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nell’Oedipus di Seneca e nel mito ovidiano di Mirra f rancesca r oMana B erno

1. Colpa e punizione nell’Edipo

Edipo, e in particolare l’Edipo di Seneca2, si sostanzia nel senso di colpa, rifiutando ogni possibile scusante3: non a caso, nella trage- dia omonima le ricorrenze del lessema poena sono tutte all’interno di discorsi diretti del re con riferimento a se stesso, ad eccezione delle ultime due, pronunciate da Giocasta nel momento del suicidio4. In particolare, poena ricorre in tre punti chiave del monologo dell’auto- accecamento: all’inizio, nella prima battuta del re dopo l’agnizione (v. 926: quid poenas moror?)5; nel corso del ragionamento, quando scarta come troppo sbrigativo il suicidio di spada (vv. 936-937: …tam magnis breves / poenas sceleribus solvis…?); e alla fine, quando si dichiara sod- disfatto della sua autopunizione (v. 976: iam iusta feci, debitas poenas tuli). Questo termine si configura dunque anche sul piano strutturale come concetto chiave del monologo. La pena, necessaria per purifi- care la città, deve essere straordinaria perché commisurata alla colpa del re: questa viene percepita e descritta come superiore, per gravità ed empietà, a qualsiasi altra, in quanto sovversiva dei più elementari rapporti di parentela con entrambi i genitori6, e di conseguenza di- struttiva per la casa regnante7, che una successione del potere illecita, perché fondata prima su un assassinio e poi su un esilio, condanna all’autodistruzione.

Non stupisce, date queste premesse, che l’autore dedichi ampio spazio all’identificazione, alla messa in atto e (nelle Phoenissae) alla rimeditazione della punizione adeguata per una simile colpa: identi- ficazione particolarmente complessa, dal momento che le colpe sono

2 condello 2012; palMieri 1983; paduano 1993.

3 Mader 1995; henry-Walker 1983, 134; park poe 1983; fitch-Mcelduff 2002, 22-24;

Mazzoli 2016a; Braund 2016, 39-43.

4 Cfr. vv. 222, 292, 529, 926, 937, 976 (Edipo); 1025 e 1030 (Giocasta). 5 Come nota töchterle 1994, 587 ad 926.

6 petrone 1984, 58-61; Guastella 1985, 101-107; lentano 20007, 182-183; v. anche infra n. 18. 7 petrone 1999; Berno 2016.

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due, entrambe gravissime. Un significativo ma piuttosto enigmatico aiuto in tal senso viene dal fantasma di Laio. Nella scena culminante della negromanzia8, il vecchio re prende la parola accusando il figlio per la peste a Tebe, ed elencando i suoi delitti (vv. 630-640):

…Patria, non ira deum, sed scelere raperis: …

sed rex cruentus, pretia qui saevae necis 634 sceptra et nefandos occupat thalamos patris – invisa proles, sed tamen peior parens quam gnatus, utero rursus infausto gravis – egitque in ortus semet et matri impios fetus regessit, quique vix mos est feris, fratres sibi ipse genuit.

Si noti come Laio dedichi al parricidio un solo verso, il 634, mentre si sofferma sull’incesto e sulle sue conseguenze per sette versi. Il re pas- sa poi alla punizione adeguata (vv. 643-648), chiaramente identificata con l’esilio (v. 648: agite exulem), e conclude con un’esortazione violenta ma ambigua: eripite terras, auferam caelum pater, v. 658.

Il fantasma, che si autodefinisce inultus e invoca la messa al ban- do del figlio, rispecchia precisamente l’oracolo, che aveva ordinato di mandare in esilio l’assassino del re invendicato (vv. 217-218: caedem expiari regiam exilio deus / et interemptum Laium ulcisci iubet)9. Ma, men- tre Apollo nel suo responso aveva dato rilievo al solo parricidio – caedes appunto – Laio, come si è visto, cita entrambe le colpe, accordando maggior rilievo all’incesto. E inoltre, all’immagine della privazione della terra, evidente riferimento all’esilio, associa il suo personale veto sul cielo10. Un veto che aveva già espresso su Edipo appena nato: il vecchio Forbante, colui che aveva affidato il neonato ad un uomo di Corinto, sostiene che il bambino, a suo avviso, era destinato a morire a causa dell’infezione alle caviglie, forate dal padre con un fil di ferro: non potuit ille luce, non caelo frui, v. 854. Il fantasma di Laio non fa che ripetere quanto aveva cercato di imporre da subito al figlio non voluto.

8 Su cui cfr. töchterle 1994, 471-484; petrone 1986-1987, 136-137; palMieri 1989, 187-189;

Boyle 2011, 258-262. I vv. 636-637, espunti da zWierlein 1976, 196 e nella sua edizione delle tragedie, vengono mantenuti, seppure con qualche esitazione, da Boyle 2011, 259 ad l.

9 Mazzoli 2016b, 302-303.

10 Cfr. Ov. met. 8, 97-98 (Minosse a Scilla, traditrice del padre e della patria): ‘di te

Edipo darà seguito alle parole del padre, rifiutando di ricorrere alla spada e augurandosi una morte ripetuta (vv. 945-947: …iterum vivere atque iterum mori / liceat, renasci semper ut totiens nova / suppli- cia pendas…)11, una mors [...] longa (v. 949) che lo escluda dai vivi e dai morti (vv. 950-951: …nec sepultis mixtus et vivis tamen / exemptus erres: morere, sed citra patrem), apostrofando se stesso con la seconda persona singolare, come aveva fatto Laio. La pena troverà dunque realizzazione compiuta su due livelli: sul piano fisiologico, con l’au- toaccecamento che lo priva della luce12, dunque della fruizione del caelum; su quello sociale e psicologico, con l’esilio, che gli sottrae il potere e la terra, radicalizzando in tal modo quanto avveniva in So- focle, dove il re veniva esautorato e rinchiuso nei recessi della reggia. L’esilio realizza gli auspici di Laio e di Edipo: viene infatti percepito e descritto, secondo un frequentatissimo luogo comune, come una condizione simile a quella di un morto vivente13.

La punizione è stata interpretata in modo molto convincente da Mader, e successivamente da Boyle14, come riferimento alla pena dei parricidi, a proposito della quale la fonte più dettagliata è un cele- bre passo di Cicerone (Rosc. 71). Anche in questa pena, il colpevole veniva escluso, forse per evitare la contaminazione, dalla fruizione della terra (in quanto costretto a calzare alti zoccoli in legno, e gettato in mare) e del cielo (incappucciato e chiuso in un sacco). Autoacce- camento ed esilio corrispondono molto bene a questi criteri, con in aggiunta, rispetto a quella pena, la durata, caratteristica su cui Edipo insiste particolarmente.

D’altra parte, questa interpretazione legge implicitamente nelle parole di Laio una sorta di preferenza accordata alla colpa di par- ricidio: preferenza che parrebbe ovvia da parte sua, e però come abbiamo visto non trova riscontro nelle parole del fantasma, il qua- le si mostra altrettanto angosciato dal perturbamento della casa re-

11 Facendo dunque sua una formula di maledizione che troviamo già nell’Ibis di Ovidio,

195: nec mortis poenas mors altera finiet huius (cfr. 162: et brevior poena vita futura tua est).

12 petrone 1988-1989, 254.

13 Dell’ampia bibliografia, riferita per il mondo romano soprattutto a Cicerone e Ovi-

dio, mi limito a rimandare ai lavori di claassen 1996 e deGl’innocenti pierini 1998 e 1999. Sull’esilio di Edipo, inizio e fine del dramma, ancora deGl’innocenti pierini 2012, 89-95.

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gnante quanto dall’oltraggio subito, anzi, più preoccupato per la sua città, dunque per la dinastia, che per se stesso, che comunque verrà placato dalla vendetta15.