Capitolo 2 SHARED READING E LE SUE IMPLICAZIONI NEL BAMBINO CON
3.1 Comprendere l’autismo, dove semplice non significa facile
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Capitolo 3
L’APPROCCIO DELLO SHARED READING NEL BAMBINO CON SINDROME DELLO SPETTRO AUTISTICO
“Racconta le tue storie; rendile vere.
Se resistono, resisti anche Tu”
James Keller
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Il DSM-5 a differenza del DSM-4, ha voluto mantenere un’unica categoria diagnostica per quanto riguarda il disturbo, aggiungendo delle specificazioni in riferimento alla gravità e ai disturbi associativi come ad esempio la compromissione intellettiva, del linguaggio, una condizione genetica o altri disturbi comportamentali e del neurosviluppo (celi, Fontana, 2015).
Ha un eziologia complessa in cui i fattori genetici entrano probabilmente in interazione con fattori non-genetici. Vengono alterate le interazioni sociali, la comunicazione verbale e non verbale, preferenze per attività ripetitive e un numero ristretto di interessi.
Fu Hans Asperger che nel 1938 utilizzo questo termine per descrivere bambini con psicopatia autistica. Fu però Kanner che individuò una specifica sindrome patologica in quanto descrisse 11 bambini (8 maschi e 3 femmine) con Autismo Infantile Precoce. Condizione caratterizzata da una grave difficoltà ad entrare in contatto e in relazione con l’altro e da alterazione del linguaggio e dell’insistenza a mantenere l’ambiente uguale (Kanner, 1943).
Oggi la descrizione del quadro clinico dell’autismo ha circa 130 anni di storia. Se agli inizi si pensava fosse causato da una disfunzione del rapporto madre-bambino in cui si parlava più propriamente di “madri frigorifero” (posizione della psicoanalisi allora trionfante), negli anni ’70, studi condotti su gemelli (Folstein, Rutter, 1977) hanno tolto i dubbi in merito alla natura neurobiologica. Quello che osservarono fu un’incidenza più alta dell’autismo nei gemelli omozigoti e una più bassa negli eterozigoti. Questa risultato orientò la ricerca scientifica verso una causalità neurobiologica eliminando le affermazioni relative a un disfunzione del rapporto diadico madre-bambino. Nonostante ciò, però, non si aveva alcuna certezza sulla precisa causa neurobiologica ed non vi erano elementi diagnostici ben definiti, come nel caso della Sindrome di Rett (che vede un’evoluzione in quattro stadi ed è causata da una mutazione del gene MECP2) o della Sindrome di Down (dove è presente la trisomia 21) (Zappella, 2018). Nel caso dell’autismo si ha a che fare con un qualcosa di molto diverso. “Oggi l’autismo è presentato in maniera simile a come si presentava l’epilessia 100 anni fa: una condizione incurabile che segnerà la vita d’una persona per sempre, anche se ciò in contrasto con molti dati della letteratura scientifica e dell’esperienza clinica.
Questa diagnosi che ha un grande impatto emotivo su gran parte delle famiglie” (Zappella, 2018, pag. 315).
A quel punto le ricerche continuarono, e l’autismo diventa, ancora oggi, uno di quei campi che vede molte trasformazioni ed elaborazioni sia dal punto di vista della Psichiatria che delle Neuroscienze Contemporanee (Barale et al., 2009). Trasformazioni che utilizzano vari paradigmi per comprendere a fondo questa sindrome e per avere delle risposte utili anche dal punto di vista della cura e quindi della riabilitazione.
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Ciò che si è andato modificando, come ribadivo prima, è senz’altro la posizione psicogenetica, che vede l’autismo come una sorte di arresto dello sviluppo a causa di un’ inadeguatezza dell’ambiente e dei caregiver che sostengono le condizioni di tale sviluppo. Soprattutto si escluse l’idea che nei ceti intellettuali fosse più diffuso o in particolari stili di allevamento (Cantwell et al., 1979). Verso la fine degli anni ’70 sempre più forti erano le testimonianze empiriche che sostenevano che nessuna deprivazione relazionale potesse generare autismo, evidenziando che se l’autismo doveva manifestarsi, questo doveva avvenire precocemente e nella stessa maniera con tutti i possibili caregiver (Barale et al., 2009).
Si portò così avanti l’idea che Kanner (1943) osservò intuitivamente, ovvero di “come quell’isolamento autistico, quella difficoltà a stare sulla stessa lunghezza d’onda degli interlocutori umani, quella particolare evanescenza del sentimento di essere a contatto con gli altri che aveva magistralmente descritto, non erano “ritiri, reazioni o conseguenze “psicologiche”, ma erano del tutto originali, qualcosa che riguardava i fondamenti stessi della relazionalità” (Barale et al. 2009, pag. 259). L’autismo non poteva essere descritto semplicemente come un arresto dello sviluppo, perché fin dalla nascita il neonato si trova a vivere in un ambiente caratterizzato da interazioni comunicative (Meltzoff et al., 2001). Scambi caratterizzati da reciprocità (Neisser, 1993), nel senso che “ciò che viene percepito non è soltanto il comportamento dell’altro, ma la sua reciprocità al nostro” (Barale et al., 2009, pag. 259). Come affermavo nei capitoli precedenti queste reciprocità le incontriamo nelle interazioni con il caregiver (Trevarthen, 1980), nell’interesse per i volti e la mimica materna, e nei fenomeni di sintonizzazione e sincronizzazione affettiva (Stern, 1987).
Questi meccanismi di competenze sociali, che vedono alla base schemi innati di relazionalità, permettono di tradurre la prospettiva corporea dell’interlocutore nella propria. Questa intercorporeità primaria, nonché Intersoggettività originaria, fornisce una prima comprensione della socialità dalla quale si organizza a mano a mano il mondo interumano (Trevarthen, 1979).
A questo punto ciò che le evidenze empiriche fornirono fu l’idea che l’autismo fosse dovuto ad un’alterazione della matrice biologica originaria dell’Intersoggettività che vede anche deficit imitativi e peculiarità nell’organizzazione percettiva. Questa spiegherebbe l’insufficienza nel contatto visivo, nell’imitazione, nell’attenzione condivisa, nel dialogo tonico e sensorimotorio, nella risposta alla voce familiare, nel gesto protodichiarativo, e nei vari aspetti delle Funzioni Esecutive (EF), nello sviluppo della Teoria della Mente (ToM) e di Coerenza Centrale (CC) (Barale et al., 2009).
L’esperienza autistica cominciò a mostrarsi non più come una sorta di scatola vuota, ma “come una
‘debolezza piena’. Si tratta cioè di un mondo che inizia a formarsi da una debolezza interattiva, una vita costruita su difficoltà nuropsicologiche, in cui ritualismi, stereotipie, routine più o meno
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elaborate prendono il sopravento e svolgono una funzione sostitutiva” (Barale et al., 2006, pag.
259). Questo lo possiamo comprendere quando ascoltiamo un soggetto autistico ad alto funzionamento che afferma: “La realtà per una persona autistica è una massa interattiva e confusa di eventi, persone, luoghi, rumori e segnali. Niente sembra avere limiti netti, ordine e significato.
Gran parte della mia vita è stata dedicata al tentativo di scoprire il disegno nascosto di ogni cosa.
La routine, scadenze predeterminate, percorsi e rituali specifici aiutano a introdurre un ordine in una vita inesorabilmente caotica (Joliffe T., In: Temple GRandiun. Thinking in Pictures 1995)”
(Barale et al., 2009, pag. 260).
Purtroppo non si può pensare solo ad una causa e neppure all’autismo come condizione unitaria.
Ciò e dovuto alla sua estesa varietà di combinazioni possibili, per gravità e peso, delle diverse alterazioni, ma le cause sono una sorte di catene complesse che possono sviluppare rischi di vario tipo. Ad esempio di tipo genetico, virale, cerebropatico, combinazione tra fattori di vulnerabilità genetica ed epigenetica che compromettono, a loro volta, lo sviluppo dei sistemi cerebrali che di norma sono molto protetti. Le ipotesi sono molte anche per quanto riguarda l’aumento della quantità di tessuto cerebrale degli emisferi e del peso complessivo del cervello; l’aumento di massa sovramarginale, l’aumento della circonferenza fronto-occipitale dovuta a iperplasia precoce dei lobi frontali (evidente tra i 6 e i 14 mesi); sviluppo tronco degli alberi dendritici nel sistema limbico, riduzione delle cellule del Purkinjje e negli emisferi cerebellari (Bailey et al, 1998). Anomalia a livello del cervelletto, disfunzioni dell’Amigdala, e in genere delle strutture del lobo temporale mediale nelle alterazioni della cognizione sociale (Munson et al, 2006).
Dunque si può notare come le basi biologiche, anche se non ne sono la causa primaria, son da considerare comunque importanti soprattutto per quei fenomeni cognitivi, oggettivi e relazionali che regrediscono dal punto di vista neurofunzionale. Altri studi di brain imaging (Brambilla et al., 2004) hanno mostrato atipie dei circuiti neuronali Fronto-Limbico-Temporali (OFC, PG, DMPFC, FG in particolare FFA, poli temporali, AC), ma anche i circuiti cerebello-talamo-corticali sono implicati nei compiti sia di percezione sociale che di cognizione sociale.
Queste disfunzioni sviluppano di conseguenza delle difficoltà dal punto di vista dell’apprendimento sociale e una serie di esperienze affettive e cognitive anomale. Infatti, nei precedenti capitoli, si parlava anche di “consonanza intenzionale” per comprendere l’esperienza dell’altro che vede l’attivazione di un sistema neurale condiviso, il Sistema Mirror, il cui funzionamento è alla base di ciò che gli altri sentono o fanno e di ciò che noi facciamo o sentiamo (Gallese, 2006). Alla base di questo meccanismo ciò che consente la modellazione del proprio e altrui comportamento è la Simulazione Incarnata. Si attivano per tanto rappresentazioni interne degli stati corporei associati alle emozioni, azioni, sensazioni delle altre persone come se stessimo vivendo in prima persona
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quell’emozione, azione, sensazione. Un’alterazione di questa consonanza intenzionale, che vede un deficit a più livelli dei meccanismi di simulazione, è all’origine di molti problemi sociali tipici degli individui colpiti da Autismo.
Se è vero che la Consonanza Intenzionale gioca un ruolo fondamentale nell’Intersoggettività, si è concordi sul fatto che il suo malfunzionamento possa provocare problemi a vari livelli nell’Intelligenza Sociale ed Emotiva, come quelli dimostrati nel Disturbo dello Spettro Autistico (Gallese, 2006).