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Per un modello pedagogico alternativo

di Piero Bertolini e Matilde Collari Galli

Mutamenti qualitativi e mutamenti quantitativi

Un italiano su cinquanta un altr’anno frequenterà l’università. Il nostro paese e i suoi abitanti sono profondamente cambiati nel giro di tre generazioni, e la scuola più di ogni altra istituzione, per la sua esplosione demografica: o meglio, per la com­ pressione dentro vecchie strutture logistiche di una popolazione scolastica che si è decuplicata (rimanendo quelle strutture, a paragone, immutate nel tempo). Ma l’aspetto quantitativo è rilevante solo perché produce trasformazioni qualitative; in sé ha scarso rilievo perché dipende da altre variabili. Secondo un opinione che ha molti seguaci, basterebbe trovare finanziamenti più ingenti — come accade negli Stati Uniti d’America — o avere la volontà di spenderli meglio — come accade in altri paesi europei — per risolvere positivamente il rapporto struttura-popolazione scolastica. Ma il punto da mettere in rilievo, è che un mutato rapporto quantitativo determina sempre una nuova dimensione qualitativa. Ed allora passando da Giolitti a Facta, da Mussolini a Parri, da De Gasperi a Fanfani, qual è stata la volontà di mutare qualitativamente la scuola italiana, e quali i risultati di questa volontà, dei suoi conati o della sua assenza?

Il problema, da un punto di vista qualitativo, non è solo italiano; coinvolge

tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, dagli Stati europei alla Repub­ blica Popolare Cinese, dalla Repubblica di Cuba agli stati africani.

La situazione di casa nostra è caratterizzata, però, da due elementi aggiuntivi al problema universale: da un lato le condizioni di partenza, per cui alfinizio di questo nostro secolo metà degli italiani era analfabeta tanto che il nostro paese, a questo livello (e non solo a questo) avrebbe dovuto essere situato nell’area politico­ economica delle zone coloniali e sotto-sviluppate; dall’altro lato l’assenza di una attività realmente riformatrice nel mondo della scuola, per cui molti paesi che ave­ vano condizioni di partenza più pesanti delle nostre, nello stesso periodo, hanno trovato soluzioni sulla cui validità e sulla cui opportunità siamo ancora fermi a discutere. Dobbiamo insomma preparare la scuola del duemila, senza aver realizzato una scuola moderna ed avendo ancora, in alcune regioni, percentuali incredibil­ mente alte di analfabeti e di semi-analfabeti.

“ T u tti, tu tti a scu ola ”

« . . . : vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno, per i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto un sole ardente, dove tra le nebbie, in barca nei paesi intersecati da canali, a cavallo per le grandi pianure, in slitta sopra le nevi, per valli e per colline, a traverso a boschi e a torrenti, su per sentieri solitari delle montagne, soli, a coppie, a gruppi, a lunghe fila, tutti con i libri sotto il braccio, vestiti in mille modi, parlanti in mille lingue, dalle ultime scuole della Russia quasi perdute tra i ghiacci alle ultime scuole del­ l’Arabia ombreggiate dalle palme, milioni e milioni, tutti a imparare in cento forme diverse le medesime cose; immagina questo vastissimo formicolio di ragazzi di cento p o p o li... ».

In questa pagina del più celebre libro sulla scuola italiana, Edmondo De Amicis si « inventa» un corteo di studenti che sciamano per le strade delle città e per vicoli dei villaggi, occupa deserti assolati e tundre ghiacciate, per raggiungere ogni grup­ petto la propria aula scolastica, dove deporre quei libri che hanno tenuto ognuno sotto il braccio, anche quelli che non raggiungendo la scuola a piedi o in slitta o in barca, dovevano avere obiettive difficoltà a cavalcare un cavallo, tenendo, appunto, i libri sotto il braccio.

Non ci interessa, almeno in questa sede, dissacrare questo monumento della letteratura scolastica italiana, e la sua mistificazione sugli arabi e sui russi pre­ sovietici, tutti alfabetizzati, così come tutti alfabetizzati sarebbero stati in quegli anni tutti i bambini italiani. La citazione che abbiamo riportato vuole invece attri­ buire al Cuore il merito di fornirci un punto di vista nuovo per guardare alla scuola degli anni ’60, con scolari e studenti colti non già seduti in compostezza dentro un’aula, ma in giro per le strade, a gestire il territorio urbano con una loro prosse- mica di fronte alle forze dell’ordine, alle masse lavoratrici e alla «maggioranza silenziosa», con una loro cinesica e una loro gestualità, con le invenzioni lingui­ stiche degli slogans e dei cartelli, con vestiti e bandiere, oggetti e strumenti. Bene: la scuola italiana ferma ideologicamente al modello pedagogico degli anni del

Cuore, non prende in considerazione questo essere sociale dei giovani, questo loro

produrre «cose e rappresentazioni sociali», dopo che Durkheim ha insegnato ai sociologi a vederle, queste cose e queste rappresentazioni, e dopo che i sociologi italiani hanno insegnato come vederle alle ultimissime generazioni di insegnanti formatisi nelle nostre università.

Stiamo parlando seriamente; non vorremmo, cioè, essere apparsi sarcastici attribuendo a De Amicis doti proprie di uno studioso delle comunicazioni di massa. E cerchiamo allora di chiarire come lo scrittore — proprio grazie alla sua mistifi­ cazione del passato — può esserci utile per leggere il presente. Inventandosi una infanzia tutta alfabetizzata, De Amicis riusciva infatti ad immaginarsi quella che avrebbe dovuto essere la gestione del territorio in un’era totalmente alfabetica. Se il nostro lettore andrà a riguardarsi il modello pedagogico di De Amicis, ed accet­

terà il falso storico come ipotesi futuribile, riuscirà a cogliere quella che era l’utopia dei liberali, che immaginavano una società di tutti alfabetizzati; e capirà, con una scorciatoia, perché il modello pedagogico che la scuola oggi deve « inventare » non può più essere quello vagheggiato negli anni del Cuore. Il mondo — come appare nella pagina deamicisiana — è presentato (nella sua deformazione utopi­ stica) come un ambiente continuo ed uniforme, dominato dai principi standar­ dizzati della linearità e della ripetibilità, che permeano non solo l’istruzione, ma anche il sistema di produzione, il diritto, la forma della città, il comportamento quotidiano, ecc. De Amicis, insomma, aveva capito che il leggere e lo scrivere sono l’aspetto secondario dell’alfabetizzazione, mentre il suo aspetto principale è costi­ tuito da un procedimento di standardizzazione lineare della vita di ogni giorno. Come dice Marshall McLuhan, nei paesi ad alta alfabetizzazione « il bambino impara l’alfabetismo dal traffico e dalla strada, da ogni automobile, giocattolo o capo di vestiario ». Ed una ricerca antropologica compiuta nell’Italia m eridionale1 ha dimostrato che anche il bambino allevato in una famiglia analfabeta trae dal suo ambiente simbolico e materiale cose e rappresentazioni per continuare ad essere, da adulto, anche lui analfabeta.

L’utopia liberale ha fallito in questo suo programma del « tu tti alfabetizzati», non tanto perché oggi due terzi dell’umanità non sanno leggere un libro, quanto piuttosto perché il terzo dell’umanità a cui viene insegnato a leggere il libro, non vive più in una cultura alfabetica, ma in una cultura post-alfabetica, che in prospet­ tiva è più vicina ai modelli associativi della cultura analfabeta.

Ieri separati dagli altri che non contavano perché non sapevano — e non sape­ vano perché non leggevano e non scrivevano — quelli che contavano perché legge­ vano e scrivevano — e sapevano e quindi e soprattutto potevano — si frazionavano per classi di età, e dentro le classi si frazionavano ancora in buoni e cattivi; e i buoni, fuori della scuola, ancora si frazionavano in unità produttive di lettura, e le letture a loro volta in materie e in argomenti.

La legittimità sociale faceva il suo giro di valzer con la legittimità scientifica al suono del credo della specificità degli oggetti di ricerca e della individualità come sublime traguardo dell’essere umano. Gli « a ltri» non erano individui e si parlava di loro con termini collettivi ed astratti: la plebe, il volgo, la massa, i popolani.

Oggi si torna a parlare di massa, quando con accenti derogatori si definisce la loro cultura come « cultura di massa » : i milioni di telespettatori da cui gli alam­ bicchi statistici filtrano l’indice di gradimento.

Ma fermiamoci qui: il discorso ci porterebbe lontano e possiamo qui solo accennarlo come un inciso. Con la stessa logica con cui ci opponiamo al nostro attuale modello di sviluppo e cerchiamo per la nostra società modelli alternativi, ma continuamo poi a definire sottosviluppate altre società e ci auguriamo che diven­ tino « sviluppate » — che acquistino, cioè, il nostro attuale modello di sviluppo — con questa stessa logica contestiamo l’attuale modello pedagogico della nostra scuola e andiamo alla ricerca di modelli alternativi, ma ci auguriamo che gli

anal-fabeti raggiungano il nostro livello: che siano cioè formati dall’attuale modello pedagogico della scuola che contestiamo. Insomma i diversi da noi, gli « a ltri» devono accedere alla dimensione del « noi », per aver riconosciuto lo statuto di una comune umanità.

A lla scuola dei “ padroni ”

Fermiamo ora la nostra attenzione al terzo dell’umanità che conta, cioè appunto al noi. Ricerche empiriche assai recenti ci parlano di una trasformazione nelle carat­ teristiche psicologiche riscontrate nei nostri pre-adolescenti.2 E ciò potrebbe spie­ gare quello che ormai viene definito il fallimento della scuola: la sua incapacità, cioè, a sostituirsi all’ambiente familiare esteso nella socializzazione dei giovani d’oggi. Una società di tutti alfabetizzati — quella sognata dagli ideologi del libera- lesimo — era anche una società, socializzata dalla scuola, nella quale il traffico e le strade, i giocattoli e i capi di vestiario, erano accessibili — anche se a livelli e a gradi qualitativi diversi — a tutti i membri della società, ed erano già di per se stessi stru­ menti di socializzazione; e, cioè, coerenti alla scuola. I maestri, allora, si facevano portavoce di questa ideologia, e per rimproverare il cattivo comportamento di uno scolaro della classe borghese, lo chiamavano « maleducato », intendendo male edu­ cato dalla famiglia per la scuola.

Insomma è come dire, in termini più stereotipati, che la società « borghese » attraverso la sua scuola « borghese » voleva rendere la maggioranza dei suoi citta- dini «borghesi».

Ora il problema non sta nel far indossare a queste posizioni vesti socialiste, perché allo stesso modo del monaco questi abiti, di per sé, non le renderebbero socialiste.

Accettiamo, a mo’ di apologo, l’episodio narrato da un operaio : ad un’assemblea di 400 genitori — « non tutti ingegneri o liberi professionisti, credo che ci fossero anche genitori operai» — il preside aveva fatto loro la sua brava paternale perché i loro figli facevano sciopero, invece di studiare ed essere ubbidienti. La risposta dei genitori era stato un pater peccavi, un atto di contrizione e un proponimento di accompagnare in futuro i figli a scuola e di sfondare insieme a loro i picchetti di quegli studenti che non volevano farli studiare. Ma tra questi genitori professio­ nisti ed operai, uno degli operai intervenne al microfono, dicendo : « Vi siete resi conto di quello che state dicendo, e poi quando siamo in fabbrica vi lamentate per i dirigenti che abbiamo! ma vi rendete conto che i dirigenti che abbiamo sono stati formati da questa scuola!».3

Vediamo di trarre dalle stesse parole dell’operaio la lezione dell’apologo. Importa poco definire il discorso del preside o dei genitori — professionisti o operai — reazionario. Il vero fatto reazionario sta nel compiere, da parte degli operai, dentro la scuola e da genitori, un’azione contraria — una re-azione — alla

azione tentata nella prassi quotidiana della fabbrica e che tende a coinvolgere anche gli impiegati e gli ingegneri — i dirigenti — ai problemi sociali dibattuti dalla classe operaia. Per cui dentro la scuola i figli degli operai dovrebbero acquistare i modelli di comportamento sociale che qualche anno fa sono stati acquistati dall’attuale classe dirigente e che sono responsabili della « tanta fatica ad avere il dialogo » che gli operai si propongono con la loro azione. Né potrebbe essere diversamente. Rimasto « borghese » il modello pedagogico, il figlio dell’operaio deve impoverirsi della cultura del suo ambiente, spogliarsi di « cose e rappresentazioni » per poter essere, se non già educato alla scuola, almeno educabile ad essa.

È il trionfo dell’ideologia «borghese» — del tutti «borghesi» attraverso la scuola — presumere che il figlio dell’operaio o il figlio del contadino, del semi­ analfabeta o dell’alfabeta totale non ricevano, durante gli anni della socializzazione familiare, norme e atteggiamenti, linguaggi e gesti, e cioè in breve cultura; così come altre norme e altri atteggiamenti, altre parole e altri gesti, ha ricevuto il figlio del borghese istruito, dirigente o professionista. L’uno e l’altro studente in realtà arrivano a scuola con una loro cultura, e presumere che sia superiore la cultura del «borghese» è una evidente forma di classismo e di violenza.

Si potrebbe, allora, credere (come in effetti qualcuno ha creduto) che basti definire la scuola attuale come la scuola dei padroni vagheggiata dall’ideologia borghese, che serva cioè a produrre padroni e che padroni produca nei laureati che faranno gli impiegati e gli ingegneri in fabbrica. Che le cose non stiano cosi e che quindi non si possa tentare di risolvere il problema della scuola attuale sulla base di tali ipotesi l’ha capito la classe operaia, quando ha rifiutato il sonnambu­ lismo degli slogans e non ha identificato l’impiegato con il padrone, e quando ricerca — proprio per ciò — un’alleanza con l’impiegato.

Oggi i « padroni» hanno ben capito che questa scuola non è la loro, nel senso che non produce padroni, tanto che prima o poi se la creeranno davvero la loro scuola; renderanno, cioè, ufficiali ed istituzionalizzate una serie di iniziative che già da tempo vanno sperimentando a livello personale (la frequenza di università straniere o la pratica di sports e di attività ricreative per i figli) o a livello sociale (scuole di perfezionamento, corsi di aggiornamento legati ad iniziative esclusive e private, fondazioni, ecc.). Il problema, in termini corretti, va dunque affrontato a nostro parere partendo dalla crisi della scuola che è crisi del modello pedagogico liberale accompagnata da scarsissimi tentativi di programmare un modello alter­ nativo. Di conseguenza la lotta politica va condotta a livello dell’identificazione di tale modello, e non solo delle strutture scolastiche che applicando il modello del­ l’ideologia liberale possono produrre, al massimo della loro efficienza, solo quel tipo di studente del quale, come abbiamo visto, si lamentava giustamente il nostro operaio.

Per tentare di tracciare un primo abbozzo di questo modello alternativo, esami­ niamo per un istante i caratteri del modello liberale e cerchiamo di individuare il punto in cui questo modello tradizionale ancora vigente non aderisce alle esigenze della società, per cui diciamo, appunto, che la scuola oggi non socializza.

L a fra m m e n ta z io n e e l a concen trazion e

Torniamo, così, alla scuola che secondo la formula corrente viene definita scuola di classe perché scuola della classe dominante. Accettiamo questa formula come ipotesi di lavoro, e chiediamo come la classe dominante riesca — attraverso la scuola — ad esercitare il suo potere sulle altre classi. La risposta, schematica e riassuntiva, che proponiamo è che la scuola riesce a frazionare e dividere la società globale, garantendo in questo modo al sistema il controllo sulle parti separate. Questo moderno e laico divide et impera è il prodotto — il frutto — della istru­ zione alfabetica. Ogni organizzazione del lavoro è determinata da una coesistente e corrispondente tecnologia. Anche per l’organizzazione del lavoro scolastico, ciò da cui dobbiamo partire, è la corrispondente tecnologia dell’insegnamento- apprendimento. Ed ancora: così come al capitalismo corrisponde la macchina, all’istruzione obbligatoria corrisponde l’alfabeto. In realtà si tratta di qualcosa di più di un paragone tra l’organizzazione generale del lavoro e l’organizzazione della scuola. L’interpretazione marxiana del fatto sociale globale ha già dimostrato, appunto, l’unità dei due fenomeni della produzione e della socializzazione. Ciò che vorremmo qui approfondire è allora la correlazione esistente tra gli altri due termini dell’equazione che abbiamo proposta: tra la tecnologia di produzione e la tecnologia dell’insegnamento-apprendimento. Immediato corollario di questo schema è che così come un sistema sociale muta nella misura e in corrispondenza del nuovo fattore tecnologico che venga utilizzato, allo stesso modo muta la socializzazione dell’individuo nella misura e in corrispondenza della tecnologia dell’istruzione, utilizzata nel processo educativo.

Il principio fondamentale della tecnologia della macchina era la frammenta­ zione della produzione; lo stesso principio è riscontrabile — per la conoscenza — nella tecnologia dell’alfabeto. E l’una e l’altra frammentazione tecnologica consen­ tono una successiva integrazione solo grazie alla loro intrinseca concentrabilità : i mezzi di produzione concentrati nella fabbrica, l’istruzione vista come alfabetiz­ zazione, e quindi concentrata nei libri di testo scolastici.

Il carattere accentratore dell’insegnante nella vita di una classe scolastica è l’esempio più chiaro, al di là della sua ovvia pertinenza al tema di questo nostro scritto. L’insegnante, accentratore di conoscenze e di giudizi, di organizzazione della didattica e della disciplina, dovrebbe « naturalmente » stabilire i suoi rapporti con la classe che il potere politico e burocratico gli attribuisce all’inizio di ogni anno.

E immaginiamo, allora, un giovane maestro alle sue prime armi, fresco di studi e di nomina. Entra nell’aula con tante idee e tanti propositi in testa, ed ha di fronte 25-35 persone che con il tempo imparerà a conoscere una ad una; ma ora, all’inizio, esse costituiscono un gruppo che una volontà esterna ha messo insieme e che va guidato ed organizzato in quanto gruppo. E come ogni gruppo ha le sue dinamiche e i suoi controlli; e sarà disciplinato o indisciplinato, attento o disattento

come conseguenza della dinamica che l’insegnante stabilirà con esso nel suo insieme. Secondo il modello pedagogico ottocentesco — perché altri modelli sono possibili e nella nostra scuola, oggi, sono talvolta anche sperimentati — l’organizzazione del lavoro didattico presuppone una preliminare frammentazione della scolaresca, in base al merito, ma anche in base alla prossemica, cioè alla suddivisione dello spazio dell’aula in file di banchi, in banchi e in posti. Ed il modello ottocentesco era estremamente coerente nella figura accentratrice dell’insegnante che frammen­ tava secondo il merito e secondo prossemica — il più bravo al primo banco — ma era veramente bravo insegnante se, giocando sulla molla del meccanismo di merito — la competitività — riusciva a rendere tutti bravi — anche se a gradini e con voti differenziati — e ad integrare così ciò che prima era stato separato. La classe tor­ nava allora ad essere unità, ed era — come si diceva — la migliore dell’istituto. Anche i rapporti tra gli uomini — il vero risultato a cui tende ogni modo di produ­ zione ed ogni modello pedagogico — dovevano conseguentemente rispondere all’esigenza della frammentazione-concentrazione. Il modello pedagogico che la macchina, e il suo corrispondente, il libro, proponevano per le relazioni sociali e per le relazioni psicologiche, aveva dunque come suo scopo quello di creare nel­ l’individuo e nella società, una separazione tra l’azione e la reazione. Per cui lo studente ideale corrispondeva alla metafora del vaso vuoto da riempire, e la vita sociale, dentro la scuola, frammentava il campo dell’istruzione suddividendo gli insegnanti dagli scolari, gli adulti dai bambini, l’atto dell’apprendimento dalla prova dell’atto. È necessario oggi individuare un nuovo modello che tenga conto delle rivoluzioni tecnologiche verificatesi nel mondo del lavoro e nel mondo della socializzazione infantile. La rivolta dei ghetti negri e la contestazione studentesca della fine degli anni ’60, hanno, infatti, dimostrato che la nuova tecnologia (della produzione e dell’informazione) determina una integrazione di tipo opposto a quella esistente nell Ottocento : una integrazione che non segue come conseguenza neces­ saria ad una precedente frammentazione. Non essendo stati separati preliminarmente, negri e giovani, non possono più essere controllati perché non c’è nessuno spazio reale che li delimiti, o meglio perché essi non percepiscono più gli spazi simbolici preclusi ai loro padri come estranei alla loro gestione dell’informazione e alla loro produzione sociale del territorio. Certo, poiché viviamo ancora in un’era di trapasso, il modello pedagogico ottocentesco può ancora vivacchiare, nel senso che può avere un lungo coma in cui la vita cerebrale si è già spenta e continuano solo forme

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