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Colote e la legge come fonte di sicurezza

CAPITOLO 2: Gli Epicurei di prima generazione e la politica

2.6. Colote e la legge come fonte di sicurezza

L’ultimo discepolo di Epicuro della prima generazione cui si farà riferimento è Colote. Nato a Lampsaco tra il 324 a.C. e il 320 a.C., rimase sempre nella comunità lampsacena e intrattenne con Epicuro un vivo scambio epistolare225, dovuto anche alla grande ammirazione che Colote provava nei confronti del Maestro226. Di lui Diogene Laerzio dice che fu illustre come Idomeneo, senza però specificare ulteriormente le circostanze che lo resero tale227. Nel PHerc. 1457 gli viene attribuita un’opera dal titolo Περὶ νόμων καὶ δόξης, in cui probabilmente Colote, ammesso che ne sia l’autore228, è stato

223 Cfr. Epicur., Ep. Hrdt., 76. 224 Cfr. Sen., Ep., 52, 3. 225 Cfr. frr. 62-66 Arrighetti.

226 Cfr. Plutarch., Adv. Col., 1117 B = fr. 141 Us. 227 Cfr. Diog. Laert., X 25.

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supposto che trattasse dell’utilità delle leggi, dell’attività politica e della fama insicura che essa procura229. Ad ogni modo, la fonte principale che restituisce delle notizie su Colote è l’Adversus Colotem di Plutarco230, opera che si può leggere sotto due diversi aspetti: come fonte per la polemica di Epicuro e dei suoi primi discepoli contro altri filosofi, utile alla ricostruzione indiretta delle loro teorie; o come attestazione di prese di posizione plutarchee contro Colote e gli altri filosofi ed esposizione delle proprie ragioni filosofiche231. La polemica di Colote contro gli altri filosofi è un attacco generalizzato contro lo scetticismo, ossia contro l’atteggiamento di negazione della possibilità oggettiva del conoscere, cui non si sfugge quando si nega il valore della sensazione232. Questo era il

tema principale dell’opera di Colote di cui parla Plutarco, il Περὶ τοῦ ὅτι κατὰ τὰ τῶν ἄλλων φιλοσόφων δόγματα οὐδὲ ζῆν ἐστιν, e per la quale il filosofo di Cheronea accusa Colote di polemizzare contro gli altri filosofi con insolenza, rozzezza e buffoneria233,

nonostante in altri contesti lo abbia definito più misurato nel parlare234 rispetto a Epicuro e Metrodoro235.

L’opera era dedicata Tolomeo II Filadelfo (282 a.C.-246 a.C.), presso la corte del quale Colote aveva un ruolo importante236. Plutarco fin dal prologo dell’opera, menziona questa dedica per dimostrare l’incoerenza di Colote e più in generale quella degli Epicurei, che da un lato rigettano l’attività politica ma dall’altro indirizzano le loro opere filosofiche a dei monarchi237. Verosimilmente, la dedica probabilmente era un mezzo che utilizzavano gli Epicurei per accattivarsi la benevolenza dei politici, al fine di tutelare i cenacoli delle

229 Cfr. Kondo, 1974, p. 55.

230 Per un’esegesi dettagliata di quest’opera si consulti Aitia 3/2013

(http://aitia.revues.org/591?lang=it), in cui si trova una preziosa lettura dell’Adversus Colotem iniziata in occasione di un incontro internazionale tenuto all’ENS de Lyon nell’Aprile 2010 (cfr. Morel, 2013). Cfr. anche Kechagia, 2011; Corti, 2014.

231 Cfr. Isnardi Parente, 1988, p. 65.

232 Cfr. Vander Waerdt, 1988.

233 Cfr. Plutarch., Adv. Col., 1118 B.

234 Cfr. Plutarch., Non posse, 1086 E.

235 Cfr. Indelli, 2000, p. 45.

236 Cfr. Crönert, 1965, p. 13; Kechagia, 2011, p. 24.

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comunità microasiatiche. Questa esigenza era avvertita sia perché, fatta eccezione per il Giardino, gli altri circoli epicurei non avevano uno statuto ufficiale di scuola con relativo riconoscimento, sia perché in questo modo gli Epicurei stessi avevano la possibilità di essere agevolati nella ricerca di nuovi proseliti238.

Già a partire dall’inizio dell’opera plutarchea emerge tutta la forza critica dello scritto di Plutarco nei confronti di Colote, che viene attaccato in prima istanza dal punto di vista etico-morale e, quindi, anche per le sue convinzioni riguardo alla politica. In particolare, le tematiche politiche sono affrontate nell’ultima sezione dell’opera239 che si apre con una citazione diretta delle parole di Colote:

«τὸν βίον οἱ νόμους διατάξαντες καὶ νόμιμα κὰ τὸ βασιλεύεσθαι τὰς πόλεις καὶ ἄρχεσθαι καταστήσαντες εἰς πολλὴν ἀσφάλειαν καὶ ἡσυχίαν ἔθεντο καὶ θορύβωον ἀπήλλαξαν· εἰ δέ τις ταῦτα ἀναιρήδει, θηρύων βίον βιωσόμεθα καὶ ὁ προστυχὼν τὸν ἐντυχόντα μονονοὺ κατέδεται»240.

“Gli uomini che istituirono le leggi e gli usi e misero re e magistrati a capo delle città portarono la vita umana in una condizione di grande sicurezza e pace e la misero in salvo dal disordine. Ma se qualcuno portasse via tutto questo, noi dovremmo vivere come bruti e chiunque si imbattesse per caso nell’altro per poco non lo divorerebbe”.

Qui Colote, come aveva fatto Ermarco, torna alle origini e all’importanza che hanno avuto i primi uomini che hanno stabilito le leggi e gli usi e che hanno posto a governo della città i re e i magistrati. Colote apprezza il fatto che vi sia qualcuno al potere, perché in tal modo viene garantita la pace e la sicurezza di tutti, dato che così si prevengono più facilmente i tumulti. Riguardo a questo passo, Benferhat ha giustamente sottolineato il fatto che Colote distingua esplicitamente i re dai magistrati dividendoli in due diverse categorie241. Sulla base di ciò si puòinferire che Colote non aveva una preferenza per un regime monarchico o per un governo democratico o aristocratico. Semplicemente egli era interessato al fatto

238 Cfr. De Sanctis, 2011, pp. 217-230.

239 Cfr. Plutarch., Adv. Col., 30-34, 1124D-1127E e Roskam, 2013.

240 Plutarch., Adv. Col., 30, 1124D. 241 Cfr. Benferhat, 2005, p. 41.

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che fosse istituito un governo a tutela della società, elemento fondamentale per avere la garanzia della tranquillità e della sicurezza. Nel brano citato, infatti, viene detto esplicitamente che la sottomissione al potere politico detenuto da altri è l’assicurazione contro il ritorno degli uomini alla condizione bestiale. L’uomo, non essendo un animale sociale per natura, tende a cercare solo il proprio benessere anche a scapito degli altri. Quest’atteggiamento, tuttavia, rischia di nuocere a se stessi, come è stato dimostrato nella genealogia ermarchea della legge sull’omicidio242. Di nuovo qui torna la necessità di dotarsi delle leggi, necessarie per avere la certezza di non subire danno dagli altri e di mantenere l’ordine. Colote prosegue il brano dicendo che, qualora si mettessero da parte le legislazioni e i governi, tutti vivrebbero come bruti. Questo ritorno alla vita bestiale implica la convinzione che gli uomini non sappiano convivere tra loro, in quanto senza delle regole essi rischiano di divorarsi e di sopraffarsi. Questa era la situazione primitiva in cui vigeva solo la legge del più forte e che non garantiva la sicurezza, condicio sine qua non indispensabile per l’ottenimento della felicità per ogni Epicureo. Interpretando in termini epicurei il passo, la critica seguente che viene rivolta da Plutarco non rispecchia adeguatamente le parole di Colote e ha l’obiettivo di malinterpretare il suo pensiero. Egli, infatti, dà per scontato che gli Epicurei distruggerebbero le leggi, trascurando la divina provvidenza e la virtù e ponendosi come fine ultimo soltanto il piacere del ventre243. Nella sua argomentazione Plutarco associa gli Epicurei alle belve che non fanno altro che seguire i loro istinti primari, senza curarsi di quelle cose che sono proprie dell’uomo244. Anche se si lascia da parte in questo contesto il modo distorto in cui Plutarco interpreta il piacere epicureo, la posizione plutarchea dimostra di essere, come al solito, tendenziosa. Sottostare alle leggi e stabilire dei patti con chi governa sono azioni che secondo gli Epicurei non possono essere compiute dagli animali, privi di raziocinio. Sebbene, come è stato ribadito più volte, l’uomo secondo Epicuro non sia portato per natura a essere un animale sociale, questo non vuol dire che gli Epicurei siano da paragonare alle bestie. Colote qui, benché non espliciti la sua posizione in modo adeguato, sta riproponendo in un contesto diverso le posizioni del Maestro. Dire che se non ci fossero leggi gli uomini si darebbero battaglia e

242 Cfr. supra, pp. 117-125.

243 Cfr. Plutarch., Adv. Col., 1124 E-1125 A; cfr. supra, p. 16, n. 38.

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farebbero di tutto per prevalere sugli altri, non significa sottintendere che gli Epicurei compirebbero tali nefandezze. Come è stato dichiarato dallo stesso Epicuro, infatti:

«Ὁ τὰ πέρατα τοῦ βίου κατειδὼς οἶδεν, ὡς εὐπόριστόν ἐστι τὸ 〈τὸ〉 ἀλγοῦν κατ’ ἔνδειαν ἐξαιροῦν καὶ τὸ τὸν ὅλον βίον παντελῆ καθιστάν˙ ὥστε οὐδὲν προσδεῖται πραγμάτων ἀγῶνας κεκτημένων»245.

“Chi conosce quali sono i limiti della vita sa che agevole è conseguire la liberazione dal dolore di quanto manca, e ciò che ordina, sì da essere perfetta, tutta la vita; cosicché non ha bisogno di cose che comportino lotta”.

Colote, quindi, è chiaramente vicino a quello che era stato sostenuto da Epicuro. A differenza del fondatore del Giardino, ha soltanto mostrato cosa sarebbe accaduto se si fosse tornati allo stato di natura. Sebbene, dunque, gli Epicurei sperassero che un giorno si sarebbe potuto vivere in una società eticamente orientata verso il fine epicureo, erano consapevoli del fatto che su larga scala questo loro auspicio era irrealizzabile. Per tale motivo attribuivano una grande importanza alla loro piccola comunità, che viveva in disparte rispetto al resto della società, e ritenevano che il diritto fosse fondamentale per garantire un certo ordine, pur credendo che avesse un valore d’uso e non che questo fosse intrinseco alla giustizia stessa.

Benché la continuazione del testo dell’Adversus Colotem sia molto interessante non si procederà oltre con l’analisi dei paragrafi successivi, dato che non sembra che vi siano altre citazioni dirette dell’opera di Colote che possano essere utili ai fini dell’analisi che si sta conducendo. Plutarco, infatti, prosegue i suoi attacchi polemici riferendosi agli Epicurei in generale e in particolar modo a Epicuro, cui il pensiero di Colote si uniforma.

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