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Rapporti tra l’ipotesi della deprivazione cultu rale e Pinterazione madre-figlio

di Laura Benigni

In questo articolo ci proponiamo di analizzare i dati su cui è basata l’ipotesi della deprivazione culturale allo scopo di verificarne la sostenibilità e la produttività sia dal punto di vista scientifico che da quello dell’intervento pedagogico e/o assi­ stenziale.

Come è noto, il concetto di « deprivazione culturale» è nato nell’ambito delle ricerche per « l ’educazione compensativa» condotte negli Stati Uniti dopo il ’60 e ha conosciuto una fortuna praticamente incontrastata, per il suo apparente potere esplicativo, fino al ’70, quando gli insuccessi e le critiche reazionarie alla educa­ zione compensativa (Jensen, 1969) da un lato, e lo studio più approfondito di alcuni degli handicap linguistici che venivano considerati come determinanti nella « sin­ drom e» della deprivazione culturale dall’altro, hanno cominciato a mettere in crisi la sua validità.

Il concetto di «deprivazione» è stato mutuato dagli psicopedagogisti dagli esperimenti di deprivazione sensoriale della psicologia animale e, come spesso avviene per i risultati tratti dall’etologia, alcune delle conclusioni e dei raffronti tra i due campi non scaturiscano da osservazioni dirette, ma soltanto da estra­ polazioni dall’animale all’uomo che sono scorrette proprio da un punto di vista di una strategia euristica di tipo etologico, secondo la quale non si possono estra­ polare i risultati da una specie all’altra, ma piuttosto ogni specie va osservata direttamente. Per questa necessità di « umanizzare » il termine di deprivazione, oltre che per sottolineare la determinante ambientale, sin dall’inizio è stato accom­ pagnato dall’attributo di « culturale ».

U na evoluzione, dovuta in larga parte alle ricerche di M. Deutsch e collabo­ ratori (1964; 1965), ha portato ad una stabilizzazione di questa ipotesi sotto l’etichetta di « deprivazione cumulativa ». Secondo questa formulazione più com­ pleta Deutsch e altri asseriscono che le carenze dei soggetti con handicap educativi sono di natura intellettuale, sono prodotte dall’ambiente della lower-class e tendono ad essere permanenti ed irreversibili.

Quest’ultimo aspetto, anche se raramente viene asserito esplicitamente, sca­ turisce come implicazione logica dalle seguenti citazioni:

Gli effetti dell’ambiente della classe bassa sullo sviluppo del bambino possono diventare sempre più seri durante il quarto e il quinto anno. Perciò, quanto più queste situazioni continuano, tanto più facilmente gli effetti sono duraturi (Hunt, 1964, p. 89).

Dovremo aspettarci che le variazioni nell’ambiente abbiano un effetto vistoso prima di questa età, con una punta massima fra 1 e 5 anni (Bloom, 1964, p. 68).

Il bambino che ha un ritardo nella crescita imputabile ad una deprivazione vissuta in passato è meno capace di trarre profitto da nuovi e più avanzati livelli di stimolazione ambientale. Perciò, senza tener conto degli altri fattori, sia interni che esterni, il suo deficit tende ad aumentare cumulativamente e porta a un ritardo perma­ nente (Ausubel, 1965, p. 11).

Una delle idee teoriche di base per la ipotesi della deprivazione cumulativa è costituito quindi dai concetti di periodo critico e di deprivazione sensoriale.

C. Deutsch (1964), parlando della educazione prescolastica, ritiene che il prin­ cipio della deprivazione di uno stimolo durante un periodo critico può essere esteso al comportamento umano e comporti che, quando sono deprivati di uno stimolo in certi periodi, gli uomini non siano capaci di recuperare le loro perdite intellettuali.

Un secondo concetto usato per sostenere l’ipotesi della deprivazione cumu­ lativa è quello dell’effetto inibitore della esperienza precedente su un nuovo appren­ dimento, cioè il concetto di transfert negativo (Jensen, 1966). L’ambiente sociale può fornire un tipo di esperienza che restringa la gamma e la direzione dello svi­ luppo cognitivo. In conseguenza di ciò il ritardo di certi tipi di apprendimenti, dovuto alla mancanza di opportunità nell’ambiente, ha effetti profondi e cumulativi sull’apprendimento seguente.

Sulla base di queste asserzioni è possibile fare alcune obiezioni di fondo ai sostenitori dell’ipotesi della deprivazione cumulativa:

1 • — Il concetto di « periodo critico », cioè di un periodo ottimale entro cui deve avvenire « l’incontro » (Hunt, 1964) tra il periodo maturativo del bambino e una stimolazione ambientale adatta perché avvenga l’apprendimento o l’esercizio di determinate capacità, si è rivelato valido per alcune capacità come il sorriso o o il linguaggio, ma soltanto nei casi di una deprivazione sociale molto grave, che quindi non ha nulla a che fare con il tipo di « carenze » che vengono individuate nei bambini che presentano delle difficoltà nell’apprendimento scolastico.

2. — Non esiste nessuna ricerca che possa provare che il modello di socia­

lizzazione e il tipo di stimolazione che il bambino riceve nella famiglia medio-alta sia ottimale e fondato psicologicamente, esistono invece delle prove che questo tipo di socializzazione porta al mancato sviluppo di molte potenzialità del bam ­ bino, dallo sviluppo motorio a quello sociale, fino a quello cognitivo.

3. — Le situazioni sociali dei vari paesi non sono confrontabili: non esiste quindi una « sindrome della deprivazione » che sia indipendente dalle dislocazioni geografiche e dalle differenti stratificazioni sociali.

4. — Il disegno sperimentale delle ricerche che hanno tentato di suffragare l’ipotesi della deprivazione culturale ha sempre previsto di considerare come « nor­ mali», come controllo, i bambini della classe media e come «carenti» gli altri; inevitabilmente il loro comportamento differente è stato considerato come «carente» di qualche aspetto e quindi definito «deprivato». Ricerche condotte recentemente da due sociolinguisti americani, Baratz e Labov, hanno mostrato che invertendo il paradigma diventano «deprivati» i bambini della classe media.

Anche molto dopo i tempi di Dickens, quindi, «nascer poveri è un delitto», non solo, ma nella nostra società il delitto si è trasformato in qualcosa di scientifico : « nascer poveri è una malattia », significa avere la malattia di non essere predisposti all’apprendimento, o, per dirla con Hunt e con Ausubel, non avere la « motiva­ zione intrinseca» ad apprendere.

Il problema che gli studiosi dell’educazione compensativa si pongono è quindi quello di individuare la terapia per questa malattia e, inoltre, quello di individuare la gamma di età in cui si possono usare i mezzi terapeutici con la minore spesa e la massima efficacia; non a caso il risultato degli studi sulla educazione compen­ sativa è stata un’enfasi sulla educazione prescolastica e quindi su una terapia di tipo «preventivo».

Ma analizziamo più dettagliatamente alcuni dei contributi più interessanti scaturiti dall’ipotesi della deprivazione.

In primo luogo, la natura dei deficit linguistici che vengono indicati da tutti gli autori come una delle cause principali degli handicap educativi.

Bernstein e il suo gruppo di ricerca hanno messo in luce come, alla base delle differenze nel linguaggio tra classi sociali diverse, al di là dei problemi dialettali, vi sia un uso diverso che viene fatto della comunicazione verbale. Questo uso dif­ ferente si sviluppa soprattutto negli anni successivi all’apprendimento dei mecca- canismi fondamentali del linguaggio, attraverso l’interazione sociale con la famiglia e il gruppo. Le ricerche di Hess e Shipman e di Bernstein hanno infatti messo in luce come, soprattutto attraverso gli agenti della socializzazione, in particolar modo attraverso la madre, il bambino delle classi socio-economicamente emarginate venga gradualmente indirizzato verso un uso del linguaggio di tipo implicito, strettamente legato al contesto familiare, mentre, nel caso della classe medio-alta, il bambino riesca a sviluppare una serie di stili e di usi meno legati al contesto familiare, più espliciti e quindi più comprensibili a persone estranee e perciò più adatti al tipo di comunicazione verbale che viene usata nel rapporto educativo, che è formale, non legata al contesto immediato (e che quindi dovrebbe favorire il ragionamento astratto).

Riportare il problema ad una incompatibilità fra i risultati di differenti modelli di socializzazione e i prerequisiti per trarre profitto dalla scuola tradizionale e in genere dairinserimento con la società nel campo del lavoro, della fruizione dei mass-media, ecc., ci porta tuttavia a continuare a considerare come « anomalo » o « difettoso », o almeno come incompleto il comportamento di determinati gruppi o classi sociali, che viene messo a confronto con quello della classe sociale o del gruppo che riesce a trarre profitto (o che tradizionalmente ci è riuscito) dalla strut­ tura educativa esistente cosi come da tutti gli altri tipi di organizzazioni, dal lavoro ai servizi sociali.

Questo tipo di approccio porta inevitabilmente a delle proposte insostenibili sul piano dell’intervento. Infatti, ipostatizzare come perfetto il modello di socia­ lizzazione della famiglia di classe medio-alta porta all’assurdità di creare dei pro­ grammi compensativi che riproducano a scuola le variabili di quella interazione sociale: enfasi sulla interazione verbale, sul rapporto adulto-bambino, sulla auto­ stima in compiti di tipo astratto, sulla individualità dei rapporti interpersonali; una volta scelta questa strada, perché l’ambiente familiare « sbagliato » non « rovini » il tentativo fatto a scuola non rimane che istituzionalizzare il bambino (in vari modi, che vanno dalla scuola a tempo pieno fino a iniziative come quelle dei Kibbutzim), oppure tentare di «rieducare» l’ambiente familiare. In entrambi i casi il compito che la scuola si prefigge sarà tanto più gravoso quanto più rigido sarà il tentativo di « cambiare » il tipo di interazione sociale che caratterizza un gruppo sociale.

È facile evidenziare come la maggior parte delle caratteristiche di una socializ­ zazione ritenuta « deprivante» sul piano cognitivo siano tali solo come conseguenza di un pregiudizio nei confronti delle classi sociali e dei gruppi marginalizzati. Si prenda ad esempio il distacco precoce della madre che avviene nel sottoproletariato napoletano (Carotenuto, De Martini, Magarò, 1972) e la conseguente responsa­ bilità per la cura dei più piccoli che viene attribuita ai bambini più grandi della stessa famiglia o dei vicini, questo distacco ha due conseguenze: sul piano emotivo una autonomia dagli adulti più precoce, e sul piano comunicativo, un’enfasi sulla comunicazione di tipo non verbale, gestuale, o relativa al gioco (grida, cantilena, ecc.) che, ovviamente, non ha nessun ruolo nella cultura della scuola e nemmeno in quella dominante nella società.

Questa autonomia precoce dagli adulti, a livello delle iniziative, della assun­ zione di un ruolo e persino (si pensi al lavoro minorile) della sopravvivenza, porta ad una più intensa interazione paritaria con i coetanei di quanto non sia consentito nella famiglia di livello socio-economico medio-alto.

È noto come questa interazione intensa con i coetanei, quasi alternativa a quella che si svolge in famiglia, sia considerata da un lato un ulteriore indice di deprivazione, dall’altro potenzialmente negativa e pericolosa, perché, sfuggendo al controllo degli adulti, viene considerata pedagogicamente poco valida da una pedagogia che si fondi soltanto sul rapporto adulto-bambino e inoltre pericolosa

dal punto di vista sociale (si pensi alla tradizione di studi che vedono i gruppi gio­ vanili solo come un fenomeno di delinquenza minorile).

Al contrario le tendenze pedagogiche più attuali sottolineano l’importanza della socializzazione tra coetanei e dell’apprendimento in gruppo; lo stesso valga per il problema del distacco della madre, un problema largamente irrisolto dal modello di socializzazione della classe medio-alta. Esistono quindi delle caratteri­ stiche positive nella socializzazione delle culture povere, che, probabilmente, rispon­ dono meglio non soltanto a delle esigenze istintive dello sviluppo del bambino, ma che possono anche costituire una base positiva per una pedagogia che parte dalla attività e dalla esplorazione del bambino e non dalla sua ricezione passiva degli ammaestramenti dell’adulto.

In questa luce la deprivazione cumulativa di Deutsch non è costituita più dal- l’accumularsi del deficit nel bambino già deficitario, ma dalla attiva costruzione da parte della scuola, che lo rifiuta, di un alunno « deprivato », che non può svi­ luppare se stesso nella direzione del gruppo di provenienza e neppure può diventare come la scuola vorrebbe, perché doveva già esserlo prima di entrarci.

Per chiarire quanto sia erroneo considerare da un lato il bambino e dall’altro il contesto sociale in cui vive come quello da studiare per isolarne le caratteristiche sbagliate, basti pensare che il rapporto tra il bambino e l’ambiente non è mono­ direzionale, il bambino non è un essere passivo, da plasmare, ma lui stesso con le sue caratteristiche individuali e le sue potenzialità influenza l’ambiente. Bisogna però tenere presente che una serie di fattori, che vanno dalla malnutrizione alle difficoltà perinatali, possono influenzare il bambino e quindi lo sviluppo del suo rapporto con la madre. Ancora una volta, come per la scuola, le caratteristiche di un rapporto sono legate alla classe sociale, ma per motivi completamente diversi da quelli addotti dalle ricerche sulla deprivazione culturale.

È interessante notare che sebbene la maggior parte degli autori che sostengono l’ipotesi della deprivazione culturale siano concordi nell’attribuire alla famiglia e particolarmente alla madre la causa della deprivazione, questi autori non parlano mai di «deprivazione di cure m aterne» (una particolare evoluzione della intera­ zione tra il bambino e la madre che può creare dei gravi disturbi nel bambino), ma piuttosto di « incapacità di fornire ai neonati e ai bambini piccoli l’opportunità di avere esperienze che sono loro necessarie perché si verifichi un adeguato sviluppo di quei processi centrali semi autonomi indispensabili per l’acquisizione dell’abilità nell’uso di simboli linguistici e matematici nonché per l’analisi delle relazioni cau­ sali» (Hunt, 1967, p. 59). Non si tratta quindi di una inadeguatezza della stimo­ lazione ambientale che investa tutti gli aspetti dello sviluppo, ma in particolare alcuni aspetti specifici dello sviluppo cognitivo, che dovrebbero predisporre all’ap­ prendimento scolastico. La posizione di H unt trascura completamente una possi­ bilità: che un certo grado di sviluppo di determinate capacità sia relativo soltanto al tipo di strategia pedagogica seguita dalla maggior parte dei sistemi educativi;

lo sforzo di elaborare dei programmi« compensativi» ha messo in luce infatti l’inade­ guatezza dei sistemi educativi che fondavano l’apprendimento sul presupposto che i bambini fossero già in larga parte « formati» dalla famiglia, sia a livello delle capacità cognitive di base: linguaggio, capacità di concentrazione, ragionamento astratto, ecc.; ma anche per quanto riguarda un repertorio complesso di capacità sociali: assunzione e riconoscimento di un ruolo, autoinibizione dell’aggressività, enfasi sulla interazione linguistica, regole sociolinguistiche relative alle forme di cortesia, stile di conversazione, intonazione, ecc. Poiché l’obbligo scolastico nella maggior parte dei paesi inizia tra i cinque e i sette anni, quando queste capacità sono a un buon livello di sviluppo, le strutture educative hanno evaso compieta- mente due problemi cruciali: la formazione delle capacità di base e la formazione precoce.

I sostenitori dell’ipotesi della deprivazione culturale operano una distinzione molto netta tra sviluppo cognitivo e sviluppo sociale, e questa tendenza si evidenzia particolarmente a proposito della presunta inadeguatezza della stimolazione cogni­ tiva del bambino da parte della madre di classe socio-economica bassa.

Infatti, mentre non si parla affatto di inadeguatezza dello sviluppo sociale, al bambino «deprivato» vengono attribuiti dei ritardi nello sviluppo cognitivo, che vengono paragonati, per la loro gravità, ai disturbi nello sviluppo sociale degli animali deprivati : « La differenza tra i bambini in condizioni di deprivazione cultu­ rale e quelli culturalmente privilegiati è analoga alla differenza tra i cani e i gatti allevati in gabbia e quelli allevati come animali domestici». (Hunt, 1967, p. 59). Alcune ricerche recenti sullo sviluppo comunicativo del primo anno di vita (Bates, Camaioni, Volterra, 1973; Benigni, 1973). suggeriscono invece una stretta inter­ connessione tra lo sviluppo comunicativo e sociale, legata alla interazione con altri adulti. Il ruolo dell’adulto, come stimolo ambientale non sembra essere quello di un « maestro », quanto piuttosto quello di un organismo che risponde alle iniziative sociali del bambino ed è sulla base di questa interazione che il bambino sviluppa le prime forme della comunicazione intenzionale.

Gli «insegnamenti» dei primi anni da parte dell’adulto sono quindi di tipo implicito e consistono prevalentemente in risposte e interpretazioni dei segnali del bambino. Quando queste risposte e queste interpretazioni sono assenti, il bam­ bino mostra delle difficoltà nello sviluppo sociale che possono anche, nei casi più gravi, arrivare a inibire lo sviluppo cognitivo. Questo livello minimo di disponi­ bilità dell’adulto di rispondere e interpretare i segnali del bambino piccolo sembra in larga parte indipendente da fattori culturali.

Una conferma di questa tesi anche a proposito dello sviluppo linguistico ci viene dai risultati che mostrano come a due anni i bambini provenienti da classi sociali diverse possiedono le stesse regole fondamentali del linguaggio (Parisi, 1973), e a tre anni non ci sono differenze di classe sociale nella comprensione sintattica (Parisi e Pizzamiglio, 1971), ma a sei anni queste differenze sono presenti sia nella

comprensione che nella produzione sintattica e nella comprensione del vocabolario. Questi risultati dimostrano come anche l’ambiente sociale che dovrebbe essere « deprivante » consenta uno sviluppo linguistico adeguato, e come le differenze si instaurino più tardi, quando le capacità fondamentali sono già strutturate e il bambino inizia a frequentare la scuola, che anziché attenuare queste differenze le mantiene e anzi le accentua (Benigni e Parisi, 1973).

Questo significa che tutte le madri sono potenzialmente dei partner sociali adeguati per i figli indipendentemente dalla classe sociale o dal gruppo di appar­ tenenza almeno fino ad una certa età, fino all’età in cui grosso modo i bambini hanno imparato a camminare da soli e mangiare, a esplorare e a parlare in modo comprensibile anche per altri adulti; da quel punto in poi le ulteriori acquisizioni del bambino non riguarderanno quindi capacità di base, ma un progressivo sviluppo delle capacità sociali e cognitive nella linea degli adulti del suo gruppo sociale.

A quel punto il compito di un sistema educativo non è quindi quello di com­ battere o prevenire le deviazioni da una norma di sviluppo ottimale che viene indi­ viduata fuori della scuola, nelle capacità pedagogiche di un ceto sociale, ma di elaborare delle strategie pedagogiche a partire dalle capacità del bambino, per continuare il compito iniziato dalla madre e dalla famiglia per aiutarlo a svilup­ pare le sue potenzialità cognitive e sociali.

La u r a Be n ig n i

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