Marina Piazza, sociologa
Già consulente presso la Gender consulenza formazione ricerca s.c.r.l, Milano
Il compito che mi è stato dato è di dare voce a una serie di narrazioni e testimonianze di operatrici sulle loro esperienze professionali e personali e sul messaggio che vorrebbero lasciare alle nuove generazioni.
Hanno risposto soprattutto operatrici già in pensione o comunque in fase avanzata della loro vita lavorativa.
Mi sono chiesta qual era il motivo della disposizione temporale del mio intervento: dopo tutti i ragionamenti sull’oggi si torna al tempo d’antan? Nostalgia? Celebrazione della gloria primigenia?
Poi, mano a mano che leggevo le 18 interviste in grandissima maggioranza di ginecologhe, ma anche di 3 ostetriche, 2 assistenti sociali, 1 pediatra, 1 fisioterapista e dell’unico uomo, psicologo, mi sono convinta che l’acquisizione profonda del passato possa offrire indicazioni preziose per riformulare il futuro, non per ripeterlo. Quindi non chiusura o ritorno, ma apertura e sfida. Anche rispetto alle nuove generazioni che operano nei consultori.
Sono voci diverse, ognuna con la sua irripetibile singolarità, ma unite da fili comuni molto forti.
Il primo filo comune è la narrazione del clima, del contesto in cui sono nati i consultori, dell’aria che si respirava. Quindi un contesto sociale e politico complessivo, per così dire oggettivo, segnato da cambiamenti in tutti i campi del sociale e da sommovimenti nei comportamenti soggettivi. Come viene descritto in una testimonianza:
“Di pochi anni prima la legge sul divorzio e il suo mantenimento nel ‘74 col referendum abrogativo, del ‘75 la riforma del diritto di famiglia che capovolgeva i valori tradizionali su cui si reggeva la famiglia patriarcale, e l’abbassamento della maggiore età dai 21 ai 18 anni. Nel ‘78 veniva varata la legge 833 che istituiva il Sistema Sanitario Nazionale, rivoluzionando la sanità pubblica, Sempre dello stesso anno la legge Basaglia, che chiudeva gli ospedali psichiatrici, e la legge 194 che depenalizzava l’aborto, affidando ai Consultori Familiari un fondamentale ruolo di assistenza, sostegno della donna e di prevenzione. Si trattava di trasformazioni sociali e culturali profonde, che andavano verso il riconoscimento dei diritti e della centralità della persona, la tutela della salute sia fisica che psichica come diritto, nel rispetto della dignità e della libertà dell’individuo, secondo principi di uguaglianza ed equità. Questa era l’aria che si respirava e in questo particolare clima ho visto nascere il Consultorio Familiare.”
In questo clima generale, di “rivoluzione copernicana”, era fortissima la motivazione soggettiva a far parte di questa spinta innovativa, di questa “onda nascente”:
“Mi sentivo protagonista e testimone di un passaggio d’epoca: le donne erano passate dal modello assistenziale a quello partecipativo nella gestione della loro salute. Era una rivelazione: cadeva il confine tra la medicina dei medici e la medicina dei pazienti”.
Un altro filo comune è la descrizione del metodo di lavoro, dell’incontro, dell’approccio con il metodo olistico, con la grande novità del lavoro di équipe, interdisciplinare, con lo stupore di entrare in una dimensione di ascolto e di scambio tra saperi e competenze diversificate, orizzontale, ben diversa dall’organizzazione verticale e gerarchica sperimentata da chi proveniva dal lavoro ospedaliero.
Ma subito emergono anche le diversità. In piena evidenza le diversità territoriali. Che significano anche diversità dell’utenza.
Un conto è entrare a far parte o persino fondare un nuovo servizio in un territorio già preparato, reso fertile da collettivi di donne femministe, agguerrite e decise come avviene a Trieste, a Torino, in Veneto, a Bolzano, in Emilia-Romagna ecc. La percezione narrata è quella di essere aspettati, supportati, non solo dalle donne, anche dalle istituzioni.
Ma ben diverso è avviarsi verso una terra sconosciuta, confrontarsi non con chi è simile, ma con “la città degli altri”, con le donne dei quartieri degradati, con le loro finora impensate difficoltà di vivere e di sopravvivere, entrare nelle loro case, “contrastare la rassegnata desolazione dei quartieri poveri di Napoli”.
“Noi eravamo fresche delle conquiste degli anni ‘70, “ma le donne nei quartieri come avevano vissuto tutto questo? Echi troppo lontani da una quotidianità fatta di lotta per la sopravvivenza, di
sopraffazione sociale e famigliare. Donne schiacciate, senza spazio per i desideri, per i sogni, per le scelte” dice una ginecologa siciliana”
E come ribadisce la testimone della Campania:
“La signora Dora aveva i capelli rossi che portava raccolti, in una grossa treccia, decisamente bella ma, se sorrideva, e lo faceva schernendosi con la mano, i denti tradivano la sua condizione sociale, le mancava un incisivo e si intravedeva qualche carie. Ma era bella lo stesso.
Aveva con sé una bambina di circa tre anni, l’altro figlio più grande lo aveva affidato ad un’amica.
Era al quinto mese di gravidanza e perdeva sangue. La visitai, ma già l’ecografia che aveva esibito parlava di una placenta previa marginale. Le prescrissi subito una terapia farmacologica e le ingiunsi di andare subito a casa e di mettersi a riposo.
«Dottore’ tengo altri due figli, abito al settimo piano nelle Vele e spesso non ho acqua a casa!»
Questa volta il sorriso imperfetto si trasformò decisamente in una evidente risata, sì per dirla tutta mi rise in faccia, ma senza aggressività, senza offesa, semplicemente con rassegnazione, e come per una conferma amara e scontata con quel sorriso rimarcò con spietata precisione il confine che c’era tra me e lei, tra la medicina dei medici e la medicina dei pazienti.
Senza volerlo, senza premeditazione, nella più assoluta inconsapevolezza, avevamo determinato la drammatizzazione di un conflitto vecchio come il mondo, avevamo reso tangibile in un luogo e in un tempo, la oggettiva difficoltà a comunicare e la improrogabile, almeno per me, necessità di infrangere ogni barriera. Il paradigma del rapporto medico-paziente appreso con tanta puntualità, da tempo sperimentato e che, a mio parere, aveva dato segni di fragilità già in molte, troppe occasioni, in questo momento, grazie a questa donna dai capelli rossi, cambiava incredibilmente il suo asse!
La signora Dora aveva prepotentemente esibito la sua condizione sociale ed era questo e null’altro che le avrebbe impedito di seguire quanto consigliato.
Ma non potevo abbattere le Vele, né montare l’ascensore e nemmeno garantire l’acqua a casa di Dora. Potevo solo prescrivere. Anche se avevo letto tanto sulla medicina sociale entusiasmandomi per le parole di Giulio Maccacaro, ora mi sentivo inadeguata in questo ruolo; il mio camice bianco assunse i confini seducenti e buffi di un travestimento, dentro cui avrei potuto nascondermi, ma non era questo ciò che volevo, dovevo proporre a Dora altro, lì in quel momento, subito.
La messa alla prova era arrivata in maniera repentina, quasi troppo. Un’altra sanità, un altro modo di produrre salute per Dora passava ineluttabilmente per la sua casa senz’acqua e i suoi denti cariati.
Non avevo alcuna alternativa, dovevo rischiare! Fu allora che cominciammo a parlare, insieme, lei e io, entrammo in sintonia, e concordammo un “piano terapeutico” che teneva conto delle necessità di entrambe.”
O la testimone del Piemonte.
“Nei primi giorni di lavoro nel 1981 una donna, alla domanda se avesse figli e avesse avuto IVG, mi rispose in dialetto che aveva 4 figli e disse “Faccia lei dottoressa per il numero degli aborti, mio marito non è capace che di mettermi incinta…” Le risposi che non mi era possibile inventare un numero e lei mi disse che aveva fatto più di 20 aborti. Rimasi molto colpita dal numero. Parlammo molto, si affidò a noi, partecipò a molte iniziative e iniziò a utilizzare la spirale.”
In più, da parte di alcune ginecologhe, e in alcuni territori, soprattutto al Sud, anche il passaggio “non indolore” da una struttura organizzata e gerarchica come l’ospedale in una struttura disorganizzata, orizzontale, a volte una stanza collocata tra le cucine e la camera mortuaria dell’ospedale” dove ci si poteva sentire “fuori luogo”. Anche la percezione di venire considerata “una che lavorava in un servizio di serie B”. Però il filo che sembra unire queste pur evidenti diversità è la consapevolezza che bisognava buttarsi in mare aperto, uscire e andare quartiere per quartiere, casa per casa “a prendersi i pidocchi”. E contemporaneamente affinare le proprie competenze con corsi di formazione aggiuntivi “perché era veramente difficile adempiere alla mission dei consultori senza ampliare e arricchire le proprie competenze professionali, dice una ginecologa veneta. E imparare a lavorare in équipe quando “nessuno aveva mai fatto questa esperienza”.
Molte si soffermano su questo intreccio tra l’interno e l’esterno. Tra le nuove modalità di lavoro con un approccio interdisciplinare – dunque lavorare sull’interno, sul difficile esercizio di ascoltarsi e imparare le une dalle altre, senza inutili rivalità tra le diverse competenze- e la necessità di buttarsi in mare aperto, confrontandosi con le istituzioni, cha a volte appoggiano e a volte ostacolano, per assicurarsi il coinvolgimento dei medici, dei sindaci, dei parroci e soprattutto l’adesione delle donne che da cosiddetti bersagli diventano protagoniste. In primo luogo conferendo al consultorio un ruolo di primo piano nella diffusione di informazioni sulla salute sessuale e nel supporto e assistenza per le donne che volevano esercitare il proprio diritto ad abortire. Ma anche a più largo raggio. Perciò si inventano interventi nelle scuole per gli adolescenti, corsi di lettura, contatti con le ostetriche condotte per programmare le visite domiciliari per raggiungere i più lontani ma anche i più bisognosi., l’andare nei mercati rionali per conquistare la fiducia delle donne, la costituzioni di gruppi di donne che si interrogano sulla maternità o sulla menopausa, ecc. ecc. le modalità quindi di un’offerta attiva, consapevoli si essere immerse in realtà complesse, di cui bisognava individuare bisogni e quindi attivare risposte, Ma anche imparare ad ascoltare davvero, perché “abbiamo capito quanto potevamo imparare dalle donne”, “lì ho fatto un bagno di umiltà”
Dunque le difficoltà non mancano, tra le quali anche le prime partecipazioni quasi volontarie, informali, a tempo, che solo più tardi diventeranno assunzioni. Ma le motivazioni soggettive non si appannano
“eravamo creativi, entusiasti e ben sostenuti dall’amministrazione che largheggiava in fondi per la formazione e le attrezzature. Si aveva la sensazione di lavorare per la gente e con la gente.” come afferma una ginecologa veneta. Ma anche nelle situazioni più arretrate, la sensazione di essere “un servizio di frontiera tar le istituzioni e la società civile”, la capacità di ascoltare, entrare in relazione, creare empatia, creare relazioni fondate sulla fiducia, creare accoglienza”.
Questo il quadro che emerge, compatto, pur nelle diversità e nelle difficoltà che le intervistate non sottovalutano, ma in qualche modo velano con la sottolineatura della percezione del sentirsi protagoniste attive di un cambiamento sociale, di una “rivoluzione copernicana” impensabile fino a pochi anni prima.
Poi, nel racconto, si insinuano le prime crepe, le prime resistenze delle istituzioni, a volte contrastate dall’entusiasmo e dalle prese di posizione dell’utenza, come racconta il testimone della Liguria:
“Dopo aver avviato i primi programmi di educazione affettiva e sessuale rivolti agli studenti delle scuole secondarie superiori sul finire degli anni ‘70 con interventi in una scuola professionale Alberghiera, all’interno di un lavoro partecipato con studenti e insegnanti e ampio utilizzo nei gruppi classe di metodiche attivanti ed esperienziali, dopo alcuni anni di attività partì dalla direzione sanitaria un tentativo di bloccare il progetto, riportandolo a un più generico corso di prevenzione che toccasse tematiche di salute meno delicate e ideologicamente meno ‘esplosive’.
Nonostante i nostri sforzi come operatori di contrastare questa decisione, non ci fu modo di spuntarla, la decisione era irrevocabile. Ma non si era tenuto conto della reazione dei ragazzi!
Quando seppero dell’interruzione del corso ci fu una vera e propria insurrezione da parte degli studenti e accanto a loro di docenti e genitori, che presero le difese, attraverso invio di lettere alla USL, alla stampa e manifestazioni, del corso di educazione sessuale che non volevano assolutamente perdere. Era il ‘loro’ corso! La pressione dei ragazzi fu tale che le decisioni già prese a livello politico-organizzativo furono riviste e il progetto poté essere conservato, e come tale ha continuato a operare per più di trent’anni. Questa esperienza è stata una potente conferma della forza di un progetto co-costruito.”
Comunque resistenze delle istituzioni sempre forti e a mano a mano più forti, anche nelle situazioni più assestate. E differenze territoriali sempre più marcate, legate alle diverse leggi regionali.
Che si concretizzano soprattutto nella progressiva deprivazione di risorse, nel progressivo tentativo di ridurre i consultori ad ambulatori. La testimone piemontese dà un nome a questo processo e lo definisce come l’aziendalizzazione del 1992, in cui si svuota il senso originario dei consultori. Comunque in tutte le testimonianze prevale il senso di perdita.
Le crepe che hanno minato l’edificio vengono fatte risalire al complessivo disinvestimento sul sistema di welfare, di cui i consultori sono stati le vittime principali. E che ha comportato sia lo svuotamento progressivo dell’istanza olistica che era alla base della sostanza stessa dei consultori, sia la possibilità di affrontare la nuova complessità dell’utenza, che si andava trasformando sotto i loro occhi. Ma anche la percezione di un affievolirsi della spinta del movimento delle donne e di quel complessivo slancio sociale che aveva caratterizzato gli inizi.
La constatazione che in molti casi il consultorio si andava trasformando in ambulatorio perché “le attività si svolgono su prenotazione e difficilmente si ha il tempo di rispondere a richieste immediate”, dice la testimone della Val d’Aosta. Per la riduzione delle risorse, in alcuni consultori le équipe si sono disgregate, il lavoro è notevolmente aumentato ed è difficile mantenere la multiprofessionalità e multidisciplinarietà del servizio. E ribadisce la testimone del Veneto:
“Anche ora temo che i compiti di un Consultorio Familiare del 2020, a fronte delle necessità attuali delle donne, delle coppie, delle famiglie e degli adolescenti, siano “impossibili” a causa della continua riduzione degli investimenti finanziari dedicati. Ogni area necessiterebbe di professionisti e risorse ad hoc. Noi cercavamo di fare azioni positive in giornate distinte e con progetti distinti (Progetto Benessere Donna Straniera e Adolescenti), ora direi che le competenze vanno ulteriormente affinate. Ma la formazione costa, il personale va potenziato ma il personale costa, le sedi vanno aumentate e meglio attrezzate e anche questo costa. E non parlo di sedie e scrivanie nuove, ma di kit e test rapidi per la diagnostica, malattie a trasmissione sessuale e gravidanze per esempio, e poi spirali, pillole, preservativi gratuiti e a disposizione dell’utenza. Si dice che la necessità aguzzi l’ingegno, ma penso che in certe situazioni di autentico degrado della istituzione Consultorio Familiare il rischio sia quello di frustrare e demotivare gli operatori, che avranno solo l’obiettivo di sopravvivere civilmente alla dura giornata. Difficile che così disarmati possano entrare nella lotta e cambiare il mondo, come invece sognavamo noi 40 anni fa. Noi, sì, confusamente sognavamo!”
Questa prima crepa si collega ovviamente alla constatazione della nuova complessità dell’utenza. Si presentano nei consultori situazioni molto diverse: le donne vittime di violenza, le straniere che raccontano di numeri di aborti impensabili, le donne profughe, le donne in difficoltà con la loro prima gravidanza, i ragazzi e le ragazze con la loro difficile iniziazione a una sessualità responsabile, le famiglie lasciate sole nelle loro nuove responsabilità genitoriali, le nuove modalità del web, la nuova comunità LGBT. La divaricazione che può avvenire tra necessità di accoglienza e specializzazione. Perché oggi, dicono, la gestione dei consultori è diventata acrobatica.
Infine il difficile rapporto con le nuove leve di operatrici, il possibile divario tra chi mantiene in sé lo spirito originario, ma è ormai in pensione o comunque sta per avviarsi alla fine dell’attività lavorativa e chi subentra nelle nuove condizioni che si sono venute a creare.
Di fronte al combinato disposto e perverso tra riduzione delle risorse e aumento della complessità dell’utenza, c’è il rischio – quando il ricambio tra operatrici vecchie e nuove sarà totale – di una stanchezza psicologica nelle cosiddette nuove generazioni: una sorta di rassegnazione. Dice la testimone dell’Emilia-Romagna:
“Le esperienze nei consultori sono state per noi giovani professioniste un campo di prova importante dove mettersi in discussione rispetto alle modalità di assistenza che avevamo imparato nelle aule universitari e nei reparti dei policlinici…le nuove generazioni non hanno potuto fare queste esperienze…l’enfasi degli ultimi anni è stata soprattutto sulle linee guida e sui protocolli.”
Infine e per concludere, di fronte alle narrazioni, di cui ho cercato di rendere lo spirito, sembra di poter dire che le sfide sono aumentate, le risorse diminuite, mentre è aumentata la specializzazione e la frammentazione. Sembrerebbe un senso complessivo di perdita. Ma un’indicazione queste testimonianze sembrano offrirla. Ed è l’indicazione della necessità di una riqualificazione in termini di risorse e di personale e di una risignificazione dei consultori come spazi politici, culturali e sociali oltre che come servizi sociosanitari. Certo non per ritornare a un rigurgito passatista, ma per mettere a frutto anche oggi, in un contesto completamente diverso il nocciolo duro di quell’esperienza, il suo spirito fondativo, il suo essere il primo presidio, quello più vicino a chi ha bisogno e non trova le strade per rispondervi. Insomma, vorrei ribadire la preziosità della memoria consegnata se viene interrogata per rispondere alle difficoltà del presente.