerati, le cui cause possono essere individuate nella diminuzione del numero di emittenti appartenente a tale segmento e nell’alto numero di default e downgrade che si sono verificati a partire da tale data.
Il segmento speculative-grade, invece, ha visto un’evoluzione delle probabilità di default totalmente opposta. A parte la categoria “CCC/C”, le cui probabilità di default sono rimaste pressoché costanti negli anni, le altre categorie appartenenti a questo segmento hanno visto una generale diminuzione di tali probabilità a partire dal 2005,
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cui è seguito, come detto in precedenza, un aumento della propensione al rischio degli investitori e degli emittenti classificati come speculative-grade.
Dalla trattazione effettuata emerge chiaramente l’impatto che può avere il rischio di credito sia sulle probabilità di default, sia sul rating. Infatti, l’evoluzione di tali probabilità rispecchia perfettamente l’andamento del rischio di credito e dell’economia in generale: un aumento del rischio di credito causa un rispettivo aumento delle probabilità di default. Quindi, nei periodi in cui è stata rilevata una bassa qualità del credito e una situazione economica in difficoltà, come quella del 2008, le probabilità di default sono aumentate, soprattutto nel segmento investment-grade, che è stato quello maggiormente colpito dalla crisi finanziaria, mentre in periodi di relativa stabilità economica e abbondanza di liquidità tali probabilità sono diminuite, soprattutto nel segmento speculative-grade.
Il coefficiente di Gini e le curve di Lorenz
Come già detto nel capitolo precedente, il coefficiente di Gini rappresenta una valutazione quantitativa delle performance del rating, ossia la capacità storica dei rating di prevedere il default. Quindi, analizzarne l’andamento nei vari anni è risultato molto utile e interessante, soprattutto per evidenziare, ancora una volta, le differenze fra quanto successo prima e quanto successo dopo la crisi del 2008. Infatti, guardando i coefficienti ricavati dai default studies si nota che, in generale, l’accuratezza delle previsioni fatte dai rating è sempre stata molto alta ma, come ci si poteva aspettare, le percentuali sono leggermente diminuite dal 2008 in poi per i motivi di cui abbiamo già abbondantemente discusso legati alla crisi finanziaria e soprattutto al default di molte società classificate come investment-grade che, ovviamente, hanno fatto diminuire la percentuale di accuratezza con cui i rating sono in grado di prevedere il default.
Una volta evidenziati in breve i risultati ottenuti possiamo dire di aver raggiunto gli obiettivi che ci eravamo posti all’inizio della trattazione.
In particolare, si è dimostrato che Standard & Poor’s nel costruire le matrici di transizione su più orizzonti temporali utilizza lo strumento delle catene di Markov. Inoltre, svolgendo un’analisi più particolare dei dati contenuti nei default studies