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Comunicazione non verbale e educazione

di Elisa Calzavara e Enrico Celli

La scuola è stata considerata dagli studiosi di scienze sociali in vari modi e secondo molti punti di vista: come organizzazione, come agente di socializzazione la cui funzione è quella di trasmettere valori e orientamenti della società più vasta nella quale è inserita, come strumento di stabilizzazione della società medesima con funzioni di conservazione, ecc. In una società pluralistica, dove coesistano diverse culture, possiamo anche considerare la scuola come il luogo in cui queste si con­ frontano e si scontrano, e da questa situazione insorgono in maniera evidente note­ voli problemi di comunicazione.

L’illusione che la comunicazione sia un fenomeno « spontaneo e naturale» può nascondere una serie di rischi misconosciuti o sottovalutati, tanto più gravi per quei ruoli nei quali essa occupa una posizione primaria.1 Nella scuola la comu­ nicazione verbale, accanto a quella scritta, ha sempre avuto una importanza primaria e prevalente : nel presente articolo vorremmo sottolineare come il linguaggio verbale (al p a r i.— del resto — di altri linguaggi) costituisca spesso, nella realtà, un mezzo di divisione e discriminazione fra gruppi socio-culturali, etnici, profes­ sionali, regionali, di età, ecc.,2 mentre si tende a trascurare una serie di compor­ tamenti comunicativi culturalmente strutturati, che precedono, seguono, affiancano quello verbale modificandolo in vario modo.

Come è noto, si è andata infatti sempre meglio precisando l’ipotesi che ogni azione e ogni prodotto della vita associata possano essere considerati ed esaminati dal punto di vista della comunicazione: in questa prospettiva la parola rappresenta quasi sempre un punto di arrivo e non un dato di partenza naturale all’interno del processo comunicativo, che viene avviato e mantenuto costantemente vivo attra­ verso numerosi altri canali.

Questa ipotesi è ricca di conseguenze nei processi didattici per quanto concerne sia la trasmissione di informazioni all’allievo, sia la ricezione del suo feed-back, sia le inevitabili interferenze che si producono nella situazione didattica concreta, dove agiscono tutta una serie di comunicazioni variamente intersecantesi. Si profi­ lano due ordini di rischi al momento della trasmissione delle informazioni: da un lato non sempre si è in grado di utilizzare tutte le potenzialità comunicative dispo­ nibili per il raggiungimento degli obiettivi prefissati; dall’altro queste potenzialità non controllate agiscono molto spesso in modo automatico, interferendo con le

intenzioni del comunicatore, fino talvolta a sovvertirle producendo gravi distorsioni nella comunicazione. Dall’altro lato senza una piena consapevolezza del funzio­ namento dei processi comunicativi, si rischia di percepire solo una parte molto limitata del feed-back degli allievi, che molto spesso può essere anche distorta dai meccanismi comunicativi e fornire dati inutilizzabili, quando non fuorvianti.

Vi sono infine le interferenze attribuibili al contesto d’apprendimento: la comu­ nicazione è un fenomeno globale nel quale è difficile distinguere un singolo tratto isolato costituito dal rapporto didattico preso in sé. Nella realtà concreta il contesto fornisce di continuo una serie di informazioni che interferiscono e, volta a volta, condizionano questo rapporto.

Le insidie cui si è accennato sono tanto più presenti e operanti nei meccanismi comunicativi in generale (e in quelli didattici in particolare) quanto più sono inconscie; di qui la necessità di individuarle ed esplicitarle.

Comunicazione e cultura

La comunicazione ha assunto un’importanza così evidente da essere identificata con l’intera cultura. L’antropologia, in alcuni suoi recenti sviluppi, ha formulato l’ipotesi, infatti, che la cultura è comunicazione. Ponendosi in questa prospettiva i diversi generi di attività umana vengono considerati come altrettanti sistemi comunicativi ; E. T. Hall ne ha identificati dieci, denominandoli « Sistemi primari di messaggio»: soltanto il primo di essi include il linguaggio, mentre tutti gli altri costituiscono altrettante modalità attraverso le quali l’uomo riesce a comunicare, e di fatto comunica.8

Hall propone di riesaminare i fenomeni culturali con strumenti teorici mutuati dalla linguistica, e riadattati per poterli applicare ad altri sistemi culturali diversi dal linguaggio; suggerisce pertanto un gruppo di categorie di analisi applicabili a tutti i diversi generi di attività umana che formano complessivamente una cultura, incluso il linguaggio verbale.4 Queste categorie sono state denominate: insiemi (sets), isolati (isolates), schemi (patterns). I primi (corrispondenti ai monèmi o m or­ fèmi della lingua) sono quegli elementi direttamente percepibili e individuabili alla prima osservazione in un dato contesto culturale; i secondi (corrispondenti ai fonèmi) sono gli elementi componenti degli insiemi; e gli ultimi (corrispondenti alle regole sintattiche) sono il modo con cui gli insiemi si collegano fra loro, cioè le regole che presiedono alla loro combinazione e in base alle quali questa combi­ nazione acquista significato.

Ai fini della presente discussione non è necessario accettare l’identificazione cultura-comunicazione. È sufficiente adottare l’ipotesi consolidata dalla più attuale ricerca antropologica e semiotica, che ogni comportamento o prodotto dell’uomo serve sempre anche a comunicare e che, conseguentemente, può essere studiato

L’adattamento alle più diverse condizioni ambientali, il lungo periodo di gesta­ zione, l’infanzia prolungata, la lenta maturazione, la complessa suddivisione del lavoro fanno sì che l’uomo dipenda in modo decisivo dalle relazioni con i suoi simili. È obbligato a mantenere contatti molteplici e continui e deve essere in grado di comunicare in tutte le condizioni : egli si comporterà quindi, al pari dei suoi proge­ nitori animali, come « una stazione multisensoriale inserita in un sistema di comu­ nicazione, come un interagente multicanale».6

La comunicazione fra esseri umani è un processo continuo che nella normale realtà avviene simultaneamente a diversi livelli, attraverso diversi canali e in diverse direzioni.

In realtà si è soliti ritenere che avvenga comunicazione solo quando si parla, o ci si impegna in attività esplicitamente dirette a comunicare, e che la comu­ nicazione cessi quando cessano queste attività. Recenti ricerche invece hanno messo in luce che non si cessa mai di comunicare, sia pure con la sola presenza, o anche con un’assenza, e comunque col modo di comportarsi, di vestirsi, di atteggiarsi, con le distanze interpersonali, con le espressioni facciali. Anche se la nostra cultura tende a localizzare la « grande via » della comunicazione nel canale uditivo della lingua o nei canali derivati della lingua scritta, antropologia e etnologia hanno denunciato, come frutto di un punto di vista etneocentrico tipico di culture orientate alla parola, l’infondatezza dell’esistenza di un canale di comunicazione principale e privilegiato.

Sembra logico, anche se non evidente, ritenere che un singolo canale di comunicazione come quello verbale possieda una gamma troppo ristretta e specializzata di possibilità, e sia troppo facilmente adulterabile perché gli possa essere affidata esclusivamente l’interazione sociale, cioè una funzione cruciale per la sopravvivenza dell’individuo e della società.

Segni e codici

La comunicazione avviene sempre in diverse direzioni, in apparente contrasto con il modello diadico (di coppia) che ha a lungo fornito la sola base per analizzare il processo di comunicazione. Questo modello è difatti profondamente radicato nella tradizione culturale e si ispira a schemi di contrapposizioni binarie quali: insegna­ mento-apprendimento, sapere-ignoranza, superiorità gerarchica-subordinazione. L’uomo in realtà si trova costantemente immerso in un universo comunicativo, ed è un nodo, un punto di incrocio e di convergenza di una complessa rete comu­ nicativa.

Un segnale proveniente da un singolo punto di questa rete, acquista piena­ mente valore e senso soltanto in riferimento alla costellazione di segnali provenienti da tutti i collegamenti della rete.

Come si è accennato, l’analisi del processo comunicativo viene fatta in genere isolando un solo canale collegante due punti della complessa rete comunicativa, dando così origine ad un modello diadico molto semplificato: questa operazione può essere utile, quando si tenga però presente che si tratta di un’astrazione conven­ zionalmente stabilita a fini di ricerca.

Secondo questo modello, un emittente forma un messaggio combinando dei segni secondo determinate regole. Il sistema culturale formato dall’insieme dei segni e delle loro regole di combinazione costituisce il codice.’’ Un segno consiste nell’unione di un significante e di un significato. Il significante è per così dire il fenomeno concreto di cui è fatto il segno, è la sua espressione (il suono nei segni linguistici, l’immagine nei segni iconici, ecc.); il significato è il contenuto che il codice collega al significante. Da un punto di vista psicologico esso si realizza nella mente dell’emittente o del destinatario sotto forma di concetti, mentre da un punto di vista sociologico-statistico esso si può identificare con l’uso corrente, o media degli usi concreti, del significante. Il messaggio, viaggiando attraverso un canale, arriva al destinatario, il quale lo interpreta, gli dà un significato mettendolo in relazione con il codice.

Non sempre, però, il codice utilizzato dal destinatario coincide con il codice dell’emittente: ne deriva che il significato del messaggio non dipende solo dalla formulazione e dalla scelta di codice fatta dall’emittente, ma anche dal codice che il destinatario sceglie per interpretare il messaggio. La decodificazione è quindi un pro­ cesso complesso nel quale intervengono la cultura di appartenenza del destinatario, le sue conoscenze e disposizioni personali, la circostanza in cui riceve il messaggio, il contesto in cui si inserisce. Per circostanza, vogliamo intendere qui la particolare situazione comunicativa in cui si colloca il messaggio.

Come si è detto, la diade è parte di una vasta rete comunicativa, e il messaggio si colloca in una situazione nella quale sono compresenti numerosi altri messaggi che si influenzano, si modificano e si precisano reciprocamente, governati dalla struttura comunicativa generale, dalla quale soltanto è possibile ricavare il signi­ ficato ultimo dei diversi messaggi e della loro interazione. Il contesto può essere inteso come il più ampio schema di riferimento culturale nel quale avviene la comu­ nicazione: può essere indicato come il codice culturale generale che organizza e struttura i diversi codici in base ai quali il messaggio è codificato e decodificato.

Questo processo è ulteriormente complicato dal fatto che nella comunicazione umana i codici si innestano e si accavallano gli uni sugli altri. Innanzitutto, accanto al significato fissato da un codice-base, vi possono essere altri significati stabiliti da sottocodici specifici, legati a gruppi sociali, ad attività e a sistemi di conoscenze particolari: codici professionali, scientifici, regionali, giovanili, ecc. Inoltre, la pre­ senza di campi semantici, costellazioni associative, campi nozionali che conferiscono al significante significati secondi e ulteriori (significato connotativo, aggiunto a quello denotativo rigidamente fissato dal codice), rendono ancora più complessa la decodificazione.

Il messaggio si presenta dunque al destinatario come forma significante, gene­ ratrice di significati, che si riempie di denotazioni e di connotazioni grazie a un insieme di codici e sottocodici in rapporto ai quali viene interpretato. Quando un destinatario è in presenza di un messaggio, non è chiaro a priori di quali significati egli lo carichi: sussistono fondati dubbi teorici che questi significati siano gli stessi voluti dall’emittente e gli stessi per tutti i destinatari. Questi dubbi aumentano con l’aumentare delle distanze culturali tra i soggetti comunicanti.8

Codificazione e decodificazione

La codificazione e decodificazione dei messaggi avvengono per lo più auto­ maticamente, inconsapevolmente, attraverso riferimenti a codici che, a loro volta, sono appresi e interiorizzati a livello di cultura implicita.

La costruzione dei codici deve quindi essere preceduta da una « presa di coscienza» della loro esistenza, ostacolata probabilmente da quelle resistenze psico­ logiche profonde che entrano in gioco quando si tenti di portare a livello di consa­ pevolezza contenuti largamente impliciti.

La individuazione e costruzione dei codici è, di conseguenza, ancora agli inizi, incerta e dibattuta. Da molto tempo è invece diffuso a livello di senso comune il riconoscimento che alcuni comportamenti umani e alcuni fenomeni sociali hanno una marcata caratteristica comunicativa, e ad essi si attribuisce il termine unificante di linguaggio. Accanto a quello parlato o scritto, dunque, si indicano correntemente una serie di linguaggi: gestuale, pittorico, musicale, filmico, televisivo, ecc., che di volta in volta si riferiscono a una determinata serie di frasi, gesti, brani musicali, opere pittoriche, cinematografiche, televisive. Qualsiasi linguaggio comprende cioè una serie di messaggi, che nell’uso comune o nelle classificazioni correnti sono riferiti di volta in volta a una categoria ritenuta in qualche modo unitaria e capace di riassumerli e comprenderli. Ad una analisi ulteriore, però, il linguaggio non si rivela unitario, bensì profondamente eterogeneo*, dal momento che i suoi messaggi sono interpretabili solo rinviandoli a più codici differenti. Per esempio, lo stesso linguaggio verbale può essere inteso solo rinviando i suoi messaggi oltre che al codice linguistico (la lingua) anche a codici paralinguistici (dell’espressione, del tono di voce, ecc.), stilistici, narrativi, retorici, ecc. Il linguaggio verbale costituisce cioè un insieme che non coincide con un unico codice, e i suoi messaggi non sono riconducibili ad un unico sistema omogeneo e globale.

Un sistema omogeneo e globale è invece dato dal codice, che è tale perché così è stato ipotizzato e costruito. Esso è infatti il risultato finale di un lungo lavoro di analisi di dati eterogenei, attraverso il quale si è voluto appunto costruire un modello formale che fosse omogeneo. U n codice, dunque, è omogeneo perché è voluto tale, e un messaggio di un dato linguaggio è interpretabile solo se riferito a numerosi codici.

D ’altro canto uno stesso codice può essere messo in gioco per interpretare tutta una serie di messaggi appartenenti a diversi linguaggi. Cosi, può essere neces­ sario ricorrere allo stesso codice linguistico per interpretare messaggi della lette­ ratura, del cinema parlato, della pittura, della comunicazione verbale quotidiana; analogamente può essere necessario per interpretare i messaggi ora citati ricorrere allo stesso codice retorico, narrativo ed altri ancora.

Esistono dunque nell’ambito di una cultura una serie di aree di comunicazione talvolta riconducibili a linguaggi ormai tradizionalmente riconosciuti e accettati (sia pure spesso solo in senso metaforico), talvolta meno. In alcune di queste aree sono già individuati o costruiti codici, in altre i codici sono solo ipotizzati sulla base della loro « necessità teorica » ai fini del processo comunicativo.10

Abbiamo già accennato all’importanza della situazione comunicativa e del contesto per la corretta codificazione e decodificazione di un messaggio. È evidente che ogni comunicazione non avviene mai in un vuoto, ma in situazioni concrete che dettano delle regole pertinenti a quella specifica comunicazione, e che non lo sarebbero in altre.

È chiaro ad esempio che ci sono regole rilevanti per una conversazione fra amici, ed altre per una lezione formale tenuta dalla cattedra, o per una predica in chiesa, o per un discorso uflìciale. Queste regole comunicative basate su una conoscenza situazionale « sono molto vicine alla nozione elaborata in ambito linguistico di registro».11 Se queste regole dettate da una comprensione e cono­ scenza della situazione in cui le persone comunicanti si trovano sono importanti per la comunicazione linguistica, possiamo pensare che ne esistano di simili per quanto riguarda anche il comportamento comunicativo non verbale. Vogliamo ora soffermarci su alcuni tipi di codici che possono intervenire, e normalmente inter­ vengono, in misura rilevante nella comunicazione didattica.

Scuola e comportamenti comunicativi non verbali

Basta avvicinarsi ad un’aula nella quale si tenga una lezione in ima scuola elementare, per rendersi conto di un particolare brusìo o ronzio creato dalle voci dei bambini, sulle quali domina la voce della maestra, in uno staccato di tono alto, del tutto diverso da quello usato nelle normali conversazioni. Ed è un dato di esperienza comune, la misura in cui un nostro qualsiasi discorso possa essere modificato nel significato da particolari intonazioni e coloriture della voce, ferme restando scelta e combinazione delle parole. Queste modalità sono soggette a processi di conven- zionalizzazione e codificazione resi ancora più evidenti dai risultati delle compa­ razioni culturali che hanno mostrato come una stessa intonazione assuma significati diversi in lingue diverse.12 Ma non è possibile assumere necessariamente che i codici anche di sottoculture diverse entro la stessa cultura coincidano del tutto: un tono di voce che per un parlante denota una certa situazione emotiva, o è ritenuto appro­

priato ad una certa situazione sociale, può connotare tutt’altra cosa per il de­ stinatario.

È un’esperienza molto comune quella di vedere bambini piccoli che inter­ pretano il « gridare » della maestra come « essere sgridato », o ritengono che la maestra sia «arrabbiata» con loro; nelle intenzioni della maestra, a livello consa­ pevole, il particolare tono di voce è usato per richiamare l’attenzione, e per farsi sentire fisicamente anche dai banchi più lontani, coprendo il brusio della classe. Un ascoltatore esterno, e non implicato nella situazione della classe, può addirittura pensare che la maestra in questione « deve essere un tipo autoritario » ; la stessa potrà essere poi commiserata in famiglia perché « h a dovuto sgolarsi». In realtà, la necessità di questo comportamento non ha nulla a che fare con l’insegnare; è legato ad una situazione fisica concreta di aule con troppi bambini (che creano un rumore di fondo insopprimibile), dalle dimensioni e le caratteristiche acustiche di molte aule scolastiche, e dalla disposizione spaziale dei banchi in file geome­ triche, ecc.

È ancora esperienza comune quella di bambini non ancora o poco familiari con la situazione scolastica di gruppo, che parlano a voce bassa, esitante, spenta; può accadere ad una maestra non molto esperta di giudicare il bambino « poco pre­ parato», incapace di esprimersi. In realtà il bambino sta esprimendo un suo stato di disagio, d’imbarazzo, un suo modo di vivere il rapporto di subordinazione, non necessariamente collegato alla padronanza, o meno, dell’argomento di cui dovrebbe parlare.

In molte sottoculture regionali ci sono suoni espressivi, ad esempio di dubbio o incomprensione, che possono non essere afferrati affatto da insegnanti provenienti da altre regioni o interpretati come consenso a quanto esposto, o affermazioni positive di «aver capito»; questi usi non sono «naturali» ma sono culturalmente appresi, previsti e accettati, o possono risultare incoerenti con la comunicazione verbale e disturbarla.

Le barriere dovute alla differenza di età fra insegnanti e allievi rappresentano anch’esse ostacoli alla comunicazione didattica in questo particolare settore: un insegnante può ad esempio leggere una poesia alla sua classe con il tono di voce che sembra appropriato al contenuto dei versi; nella cultura giovanile, quel parti­ colare tono di voce risulta inaccettabile, e impensabile il ripeterlo « a richiesta»; la manifestazione in pubblico di certi sentimenti contravverrebbe a delle regole di un «pudore» che l’insegnante ha probabilmente sperimentato nella propria infanzia o giovinezza, ma che ha inevitabilmente dimenticato.

Questo studio della comunicazione umana in base all’intonazione vocale strut­ turata nelle sue componenti di: intensità, altezza, durata, è il campo della paralin­

guistica, e quanto abbiamo detto finora giustifica un interesse e una costante atten­

zione a questi fenomeni nella comunicazione didattica. I tratti paralinguistici degli allievi vengono spesso utilizzati — anche inconsapevolmente — come elementi in base ai quali formulare giudizi sul rendimento o sulla personalità, quando non

sull’intelligenza, e non invece come preziosi indicatori della percezione spesso latente che l’allievo ha del proprio ruolo, o come portatori di contenuti che restano larga­ mente inespressi su altri canali comunicativi.

Quanto abbiamo detto a proposito del paralinguaggio, potrebbe essere ripreso per un altro ordine di comportamenti comunicativi non verbali: ci riferiamo alle comunicazioni trasmesse mediante gesti o atteggiamenti del corpo, che anch’esse avvengono secondo un particolare codice, quello cinesico. Il significato di un gesto va anch’esso inteso contestualmente in senso sia culturale che comunicativo ; tuttavia se si fissa almeno una di queste variabili — cioè il contesto culturale — si rileverà che i gesti nei loro aspetti stereotipati posseggono un’area semantica in certo modo stabile, com’è provato da numerosi materiali raccolti soprattutto in terreno etno- antropologico.

In questo campo, come nel precedente, la codificazione e la decodificazione dei messaggi avvengono per lo più in maniera inconsapevole, dato che è a livello di cultura implicita che tali codici vengono appresi; e così come nel caso precedente, insorgono incomprensioni appunto in ragione dell’appartenenza dei comunicanti a culture o sottoculture diverse.

Il movimento corporeo può essere studiato come sistema convenzionale e tipi­ cizzato che deve essere appreso da ogni individuo ai fini dell’interazione sociale; il codice cinesico è strutturabile anch’esso su un modello linguistico, prevedendo

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