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Com’’è noto, il De finibus e le Tusculanae, entrambe in 5 libri 23 ,

Nel documento Leopardi fra Omero e Virgilio in A Silvia (pagine 117-124)

II 5 La mitezza di Marco si manifestò anche nel comportamento ver-

02. Com’’è noto, il De finibus e le Tusculanae, entrambe in 5 libri 23 ,

sono due opere strettamente collegate tra loro dall’’argomento svolto, la ricerca del sommo bene considerato in sé e in rapporto all’’agire umano, nodo fondamentale dell’’etica ellenistica. Mentre la prima opera discute il problema sul piano teorico, tenta di mettere d’’accordo Stoi- ci, Accademici e Peripatetici, e giunge a una conclusione problematica, perché se è vero che il sommo bene è quello dell’’anima e coincide senz’’altro con la virtù, come sostiene Cicerone in accordo con la dot- trina stoica, non è altrettanto sicuro per la dottrina accademico- peripatetica che la virtù sia l’’unico bene; la seconda opera invece sot- topone a verifica sul piano pratico il suddetto principio che identifica il sommo bene nella virtù e la virtù nel massimo grado di felicità, mettendolo a confronto con la mutevolezza e l’’imprevedibilità della vita. Le Tusculanae affrontano dunque, secondo un piano unitario e sistematico, al di là di qualche ripetizione e qualche pesantezza espositiva, dovute al loro carattere divulgativo –– nel senso alto del termine ––, tematiche che toccano le radici profonde dell’’esistenza in- dividuale, cercando di dare risposta alle ‘‘tesi’’ seguenti: ‘‘se la morte sia un male (lib. I), ‘‘se il dolore fisico è il più grande dei mali’’ (lib. II), ‘‘se il saggio è soggetto alle afflizioni dello spirito’’ (aegritudo, lib. III) ‘‘se il saggio è soggetto alle altre passioni’’ (perturbationes lib. IV)’’, infine ‘‘se la virtù basta da sola per ottenere la felicità (lib. V), assunto che, come dice Cicerone, «più degli altri dà splendore alla filosofia», ma che ave- va suscitato un dibattito molto articolato già all’’interno dello Stoici- smo stesso, del quale ci viene fornita un’’informazione dettagliata nel

De finibus24. Dopo aver risposto che la morte e il dolore non sono mali,

che il saggio è inaccessibile all’’afflizione, all’’angoscia e a tutti gli altri

23Nessuna delle due opere ha tratti di vera originalità ed esse rivelano piuttosto i

caratteri di un lavoro di compilazione, di cui si mostra consapevole per primo forse l’’autore stesso, al di là della topica professione di modestia, cfr. per es. Att. 12.57 [52],3: ajpovgrafa sunt; minore labore fiunt, uerba tantum adfero, quibus abundo. Bisogna comunque con Narducci, Cicerone, la parola e la politica, Roma-Bari 2009, 392 s., tener presenti anche i numerosi passi in cui egli si vanta «di avere dato alla sua patria [...] una letteratura filosofica in forma artistica, basata su un personale ripensamento delle varie correnti del pensiero ellenistico».

2 4Cfr. ad es. fin. 3.20 ss.; 50 ss.; 58 s.; 4.78. Si ricordino in proposito le due metafore

dell’’arciere e dell’’attore. Il grosso problema era quello dello spazio di valore da assegnare agli ‘‘indifferenti’’, ai ‘‘preferibili’’, cioè a quelle polarità positive che sono secondo natura (la vita, la salute, la bellezza, la ricchezza, ecc.) e che sul piano morale hanno i loro corrispettivi nel conveniente (ta; kaqhvkonta, officia: onorare i genitori, la patria, avere buoni rapporti con gli amici, ecc.). Per un’’informazione dettagliata su questi problemi vd. per es. M. Vegetti, L’’etica degli antichi, Roma-Bari 1989, 282 ss.

turbamenti interiori, egli affronta dunque nell’’ultimo libro la ‘‘tesi’’ più impegnativa, l’’autarchia della virtù, vista come garante suprema dell’’unica e vera felicità25. Le linee-guida del ragionamento di Cicero-

ne su questo problema fondamentale, non sempre in verità nitidissi- me, possono essere così riassunte: dopo aver tracciato una rapida sto- ria della filosofia fino a Carneade (214-129 a.C.), del quale condivide e fa proprio il metodo ‘‘socratico’’ di indagine, fondato su tre cardini, ‘‘sospendere il proprio giudizio personale, liberare gli altri dall’’errore, cercare in ogni argomento la massima verosimiglianza’’ (cfr. § 11), vie- ne ad affrontare l’’argomento proposto per la discussione nell’’ultima giornata: non mihi uidetur ad beate uiuendum satis posse uirtutem. Egli, schierandosi con gli esponenti della vecchia Stoa Zenone, Crisippo, Aristone, afferma invece che la virtù comporta di necessità una vita onesta e felice, quindi virtù e felicità sono inseparabili (§§ 12-14). Ne viene di conseguenza che si può essere felici anche in mezzo ai tor- menti, perché il saggio, inaccessibile a qualsiasi passione, lo è anche al timore e alla paura (§ 17). Allora la questione si può considerare a questo punto chiusa? Niente affatto. Il filosofo non è come il matema- tico, che può dare per scontati i teoremi dimostrati in precedenza; ‘‘ogni tema richiede di essere di nuovo affrontato con argomentazioni e osservazioni appropriate’’, capaci di rafforzare la fiducia di ciascuno riguardo alla verità sopra enunciata (§§ 18-20). Prima obiezione del- l’’uditore: concediamo pure che l’’onesto (to; kalovn) sia alla base della virtù, che la felicità si realizzi attraverso la virtù, che di conseguenza non esista altro bene all’’infuori della virtù. Ma Bruto, il dedicatario dell’’opera, seguace degli accademici Aristo e Antioco di Ascalona26, è

25I primi quattro libri delle Tusculane, che rappresentano il logico completamento del

De finibus, sono legati tematicamente a coppie (I-II e III-IV); il V riprende in qualche modo gli assunti degli altri libri legandoli attorno al binomio virtù-felicità. Com’’è noto, nell’’ope- ra il dialogo è fittizio, secondo lo schema fornito dalle lezioni di Aristotele; le obiezioni dell’’anonimo interlocutore, che rappresenta l’’opinione media, servono solamente per offrire spunti di argomentazione al monologante. Il tono complessivo della discussione è sostenuto e il linguaggio è quello tipico della conversazione dell’’alta società romana (non quindi quello basso e popolare della diatriba). Le sigle A (= auditor) e M (= magister), mancanti nei codici più autorevoli, sono quasi sicuramente state aggiunte nel VI sec. da Iunilio Africano, cfr. Pohlenz, «Hermes» 46, 1911, 627 e pref. ad Tusc. XIV. Per la loro storia vd. G. Polara, Quali itinerari paralleli seguirono Bloom e Stephen al ritorno? in «Il dialogo. Scambi e passaggi della parola», a cura di G. Ferroni Palermo 1985, 47-62.

2 6Dei due fratelli, esponenti della Nuova Academia, il più autorevole fu Antioco, 125-

68 a. C., discepolo di Filone di Larissa; cercò di conciliare la dottrina accademica con quella stoica e peripatetica. Succeduto a Clitomaco nello scolarcato ad Atene, ebbe come uditori Bruto e Cicerone.

di parere diverso; secondo lui la virtù basta da sola alla felicità, anche quando esistano altri beni al di fuori di essa (§ 21). Cicerone, ricor- dando il suo soggiorno ad Atene nel 50 a.C. di ritorno dalla Cilicia, fa presente che già allora dissentiva su questo punto dai suoi maestri, secondo i quali, se ci sono altri beni al di fuori della virtù, la virtù non può più da sola assicurare la felicità; ne consegue che la virtù può sì rendere felici, ma non felicissimi, che è come dire che esistono tanti diversi gradi di felicità. Questa tesi, che aveva sostenitori non solo tra i ‘‘filosofi antichi’’ (Aristotele, Speusippo, Senocrate, Polemone)27, ma

anche fra esponenti dello stoicismo c.d. medio, in particolare quello di II e I sec. a.C., Diogene di Babilonia, Antipatro, Panezio, Posidonio28,

per i quali la sola virtù è insufficiente a raggiungere la vera felicità e sono necessari anche i beni ‘‘intermedi’’, ‘‘i preferibili’’, che riguardano il benessere individuale e quello sociale (§§ 21-31), viene da Cicero- ne impugnata come contraddittoria: ammettere la presenza di beni al di fuori della virtù comporta di necessità l’’ammissione anche di mali con tutte le conseguenze immaginabili; esempio clamoroso di questa contraddizione è Epicuro, il quale proclama felice il saggio, ma al tempo stesso dichiara il dolore come sommo o unico male; quando il saggio è in preda al dolore come potrà allora dire: quam hoc suaue est! (§§ 30-31). Segue una nuova obiezione dell’’uditore: se è coerente con la dottrina di Zenone l’’affermazione, già di Platone, che ‘‘la virtù è sufficiente a garantire la felicità’’, perché non si dovrebbe consentire ai Peripatetici di dire la stessa cosa, visto che tu stesso nel libro IV del

De finibus (§§ 52 ss.; cfr. anche 3.10) hai sostenuto che le differenze fra l’’uno e gli altri si riducono in sostanza a innovazioni terminologiche (uerborum nouitas)? Cicerone nella sua risposta si rifà alla teoria plato- nica sulla virtù. L’’anima umana, se è stata bene educata, diventa ‘‘men- te perfetta’’, cioè razionalità assoluta, che è come dire depositaria del- la virtù: «se è felice ogni essere al quale nulla manca e che nella sua specie ha realizzato il massimo grado di perfezione, e se questo è pro- prio della virtù, ne segue che tutti quelli che sono in possesso della virtù sono felici». Egli si dichiara dunque d’’accordo con Bruto e gli antichi filosofi, sottolineando però che chi possiede la virtù è non solo felice, ma completamente felice (§ 39), in quanto essa sola è l’’unico

2 7Dopo Aristotele (cfr. per il nostro problema Eth. Nic. 1101a 6-8) sono elencati i primi

tre successori di Platone nella direzione dell’’Accademia (347-265 a.C.): Senocrate (396- 314 a.C.), Speusippo (†† 340/339), Polemone (315/14-266/65 a.C.).

2 8Diogene di Babilonia, Antipatro, Panezio (ca. 185-109 a.C.), Posidonio (135-51/50

bene veramente stabile29. Sotto questo aspetto Cicerone prende le di-

stanze dai Peripatetici, i quali suddividono i beni in tre categorie, quelli che appartengono all’’anima, quelli che appartengono al corpo e quel- li dipendenti dalla fortuna. In pieno accordo con Socrate, il princeps

philosophiae, egli identifica il sommo bene in ciò che è onesto e dichia-

ra che è inutile disprezzare i beni del corpo e quelli della fortuna, se poi la virtù non basta a dare al saggio, sempre tetragono ‘‘ai colpi di ventura’’, la piena felicità. Segue poi nell’’esposizione una lunga serie di esempi per illustrare casi di felicità e infelicità, tra i quali spiccano quelli esemplari di Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa dal 405 al 367, con l’’inserzione dei famosi aneddoti di Damocle, suo adulatore, e degli amici pitagorici Damone e Finzia (§§ 57-63)30, e quello di

Archimede, una vita interamente spesa per la scienza, del quale Cice- rone, abbandonandosi a una piacevole digressione31, racconta con una

punta di giustificato orgoglio di aver rintracciato il sepolcro quando era questore in Sicilia nel 75 a.C. (§§ 64-66). Questi due ELYRL, volutamente contrapposti, occupano dal punto di vista strutturale e strategico il centro del libro V e incarnano in maniera perfetta l’’assun- to che Cicerone intendeva dimostrare, lasciando trasparire nella mo- rale, che il lettore ne trae, un riferimento velato alla sua situazione personale in quel preciso periodo della propria vita e all’’atmosfera pesante che allora gravava su Roma sotto il profilo politico. Nell’’ulti- ma parte del libro (§§ 83-118) si riprende la tesi che il saggio è felice anche fra i tormenti, affermando che se tale tesi può essere sostenuta perfino da Epicuro, che ripone la felicità nella ricerca del piacere e nell’’assenza del dolore, a maggior ragione potranno sostenerla i Peripatetici, Ieronimo e Carneade, e le altre scuole filosofiche, la cui definizione del sommo bene non è affatto in contrasto con essa. Si passa poi a dimostrare, fornendo i relativi esempi, che certi presunti beni come il lusso, le ricchezze, il favore popolare non possono darci la felicità, così come non ce la possono togliere l’’esilio e i dolori fisici. In particolare, quando passa a illustrare l’’assunto che il saggio è felice anche se colpito da cecità, Cicerone ricorda la figura dello stoico

2 9Per la virata in senso stoico di Cicerone sul problema della felicità vd. Narducci, Le

‘‘Tusculanae’’: un percorso di lettura, introd. a Cicerone, Tuscolane, op. cit., 37 ss. = Cicerone e i

suoi interpreti, op. cit., 138 ss.

3 0Per il primo episodio vd. anche Hor. carm. 3.1.17 ss.; Persio 3.40; Amm. 29.2.4; per

il secondo Cic. off. 3.45.

31Sottolinea il carattere retorico della digressio Mary Jaeger, Cicero and Archimedes’’ Tomb,

«JRS» 92, 2002, 49-61, spec. 52 ss.; Archimedes and the Roman Imagination, Ann Arbor 2008, 32-47, spec. 37 ss.: il fuoco della narrazione è tutto incentrato su Cicerone.

Diòdoto, che, cieco, visse per parecchi anni in casa sua. Nell’’epilogo (§§ 119-121) si sostiene che tutte le scuole filosofiche concordano sul fatto che il saggio è sempre felice; le divergenze esistenti devono per- tanto considerarsi un problema più formale che sostanziale. Chiude l’’opera una nota autobiografica: l’’essersi applicato alla filosofia ha costituito per lui, colpito da acerbissimi dolori e da fastidi di ogni genere, il miglior sollievo e la migliore consolazione.

Due bivoi a confronto

03 Cicerone per corroborare i due principi che «la virtù ha quanto

basta per essere forti nella vita, dunque anche felici» e che «la sapienza è sempre contenta di ciò che ha e non è mai scontenta di sé» (5.53 s.) ricorre a esempi tratti dalla storia di Roma, giocati abilmente su cop- pie contrapposte (Gaio Lelio, il saggio amico di Scipione Emiliano, valente oratore e studioso di filosofia, vs il sanguinario L. Cornelio Cinna, l’’iroso e vendicativo Gaio Mario vs Quinto Lutazio Catulo, oratore, storico e poeta), ma chiude la breve rassegna con una sorta di

climax, parlandoci più diffusamente –– invero un po’’ a sorpresa –– di una coppia più lontana nel tempo e proveniente da un’’illustre città della Magna Grecia, Siracusa. Che egli nutrisse simpatie e ammirazione per questa incantevole città e le riconoscesse una sorta di primazia fra le città siciliane è universalmente noto32; basta riandare con la memoria

a quanto scriveva in anni ormai lontani (70 a.C.) nel lib. IV dell’’actio

secunda in Verrem, §§ 117 ss., dove troviamo la più precisa e analitica

descrizione antica della città33: Urbem Syracusas maximam esse Graecarum,

pulcherrimam omnium saepe audistis, descrizione finalizzata a far risalta- re maggiormente le depredazioni di opere d’’arte fatte da Verre; o

ibid. II 5.95 qui [……] saepe audissent nihil esse pulchrius quam Syracusarum

moenia ac portus. In questa sezione delle Tusculane Siracusa è invece

ricordata per due suoi figli, appartenenti a epoche diverse, entrambi famosi, anche se per ragioni opposte, il tiranno Dionisio I il Vecchio (430 ca. –– 367 a.C.) e lo scienziato Archimede (287-212 a.C.); Cicero- ne non mancherà anche in questa occasione di esaltare, seppur fuga- cemente, la bellezza e l’’opulenza della città, ma lo farà, come aveva

3 2Dopo Roma la città di Siracusa e i suoi abitanti sono tra i più citati nel complesso delle

opere ciceroniane.

3 3Vd. F. Coarelli - M. Torelli, Guida archeologica della Sicilia, Roma 1992³, 220; H.-P-

fatto alcuni anni prima nel De republica34, con un senso di amarezza e di

rimpianto per lo stato di oppressione in cui essa si trovava: qua

pulchritudine urbem, quibus autem opibus praeditam seruitute oppressam tenuit

(sc. Dionysius) ciuitatem (5.57)35. Il tono è così sofferto che è difficile

non collegare quanto dice di Siracusa con quella che era la situazione di degrado politico e morale della Roma contemporanea; in una let- tera a Plancio (fam. 4.14.1 della fine del 46, cfr. supra n. 12) Cicerone confidava sconsolato questi suoi sentimenti all’’amico in esilio: «Se la dignità consiste nel poter fare ciò che pensi o almeno difendere libe- ramente la tua opinione, allora non è rimasta neppure traccia della mia antica dignità». La synkrisis dei due personaggi, già utilizzata bre- vemente anche in rep. 1.28, occupa dal punto di vista strutturale e strategico proprio il centro, il cuore del libro V (§§ 57 - 66 sui 121 di cui consta il libro); il fatto non può certo essere casuale, ma, prima di cercare di individuare le motivazioni profonde che stanno alla base di tale scelta, vediamo da vicino come Cicerone ha costruito sotto il pro- filo artistico queste due vite perfettamente antitetiche. Egli mostra an- zitutto di avere una approfondita conoscenza della vita di Dionisio il Antonella Ippolito, De antiquae Syracusarum urbis situ ac conformatione, «Latinitas» 43.1, 1995, 11-16. Una panoramica storica sulla Sicilia da Enea ad Augusto in R. J.A. Wilson,

Ciceronian Sicily: an archelogical perspective, in «Sicily from Aeneas to Augustus: new approaches in archeology and history», ed. by C. Smith and J. Serrati, Edinburgh 2000, 134-160, 160:«but his [sc. di Verre] actions did not ruin Sicily. Cicero’’s tour de force is a good and colourful ‘‘read’’, but it is not, and was never intended to be, history». Mary Jaeger, Archimedes

and the Roman Imagination, op. cit., 79 e 89 evidenzia l’’abilità di Cicerone nelle Verrine di contrapporre Marcello a Verre, presentando il sacco della città ad opera del conquistatore come evento meno disastroso rispetto all’’avidità e alla sistematica spogliazione operata dal governatore. Per un commento puntuale al passo vd. G. Baldo, M. Tulli Ciceronis in C.

Verrem actionis secundae liber quartus (De signis), Firenze 2004, 504 ss.; Alessandra Lazzeretti,

M. Tulli Ciceronis, In C. Verrem actionis secundae Liber quartus (De signis). Commento storico e archeologico, Pisa 2006, 324 s.

3 4Cfr. 3.43, dove l’’enumerazione delle bellezze è ancora contrapposta alla tetraggine e

all’’avvilimento causati dal potere tirannico: urbs illa praeclara, quam ait Timaeus [IV-III sec. a.C.] Graecarum maxumam, omnium autem esse pulcherrimam, arx uisenda, portus usque in sinus

oppidi et ad urbis crepidines infusi, uiae latae, porticus, templa, muri nihilo magis efficiebant, Dionysio tenente, ut esset illa res publica. Nihil enim populi et unius erat populus ipse.

3 5Si noti l’’importante opposizione dal punto di vista semantico fra urbs, la città come

complesso urbanistico, e ciuitas, la città come insieme di cittadini.

36Personaggio molto citato da Cicerone nelle sue opere, soprattutto in quelle degli

ultimi anni, che incarna per così dire l’’archetipo del tiranno: vd. De oratore, De re publica,

Pro Rabirio Postumo, De finibus, Tusculanae, De officiis, De natura deorum oltre all’’epistolario. Nel De diuinatione 1.39 Cicerone ci racconta che la madre di Dioniso finché era incinta aveva sognato di aver partorito un satiretto; i Galeoti, indovini di Ibla, le predissero che il nascituro sarebbe stato l’’uomo più famoso della Grecia e avrebbe avuto una fortuna duratura.

Vecchio36, segno che il personaggio, al di là della negatività che lo carat-

terizza, doveva aver suscitato in lui un’’attrazione e una curiosità indi- scusse; infatti è Cicerone stesso a informarci37 che aveva letto con molto

interesse la monografia su Dionisio scritta dallo storico Filisto. Questo scritto aveva procurato a Filisto la fama di essere «amico del tiranno non meno che della tirannide»38, anche se tale condizione privilegiata

non aveva potuto evitargli un temporaneo esilio per dissapori proprio con Dionisio39. Il materiale impiegato da Cicerone in questo passo delle

Tusculane proviene dunque con ogni probabilità da Filisto (precisione

dei dati cronologici, come l’’inizio e la durata della tirannide; dovizia di particolari riguardanti la vita privata), ma sua è di certo la particolare elaborazione retorico-letteraria, cui lo ha sottoposto; vi si trovano tutti gli ingredienti tipici che rendono riprovevole dal punto di vista morale la figura del tiranno greco, arricchiti da puntuali annotazioni psicologi- che: diffidenza, sospettosità, paura, difesa personale affidata alla guar- dia del corpo, intemperanza e insofferenza di ogni regola (libido), vio- lenza (uis), crudeltà (§ 60 uccisione del servo e dell’’amasio), mancanza di relazioni umane (§ 63 societate uictus, gr. koinwniva)40, consapevolezza

della infelice scelta di vita fatta (episodio di Damocle), ma anche con- sapevolezza dell’’impossibilità di tornare, pur volendolo, a una vita normale, § 62 atque ei ne integrum quidem erat ut ad iustitiam remigraret,

ciuibus libertatem et iura redderet; iis enim se adulescens improuida aetate

inretierat erratis eaque commiserat, ut saluus esse non posset, si sanus esse

Secondo Grimal, Cicéron et le tyrans de Sicile, in «Ciceroniana», Atti del IV Colloquium

Tullianum, Palermo, 28 sett. - 2 ott. 1979, Roma 1980, 67 n. 17 «le petit satyre [……] annonce sans doute le caractère du futur tyran: lubrique, irrespecteux, caricature d’’un être humain, voué à la violence et à l’’instinct». Un rapido profilo sulla figura e l’’opera di Dionisio offre L. Braccesi, I tiranni di Siracusa, Roma-Bari 1998, 69-86.

37Vd. la lettera 2.11 al fratello Quinto del 13 febbraio del 54 a.C.: me magis de Dionysio

delectat; ipse est enim ueterator magnus et perfamiliaris Philisto Dionysius.

3 8Nep. Dion 3.2 hominem (sc. Philistum) amicum non magis tyranno quam tyrannis. 3 9 Vd. in proposito il contributo di Marta Sordi Filisto e la propaganda dionisiana, in

«Purposes of History. Studies in Greek Historiography from the 4th to the 2nd Centuries

B.C.», Proceedings of the International Colloquium, Leuven 24-26 May 1988, «Studia Hellenistica» 30, Lovanii 1990, 159-171 = La dynasteia in Occidente (Studi su Dionigi I), Padova 1992, 93-104.

4 0Il vivere in società è un concetto basilare della morale stoica. Sul concetto di societas

hominum in Cicerone vd. per es. N. Wood, Cicero’’s Social and Political Thought, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1988 = Paperb. 1991, 138 ss.

41Il problema della felicità è centrale anche nel dialogo Ierone di Senofonte e riguarda

Dionigi I secondo Marta Sordi, Lo ‘‘Ierone’’ di Senofonte, Dionigi I e Filisto, «Athenaeum» N.S. 58, 1980, 3-13 = La dynasteia in Occidente, op. cit., 105-117, 113 «il dialogo è in effetti incentrato sulla felicità e l’’infelicità del tiranno, proprio come la conversazione che, nello

coepisset41. A causa della sua natura malvagia e ingiusta, che lo rende

schiavo delle peggiori passioni, egli è un ‘‘mostro’’ destinato a vivere fuori dell’’umano consorzio, pur avendo concentrato nelle proprie mani

Nel documento Leopardi fra Omero e Virgilio in A Silvia (pagine 117-124)