s
alvatoreM
ondaNe mox erretis sono le parole con cui il prologo dei Menaechmi avverte il suo pubblico che i due fratelli gemelli, già descritti ai vv. 17-22 come perfettamente identici1, hanno anche lo stesso nome2: gli spettatori de- vono possedere delle conoscenze preliminari per poter assistere a una commedia degli equivoci, basata su continui scambi d’identità3. Prima di entrare completamente nei panni del personaggio che agisce in scena, una simile funzione esplicativa è assunta anche dal dio Mercurio quan- do nel prologo dell’altra commedia plautina che ha per protagonisti dei simillimi, l’Amphitruo, ai vv. 142-147, spiega al pubblico attraverso quali segni si possano riconoscere i protagonisti: la differenza tra Mercurio e Sosia sta nelle alucce dorate che il dio ha in evidenza sul suo copricapo (petasus) e che nell’identico berretto del servo sono assenti; in quanto a Giove, l’attore che ne ricopre il ruolo porta sotto il cappello una treccioli- na d’oro4. Si noterà l’uso dello stesso verbo, internosse, impiegato dai due prologhi: nei Menaechmi rappresenta l’incapacità persino della madre di riconoscere i propri figli gemelli, mentre nell’Amphitruo si riferisce alla possibilità, per gli spettatori, di distinguere i doppi.
1 Mercator quidam fuit Syracusis senex, / ei sunt nati filii gemini duo, / ita forma simili
pueri, ut mater sua / non internosse posset quae mammam dabat, / neque adeo mater ipsa quae illos pepererat, / ut quidem ille dixit mihi, qui pueros viderat.
2 Ne mox erretis, iam nunc praedico prius: / idem est ambobus nomen geminis fratribus. 3 Così, per distinguere i due fratelli, nel corso della commedia Plauto farà in modo
che Menecmo II porti sempre con sé la palla, il mantello sottratto da Menecmo I alla propria moglie per farne dono alla cortigiana Erotio, ma che quest’ultima consegna all’ignaro Menecmo II (credendolo il proprio amante) per farvi apporre qualche modifica dal sarto. Vd. questa 2004, 70-72.
4 Nunc internosse ut nos possitis facilius, / ego has habebo usque in petaso pinnulas; / tum
meo patri autem torulus inerit aureus / sub petaso: id signum Amphitruoni non erit. / ea signa nemo horum familiarium / videre poterit: verum vos videbitis.
A ben vedere simili segni distintivi – ai quali penso vada asso- ciata anche una differente resa delle parti dei vari protagonisti5 – si rendono necessari non tanto nelle scene in cui i personaggi identici agiscono insieme6, quanto soprattutto in quelle in cui essi recitano separatamente, innescando così la confusione e gli equivoci negli altri personaggi, ma consentendo allo spettatore di mantenere un livello superiore di conoscenza. La somiglianza dei simillimi è totale e riguarda anche i particolari del volto, come osserva in un famoso a parte (Amph. 441-446) uno di loro, Sosia, quando si trova davanti il suo doppio:
Certe edepol, quom illum contemplo et formam cognosco meam,
quem ad modum ego sum (saepe in speculum inspexi), nimis similest mei; itidem habet petasum ac vestitum: tam consimilest atque ego;
sura, pes, statura, tonsus, oculi, nasum vel labra, malae, mentum, barba, collus: totus. quid verbis opust? si tergum cicatricosum, nihil hoc similist similius.
Scene come questa, è stato osservato, si giustificano solo se i due attori in scena siano perfettamente uguali7: identici la statura, il costume, il copricapo, i capelli, la barba e, soprattutto, il volto, ovvero la maschera8.
5 Sosia, Anfitrione e Menecmo I cantano e recitano, mentre Mercurio, Giove e
Menecmo II recitano soltanto. Vd. Monda 2012.
6 Nella lunga scena iniziale dell’Amphitruo si trovano faccia a faccia Mercurio e Sosia
(143-462); l’incontro tra Giove e Anfitrione avviene presumibilmente nella lacuna tra il v. 1034 e il v. 1035 (frr. XV-XX) e prosegue ai vv. 1035-1039. Nei Menaechmi i due fratelli si incontrano nella scena finale (1060-1162).
7 In questa scena l’unica differenza tra i due, oltre che nelle alucce dorate di
Mercurio naturalmente, sembra consistere nella lanterna che Sosia porta in mano (v. 149): è probabile che l’oggetto fosse utile ad individuare il personaggio anche agli spettatori più lontani dal palcoscenico; i cambi di posizione dei due attori durante le fasi più concitate della scena potrebbero aver reso necessario quest’altro signum.
8 Sono lieto di dedicare questo lavoro sull’uso della maschera nel teatro
romano a Gianna Petrone, che sull’argomento ha scritto pagine notevoli per acume critico, sapiente uso delle fonti e capacità di sollevare questioni spesso trascurate da altri studiosi. È mia intenzione prendere parte alla discussione proprio traendo spunto dalle riflessioni e dalle domande poste da Gianna Petrone (vd. più avanti). Il problema dell’uso della maschera all’epoca di Plauto e di Terenzio, comunque, non è di facile soluzione e resta, a mio modo di vedere, ancora aperto.
183
Quando si pensa a una performance teatrale nell’antica Roma la prima immagine che si affaccia alla nostra mente è quella di un palcoscenico di medie o piccole dimensioni sul quale gli attori re- citano indossando una maschera. Tale rappresentazione è con ogni evidenza influenzata dall’imponente apparato iconografico che è spesso presente nei nostri libri9, o che oggi è facile rinvenire an- che in rete, benché molti di noi siano consapevoli che nella maggior parte dei casi una simile iconografia non appartenga all’età repub- blicana, bensì ad epoche più tarde, o che comunque abbia subito la forte influenza della scena greca, per la quale l’uso della maschera nei generi teatrali più antichi non è stato mai messo in dubbio10. L’opinione comune al giorno d’oggi è che anche gli attori romani la indossassero, un’opinione che, tuttavia, si è lentamente diffusa tra gli studiosi, giacché solo dagli anni Cinquanta del secolo scorso si è via via imposta, probabilmente a partire dall’uscita degli importanti lavori di William Beare11 e George E. Duckworth12, non a caso due libri nei quali i vari aspetti della tecnica teatrale e della performance assumono una posizione di maggiore rilievo rispetto agli studi che li hanno preceduti. Tuttavia, come ben sanno gli specialisti del set- tore, le fonti sembrano indirizzarci in senso affatto contrario. Così un tempo molti degli studiosi che si sono dedicati alla produzione drammatica romana – in un’epoca in cui la filologia classica si mo- strava più attenta agli aspetti letterari e critico-testuali che a quelli propriamente teatrali e legati alla realizzazione scenica13 – aveva-
9 Mi riferisco non solo a BieBer 1961, ma anche ad altri volumi, sicuramente meno
impegnati sul piano della tecnica teatrale antica, ma nei quali comunque figurano delle illustrazioni.
10 Sull’importanza della maschera in relazione alla sua funzione scenica nel teatro
greco vd. soprattutto Wiles 2007.
11 Lo studioso si è occupato dell’argomento sia nel cap. XXIV di The Roman Stage (la
cui prima edizione è del 1950), sia, anni prima, in un articolo apparso su «Classical Quarterly» 33, 1939, 139-146, e poi confluito, con minime variazioni, in appendice a The Roman Stage a partire dalla seconda edizione del 1955 (vd. ora Beare 1964, 184- 195 e App. I, 303-309).
12 duckWorth 1952, 92-94. Sull’opinione diffusa ai suoi tempi lo studioso scrive (p. 92):
«The traditional view [...] and the one found in almost all handbooks and literary histories states that masks were not introduced at Rome until after the death of Terence».
13 Tale dicotomia, che nasce da due differenti approcci allo studio dei testi teatrali, è
no sostenuto che all’epoca di Plauto, e forse ancora con Terenzio, la recitazione non prevedesse l’uso della maschera. A tutt’oggi non mancano autorevoli voci a favore di tale tesi14.
14 Una rapida, e sommaria, rassegna delle due posizioni negli studi più importanti.
Oltre ai lavori di Beare e Duckworth, si vedano: riBBeck 1875, 660-662 (sulla base di Diomede, su cui vd. più avanti, sostiene che la maschera sia stata introdotta all’epoca di Pacuvio e che in precedenza gli attori facessero uso di parrucche colorate e di un trucco per il volto); hoffer 1877 (dedica all’argomento un’ampia dissertazione e mette in risalto come i riferimenti al volto e alla mimica facciale in Terenzio indirizzino verso un uso più tardo della maschera); van WaGeninGen 1907, 33-41 (riesamina tutte le fonti e sostiene che l’innovazione della maschera risalga all’età di Terenzio); saunders 1911 (la studiosa esamina le fonti e giunge alla conclusione che l’introduzione della maschera risalga all’incirca al 130 a.C. per influenza greca); GoW 1912 (la prima puntuale e serrata critica all’interpretazione tradizionale); BieBer 1961, 154 s. (la studiosa, cambiata opinione rispetto alla prima ediz. del 1939, si pronuncia a favore della maschera); della corte 1975, passim (lo studioso si è occupato della maschera a più riprese, schierandosi sempre contro il suo impiego all’epoca di Plauto); kinsey 1980 (pensa a un uso della maschera saltuario, dipendente dai testi, dalle compagnie, dalle epoche; nelle commedie con personaggi doppi è più probabile che gli attori la indossassero); GratWick 1982, 83 (sostiene non si possa credere che il teatro plautino «could have borrowed the plots, verse-form and costume of the Greek tradition, but not its masks»); questa 1982, 18 n. 13 (ne sostiene l’uso, ma ammette che, in relazione alle maschere fisse, che dovevano essere note al pubblico, non cambi nulla qualora si ipotizzi l’impiego di una truccatura del volto); chiarini 1983, 251-253 (decisa negazione dell’uso di maschere, sebbene nella prima ediz. del 1979, di cui quella del 1983 riproduce anastaticamente il testo con aggiunte in appendice, a p. 38 n. 35, si sia espresso a favore; chiarini 1989, 140-143 ribadisce la nuova posizione); dupont 1985, 81 (sulla base del passo di Diomede, gramm. I 489 Keil, su cui vd. oltre, la studiosa ritiene che l’invenzione della maschera si debba a Roscio, a causa dello strabismo che gli avrebbe impedito di recitare in determinati ruoli); Wiles 1991, 129-149 (soprattutto 132 s., in cui si pronuncia a favore della maschera, che i Latini avrebbero tratto dai Greci insieme ai testi e alle altre convenzioni sceniche); petrone 1992 (maschera utilizzata a partire da Terenzio, senza tuttavia che il suo impiego diventasse esclusivo: p. 385); Marshall 2006, 126-158 (presuppone l’uso della maschera in quello che è lo studio più particolareggiato sulla sua funzione nel teatro romano; a p. 126 n. 1 scrive: «It seems perverse to propose an intermediary unmasked stage of comic development»); ManuWald 2011, 79 s. (favorevole: la studiosa ammette che le fonti sono contraddittorie, ma con duckWorth 1952, 94, osserva che, se persona ad un certo punto assume il significato di ‘personaggio’, il senso originario di ‘maschera’ deve essere precedente e molto antico). Dossografia delle due posizioni, con ulteriore bibliografia, in calaBretta 2015, 118-123. Nel tempo si sono anche affermati dei pareri intermedi, o dei tentativi di conciliare i dati delle fonti con la presunta evidenza dei testi teatrali. Il primo che abbia avanzato qualcosa del genere, a quel che sembra, è sWoBoda 1954, 173 ss. e 187-190, il quale tenta, con
185
In questo lavoro vorrei riprendere la questione dei simillimi in com- medie come l’Amphitruo e i Menaechmi per considerare alcuni aspetti, relativi alla tecnica teatrale, che sembrano orientarci verso un uso del- la maschera a Roma fin dai tempi più antichi; ma, soprattutto, vorrei tentare una riflessione sui motivi per cui le nostre fonti, per quanto si dimostrino tra loro discordanti nei dettagli, attestino in maniera abba- stanza concorde un uso della maschera soltanto in epoca più recente. Come ha giustamente osservato Gianna Petrone, spetta ai sostenitori della maschera di fornire delle prove convincenti e, soprattutto, di ten- tare una spiegazione di come si sia sviluppata una tradizione gramma- ticale antica sfavorevole al suo impiego sulla scena romana più antica15.
Per l’età tardo-repubblicana sembra abbastanza certo che la ma- schera venisse indossata nei generi teatrali di tradizione greca. Cicero- ne nel secondo libro del De oratore (193) parla dell’attore che, recitando l’Antiopa e il Teucer di Pacuvio, raggiungeva una tale immedesimazio- ne nel personaggio che gli occhi gli brillavano attraverso la maschera (tamen in hoc genere saepe ipse vidi, ut ex persona mihi ardere oculi hominis histrionis viderentur eqs.). La cothurnata, quindi, all’epoca di Cicerone – o comunque all’inizio del I secolo a.C. – prevedeva l’uso della ma- schera. Anche per la palliata non sussistono particolari dubbi. Tuttavia Cicerone, sempre nel De oratore (3, 221), a proposito della predominan- za degli occhi nell’espressione del volto, sostiene che i vecchi romani16 avevano ben capito tutto ciò, al punto che non applaudivano molto neppure il famoso Quinto Roscio quando recitava con la maschera:
una buona dose di razionalismo, di far coincidere le fonti che, in maniera tutt’altro che concorde, trattano del problema: all’inizio la maschera la portano solo gli attori di Atellana per non farsi riconoscere in quanto non professionisti, mentre gli altri si tingono semplicemente il volto; in seguito viene utilizzata da Nevio in un commedia intitolata Personata (Festo); poi ne fa uso Terenzio per l’Eunuchus nel 161 e per gli Adelphoe nel 160 (Donato); quindi si diffonde l’abitudine di non usare la maschera; infine, da Roscio in poi, l’impiego della maschera per gli attori diventa comune (Diomede). Differente l’ipotesi di fanthaM 2002, 365, secondo la quale l’uso della maschera, comune all’epoca di Plauto e Terenzio, successivamente sarebbe caduto in disuso e poi nuovamente ripristinato in epoca più tarda. Anche Boyle 2006, 147 crede alla teoria della reintroduzione della maschera all’epoca di Roscio.
15 petrone 1992, 374.
16 fanthaM 2002, 365 opportunamente nota come qui Cicerone abbia attribuito un
proprio ragionamento al personaggio di Crasso, adattandolo all’epoca in cui si svolge il dialogo (il 91 a.C.).
sed in ore sunt omnia, in eo autem ipso dominatus est omnis oculorum; quo melius nostri illi senes, qui personatum ne Roscium quidem magno opere laudabant; animi est enim omnis actio et imago animi vultus, indices oculi.
Da queste parole sembra che Roscio a volte portasse la maschera e a volte no17, oppure che avesse cominciato ad usarla solo da un certo momento in poi della sua professione di attore18. Ma è anche possi- bile che non la indossasse quando era impegnato nella recitazione di mimi, un genere che fin dalle sue origini ha come caratteristica princi- pale l’assenza della maschera, mentre non ne facesse a meno durante gli spettacoli di palliata e togata: per uno schiavo come Roscio, libera- to sotto Silla, possiamo ipotizzare che, almeno agli inizi della carriera, la sua arte non si limitasse ai generi comici più nobili.
Esiste ancora un’altra testimonianza di Cicerone, che nel De di- vinatione, rivolgendosi al fratello Quinto, ricorda le espressioni del volto e i movimenti dell’amico Esopo, il noto attore (1, 80):
equidem etiam in te saepe vidi et, ut ad leviora veniamus, in Aesopo, familiari tuo, tantum ardorem vultuum atque motuum, ut eum vis quaedam abstraxisse a sensu mentis videretur.
Non è detto, però, che qui Cicerone faccia riferimento all’attività teatrale dell’amico; l’ardore dell’espressione e dei movimenti è propria anche del fratello Quinto oltre che di Esopo: è probabile che l’esempio sia tratto da episodi della vita quotidiana piuttosto che da quella pro- fessionale. L’inciso ut ad leviora veniamus non va inteso esclusivamente come un passaggio a un’arte meno nobile rispetto all’oratoria (il tea- tro), ma può trattarsi di un riferimento allo «status sociale dell’attore (spesso di origini umili e addirittura servili) [...] considerato inferiore a quello dell’uomo politico e anche del poeta e dello scrittore»19.
Per l’età imperiale l’uso della maschera pare abbastanza certo: Quintiliano, inst. 11, 3, 73 s. sostiene che gli attori di teatro esprimano i sentimenti anche a personis e subito dopo fa l’esempio della masche- ra del senex con doppio profilo20. Ma per le epoche precedenti all’età
17 Così ad es. sandBach 1977, 111.
18 Per Boyle 2006, 147 n. 14, Roscio agli inizi della sua carriera avrebbe recitato senza
maschera e successivamente con la maschera (vd. anche sopra n. 14).
19 tiMpanaro 1988, 293 n. 218.
187
di Silla le fonti erudite e grammaticali ci forniscono testimonianze piuttosto problematiche. Per i donatiani Excerpta de comoedia 6, 3 la maschera sarebbe stata introdotta in scena per la prima volta dagli attori Cincio Falisco e Minucio Protimo, che l’avrebbero adoperata – rispettivamente – nella commedia e nella tragedia:
personati primi egisse dicuntur comoediam Cincius Faliscus, tragoediam Minucius Prothymus.
L’epoca è quella di Terenzio21 e Donato, nel commentare il com- mediografo, segnala anche i casi in cui gli attori Minucio Protimo e Ambivio Turpione fecero uso della maschera. Nell’Eunuchus (ad Eun. praef. I 6):
acta plane est ludis Megalensibus L. Postumio L. Cornelio aedilibus curulibus, agentibus etiam tunc personatis L. Minucio Prothymo L. Ambiuio Turpione
e negli Adelphoe (ad Ad. praef. I 6):
haec sane acta est ludis scenicis funebribus L. Aemilii Pauli, agentibus L. Ambivio et L. <Minucio Prothymo> qui cum suis gregibus etiam tum per- sonati agebant.
Un’altra testimonianza è fornita da Donato nel commento al v. 716 dell’Andria:
et vide non minimas partes in hac comoedia Mysidi attribui, hoc est personae feminae: sive haec personatis viris agitur, ut apud veteres, sive per mulierem, ut nunc videmus.
Al tempo di Donato, quindi, era possibile vedere recitare anche attrici donne, senza maschera, in ruoli che un tempo sarebbero stati affidati solo a uomini con la maschera. Peccato, però, che non sia pos- sibile collocare in una precisa epoca un’espressione come apud veteres: si riferisce al tempo di Plauto, a quello di Terenzio, o addirittura a quello di Cicerone?
Secondo il grammatico Diomede (I 489 Keil), invece, quella della maschera fu una novità da attribuire a Quinto Roscio Gallo, il famoso
21 Beare 1964, 193 suppone che il testo possa anche intendersi nel senso che Cincio
Falisco e Minucio Protimo furono i primi attori romani di nascita (quindi personati dovrebbe equivalere ad ‘attori’). Una simile interpretazione lo studioso dà anche del passo di Cicerone (de or. 3, 221) citato sopra.
attore contemporaneo di Cicerone, per nascondere il suo strabismo. Prima di allora si sarebbero usate solo delle parrucche, i cui colori indicavano l’età (e il ruolo) del personaggio:
antea itaque galearibus non personis utebantur, ut qualitas coloris indicium faceret aetatis, cum essent aut albi aut nigri aut rufi. personis vero uti primus coepit Roscius Gallus, praecipuus histrio, quod oculis perversis erat nec satis decorus in personis nisi parasitus pronuntiabat.
Beare sostiene – a mio parere a ragione – che il già citato passo in cui Cicerone ricorda Roscio (de orat. 3, 221) possa avere influenzato Diomede22.
L’uso della maschera sembra essere una delle poche cose certe che caratterizza il genere della farsa atellana23. La testimonianza più im- portante in tal senso è quella di Festo p. 238 L., a proposito di una commedia di Nevio, la Personata:
Personata fabula quaedam Naevi inscribitur, quam putant quidam primum <actam> a personatis histrionibus. sed cum post multos annos comoedi et tragoedi personis uti coeperint, verisimilius est eam fabulam propter inopiam comoedorum actam novam per Atellanos, qui proprie vocantur personati; quia ius est is non cogi in scena ponere personam, quod ceteris histrionibus pati necesse est24.
Secondo Festo non è del tutto sicuro che la Personata si intitolasse così per essere stata la prima commedia messa in scena da attori in ma- schera: il lessicografo, aderendo alla tradizione secondo cui l’uso della maschera sia stato introdotto sulla scena romana più tardi dell’epoca di Nevio, preferisce ipotizzare che in una successiva ripresa di quella commedia, a causa della mancanza di attori professionisti, si sia fatto ricorso ad interpreti di Atellana e che quindi l’opera abbia assunto il
22 Beare 1964, 193 e 304. Stessa opinione in kinsey 1980, 53 e Marshall 2006, 127 n. 6.
Del resto, notano Beare e Kinsey, Diomede poteva aver tratto anche la notizia sullo strabismo di Roscio da un altro passo sempre di Cicerone: nat. deor. 1, 79.
23 Riprendo in parte quanto ho scritto in Monda 2013, 100 s.
24 «Personata s’intitola una commedia di Nevio, che alcuni ritengono sia stata la prima
ad essere rappresentata da interpreti in maschera. Ma, poiché gli attori comici e tragici iniziarono a fare uso della maschera solo molti anni dopo, è più probabile che quella commedia, a causa della mancanza di attori, sia stata nuovamente rappresentata da interpreti di Atellana, detti propriamente personati (portatori di maschera), poiché la legge non li costringe a deporre la maschera sulla scena, ciò che invece devono fare tutti gli altri attori».
189
titolo Personata grazie a coloro i quali l’hanno recitata in quell’occasio- ne. Inoltre – continua Festo –, gli attori di Atellana erano detti personati perché era loro consentito di non deporre la maschera sulla scena: pro-