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Centro sociale A.20 n.112-114. Subculture, classi, ruoli nella scuola italiana

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Academic year: 2021

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112•114

"Centro Sociale”

subculture, classi, ruoli

nella scuola italiana

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Centro Sociale

Periodico bimestrale del Centro di Educazione Professionale per Assistenti Sociali (C E PAS) - Università di Roma

Comitato scientifico

A. Ardigò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des

Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federation of Settlements, New York - F. Botts, FAO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casara, Esperta Educazione degli Adulti, Roma - G. Cigliana, Esperto Servizi Sociali, Roma - E. Clunies-Ross, Institute of Education, University of London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - J. Dumazedier, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A. Olivetti », Roma - E. Hytten, Div. Social Affairs, UN, Geneva - F. Lombardi, Istituto dì Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L. Miniclier, Inter­ national Cooperation Administration, Washington - G. Molino, Amministrazione Attività Assi­ stenziali Italiane e Internazionali, Roma - G. Motta, Fondazione « A. Olivetti », Roma - R. Nisbet, Dept, of Sociology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaroni, Facoltà di Architet­ tura, Università di Roma - M. G. Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osservatorio di Economia Agraria, Università di Napoli - U. Serafini, Presidenza Consiglio Comuni d’Europa, Roma - M. Smith, Home Office, London - /. Spencer, Dept, of Social Work, University of

Edinburgh - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

Comitato di redazione

Adele Antonangeli Marino - Elisa Calzavara - Teresa Ciolfi Ossicini - Egisto Fatarella - Velelia Massaccesi - Giuliana Milana Lisa - Laura Sasso Calogero

Dirett. responsabile: Anna Maria Levi - Segret. di redazione: Ernesta Rogers Vacca Direz. redaz. amministraz. piazza Cavalieri di Malta, 2 - 00153 Roma - tei. 573.455

Prezzi del 1973:

Abbonamenti a 6 numeri annui L. 4.800 - Estero L. 6.500 - un numero L. 900; arretrati il doppio - sped. in abbonamento postale gruppo IV - c.c. postale n. 1/20100.

Prezzo di questo fascicolo L. 2.700.

Una volta all’anno Centro Sociale pubblica un volume in edizione internazionale dedicato a pro­ blemi di sviluppo socio-economico dal titolo International Review of Community Development.

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scienze sociali - servizio sociale - educazione degli adulti

sviluppo di comunità

Centro Sociale

anno XX, n. 112-114, dicembre 1973

Sommario

Subculture, classi, ruoli nella scuola italiana

A. Carbonaro 3 Insegnanti nella scuola e nella società

D. P. Ryan 4 9 Condizioni di vita e atteggiamento verso la conoscenza: la formazione dei futuri insegnanti

P. Bertolini e M. Collari Galli

6 7 Per un modello pedagogico alternativo

L. Benigni 91 Rapporti tra l’ipotesi della deprivazione culturale e l’inte­ razione madre-figlio

E. Calzavara e E. Celli

99 Comunicazione non verbale e educazione

E. Rogers Vacca 117 Effetti della moltiplicazione degli operatori scolastici sul ruolo dell’insegnante

1 3 3 R e c e n s i o n i

B Guidetti Serra e F. Santanera, Il paese dei Celestini; F. Carugati, G. Casadio, M. Lenzi, A. Palmonari, P. Ricci Bitti, Gli orfani dell’assistenza (E. Rogers Vacca); A.M . Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne (A. Signo­ relli D’Ayala); P. Murialdi, La stampa italiana nel dopo­ guerra: 1943-1972 (M. Buonanno); R. Laporta, La difficile scommessa (M. Negri); E. Limbos, L animatore socio-cul­ turale (J. Mawas); S. G. Tarrow, Partito comunista e con­ tadini nel Mezzogiorno (D. Moss).

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153 S e g n a l a z i o n i

a cura di M. Buonanno, E. Calzavara, E. B. Hill, J. Mawas, M. Negri, E. Rogers Vacca, A. Signorelli D’Ayala, L. Spiller.

1 9 3 Documenti e d ib a ttiti

A. Gramsci, L ’organizzazione della scuola e della cultura - Per la ricerca del principio educativo; A proposito di alcune critiche: dibattito fra C. Tullio Alton e A. Signorelli D’Ayala; Problemi e prospettive dell’affidamento familiare; A. Antonangeli, T. Ciolfi Ossicini, G. Milana, E. Rogers Vacca, Tesi discusse al CEPAS dal marzo 1973 al di­ cembre 1973.

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Insegnanti nella scuola e nella società

di Antonio Carbonaro

Premessa sulla collocazione sociale degli insegnanti

U n discorso sugli insegnanti rischia di ripetere cose già risapute. Su di loro si è applicata a lungo la letteratura pedagogica, sociologica, psicologica e anche politica. In questa sede ne ripercorriamo le tracce senza pretendere di pervenire a una sintesi interdisciplinare, o di fare una rassegna dei contributi specifici. La numerosità degli addetti alla categoria — attualmente più di 600.000 — e la loro collocazione nel rapporto tra le varie classi in forza del ruolo professionale e degli atteggiamenti mentali, suggerisce un approccio generale, organizzato attorno ad alcuni elementi a loro comuni. In primo luogo, gli insegnanti sono dei professionisti cui vengono affidati compiti importanti nella trasmissione culturale e nella formazione educativa. A tale scopo essi si applicano alla elaborazione di idee e alla ricerca, utilizzando i prodotti dell’industria culturale e delle tecnologie educative. In questo senso, sono vicini ai gruppi di intellettuali legati a istituti universitari e scientifici di ricerca e a quelli che a vario titolo collaborano con l’editoria.

Essendo essi, inoltre, inseriti in un’organizzazione pubblica, terremo anche conto del fatto che la loro collocazione si situa nella parte superiore della fascia di quelle categorie impiegatizie che T. H. Marshall propose di chiamare professio-

nalismo amministrativo. In codesta fascia rientrano gran parte degli impieghi eser­

citati dai ceti medi. Di tutto ciò che T. H. Marshall ha scritto a proposito del professionalismo amministrativo basterà ai nostri fini ricordare che esso raggruppa quelle professioni e semi-professioni le quali, pur essendo inserite in organizzazioni dominate dallo spirito capitalistico, non possono essere considerate organi, bensì soltanto strumenti del capitalismo. Ciò vuol dire che di quest ultimo tali professioni subiscono la razionalità egoisticamente orientata sul profitto e sull efficienza del rapporto mezzi-fini ma rimangono aliene per natura e intenti propri dalle relative preoccupazioni finanziarie, speculative e competitive. Se questo è vero per gli impieghi privati, lo è tanto più per gli impieghi pubblici. Dunque, in questo senso la categoria degli insegnanti è una categoria di lavoratori dipendenti che condivide con altre categorie similari l’avversione alla filosofia economica utilitaristica.1

Le difficoltà che tuttavia gli addetti alle professioni amministrative e gl’inse­ gnanti hanno più volte manifestato a identificarsi del tutto con le classi lavoratrici proletarie dipendono dalla condizione di ambiguità oggettiva della loro colloca­

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zione nei rapporti di classe. Per quanto concerne specificamente gli insegnanti, esplichiamo le principali componenti della loro condizione di ambiguità. La più importante sembra essere quella derivante dalla contraddizione fra l’universalismo della cultura e la sua funzione selettiva di classe, alla quale si collega il carattere di organizzazione specializzata e «separata» della scuola rispetto alle forze sociali. Ma non minore importanza ha il fatto che la deprivazione dei « mezzi di produ­ zione» a cui sono stati ridotti anche gli insegnanti non elimina del tutto un certo grado di controllo su tali mezzi, soprattutto per il modo in cui le loro capacità e competenze riescono a comporsi in uno stile personalistico nell’uso dei contenuti, dei materiali e delle tecniche relative all’educazione e all’istruzione. Si tratta di una sfera di autonomia più ampia di quella che hanno i lavoratori inseriti in sistemi rigidi e meccanicistici di divisione del lavoro operaio e impiegatizio, in virtù della quale più facilmente si sviluppa l’illusione di un’autonomia reale.

U n’altra condizione di ambiguità consiste nell’essere applicati a un lavoro apparentemente improduttivo rispetto alla produzione di plusvalore, cosicché gli insegnanti sono valutati e si percepiscono differenti dai lavoratori salariati e sti­ pendiati, che invece contribuiscono direttamente a creare plusvalore.

Per il momento chiariremo quest’ultimo aspetto del problema risalendo poi agli altri. È noto che K. Marx fa chiaro riferimento alla distinzione tra lavoro pro­ duttivo e improduttivo.2 Limitando a quattro i settori produttivi (le miniere, l’agri­ coltura, l’industria e i trasporti), egli considerava improduttivi tutti i lavoratori degli altri settori economici, compresi i servizi ausiliari svolti all’interno o a latere dei quattro sopracitati, in quanto la loro funzione sarebbe solo quella di lubrificare il processo di circolazione del capitale senza aggiungergli alcun valore, anzi sot­ traendone una quota sotto forma di reddito.

A noi preme però di rilevare che lo stesso Marx in altre parti della sua opera assume invece la distinzione tra lavoratori direttamente produttivi e indirettamente produttivi, per cui la categoria dei non produttivi riduce il suo campo di estensione solo a coloro che vivono di rendita, o svolgono servizi inutili per il benessere col­ lettivo, diventando cosi un peso morto. Ma anche la categoria dei lavoratori indiret­ tamente produttivi, pur essendo utile per un certo tipo di analisi della fisiologia e della patologia del sistema capitalistico, dà luogo a un’incertezza nella valutazione e percezione della collocazione di classe di importanti gruppi professionali e semi­ professionali. Vogliamo dire che, agli effetti di un esame sociologico dell’importanza dei contributi che apportano i vari gruppi sociali di lavoratori, non è giusto porre l’accento su quelli direttamente produttivi, se non per riconoscere che essi sono la sorgente di ogni richiesta materiale e quindi costituiscono il nucleo della classe antagonista rispetto al capitale. L ’aumentata interdipendenza dei processi produttivi all’interno dei vari settori e fra i diversi settori, giustifica oggi l’opinione secondo cui qualsiasi attività la quale riduce il tempo di realizzazione o rende più facile la realizzazione sul mercato dei beni e di servizi interscambiabili affretta la capitaliz­ zazione e il reinvestimento del plusvalore e pertanto contribuisce a creare plusvalore.

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D’altra parte, oltre al capitale rappresentato dalla ricchezza materiale e dal suo equivalente monetario, non può essere trascurata resistenza del capitale delle risorse umane e dei servizi che rendono possibile lo svolgimento delle attività econo­ miche. Essere indirettamente produttivi non dovrebbe suonare, quindi, come motivo di merito o di demerito. Eppure questa motivazione sdoppiata gioca nella valutazione o svalutazione che si esprime nel rapporto di stima tra le classi. Senza entrare nel merito delle prestazioni degli insegnanti, ci limitiamo a dire una cosa. Indipen­ dentemente dal fatto che essi forniscano una qualificazione differenziata, selettiva della forza lavoro, oppure di questa esaltino la adattabilità nelle varie accezioni della polivalenza formativa, essi partecipano a un processo di capitalizzazione non materiale — gestito prevalentemente dallo Stato — sul quale si innestano processi di capitalizzazione materiale privati e pubblici.

Analogamente può dirsi dei medici, che si applicano alla cura o alla prevenzione delle malattie, aumentando il livello delle cosiddette economie esterne, o riducendo quello delle diseconomie. Per ora non discutiamo sul grado di efficienza o ineffi­ cienza di questi lavoratori. Sappiamo bene che la sfasatura fra trattamento econo­ mico di certe categorie professionali e la loro efficienza in ordine all’utilità sociale oggettivamente misurabile — sia pure con difficoltà intuibili — può determinare posizioni di rendita relativa e quindi di privilegio. Ma per ora stiamo alla sostanza del problema della collocazione di classe oggettiva, pur ammettendo la possibilità che intellettuali professionisti e semiprofessionisti, usati come strumento di produ­ zione indiretta di capitale, si identifichino soggettivamente con gli interessi del capi­ tale, specie se il loro trattamento è relativamente privilegiato.

Continuiamo così la nostra discussione intesa a proporre un integrazione sociologica del discorso di Marx. Per quest’ultimo « esistono solo due punti di partenza: il capitalista e l’operaio. I terzi, a qualsiasi categoria appartengano, devono o ricevere denaro da queste due classi per prestazioni di servizi, o, in quanto lo ricevono senza controprestazioni, devono essere comproprietari del plusvalore, nella forma di rendita, interessi, ecc. ».3 È di nuovo la distinzione fra lavoratori direttamente produttivi, indirettamente produttivi e improduttivi a tornare in campo. Questa distinzione è utile — ripetiamo — ai fini dell’analisi della fisiologia e patologia del sistema capitalistico. Ma sociologicamente parlando quei due punti di partenza non distruggono la relativa autonomia delle determinazioni successive, dal momento che queste hanno cominciato a esistere ponendosi come punti ulteriori non riducibili ai primi due.

Non vogliamo in realtà fare una critica a Marx, ma solo ricollegarci a quanto egli stesso poi dirà agli effetti del discorso sulle classi sociali, la cui determinazione non è possibile sulla sola base dei rapporti di produzione. Nel sistema capitalistico l’altro ineliminabile punto di riferimento è per Marx costituito dai rapporti di scambio. Tutti coloro che sopra vengono chiamati i « terzi » esistono soprattutto in virtù dei rapporti di scambio; ma una buona parte di essi risultano socialmente utili nei rapporti di produzione pur operando solo ai livelli della sovrastruttura.

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È da ricordare, infatti, che i rapporti di scambio gettano, per cosi dire, un ponte fra struttura e sovrastruttura, ridimensionando le sfasature esistenti fra i sotto­ sistemi economico, politico e ideologico. Si può allora dire certo che i « terzi » (oltre il capitalista e l’operaio) vengono economicamente determinati dai rapporti di produzione per tramite dei rapporti di scambio sviluppati, che sono peculiari alla società capitalistica borghese, ove « si produce solo per scambiare, o si produce solo in quanto si scambia».4 In altri termini, lo scambio è diventato, con raffermarsi del capitalismo, il processo di mediazione fra rapporti di produzione e forme di ripartizione della ricchezza, che si esprimono nel fenomeno della stratificazione sociale. La fisiologia del sistema capitalistico — e anche la patologia — fa perno proprio sullo scambio, come creazione di determinati rapporti della produzione sociale con cui si produce denaro e su cui si articola l’intero processo di circolazione e riproduzione del capitale. Poiché i rapporti di produzione e di scambio si sono andati via via realizzando come realtà staccata dai valori d’uso relativi ai bisogni, e le merci prodotte e scambiate si son poste fuori delle persone in forza del loro valore di scambio, apparentemente gli individui si sono svincolati da tutto assumendo la figura di liberi contraenti, ma in realtà essi si sono reificati.6

Tale reificazione, nei diversi livelli della stratificazione sociale, è mediata dal denaro, che è mezzo e simbolo universale del valore di scambio. Per questa ragione sembra giusto affermare che « il potere che ogni individuo (o classe) esercita sulla attività degli altri o sulle ricchezze sociali, egli lo possiede come proprietario di denaro».6 In sostanza, dai rapporti di produzione e di scambio derivano determi­ nati rapporti di classe che si estrinsecano in determinati rapporti di potere nelle forme sovrastrutturali giuridiche, politiche, ideologiche e sociali.

Con questo noi abbiamo voluto chiarire che gli insegnanti sono una categoria professionale indirettamente produttiva, la quale vien pagata dallo Stato in ragione di un servizio pubblico considerato indispensabile alla riproduzione e allo sviluppo delle forze produttive. La quota parte del reddito nazionale che è destinata alla istruzione corrisponde alla quota del prelievo sui redditi di capitale e di lavoro che viene effettuato per mezzo di imposte e tasse. Il trattamento differenziale della categoria degli insegnanti non comprende però soltanto il compenso economico. Quest’ultimo è inscindibile dal loro stato giuridico. Senza entrare nel merito dei criteri di giustizia distributiva e della valutazione dell’importanza sociale della funzione di insegnamento o del prestigio sociale dei ruoli corrispondenti a questa funzione ai vari livelli scolastici (le alterne vicende storiche segnano alti e bassi in proposito) diciamo che il trattamento economico-normativo è sicuramente supe­ riore a quello di un operaio medio specializzato, ma non in misura tale da deter­ minare per se stesso una diversa collocazione economica di classe. Essere diretta- mente o indirettamente produttivi non determina, quindi, di per sé, una diversa

oggettiva collocazione di classe, come non la determina il diverso trattamento,

poiché queste distinzioni e diversità esistono numerose anche fra le stesse categorie operaie. Occorre però dire che il potere che si connette alla determinazione economica

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dello scambio fra un servizio e una remunerazione in denaro non riflette tutto il potere di cui gli insegnanti godono nella società. In altre parole, il potere econo­ micamente determinato dalla quantità di reddito reso per loro disponibile media un altro potere che ha la sua base nelle forme giuridiche, politiche e ideologiche della sovrastruttura sociale per la parte in cui tale sovrastruttura non è econo­ micamente determinata. È in questo versante che la coscienza di classe degli inse­ gnanti ha serie difficoltà a identificarsi con le classi subalterne, poiché l’esercizio del potere culturale, di cui essi sono indubbiamente partecipi, li ha posti in grande numero dalla parte di coloro che esercitano il dominio sociale. Ma proprio in ragione di una residua autonomia delle dimensioni giuridica, politica e ideologica rispetto alla determinazione economica, gli insegnanti, insieme alle altre categorie profes­ sionali possono riorientare la loro azione specifica, contestando il potere che viene ad essi delegato dalle classi dominanti. Esiste a tal proposito un certo grado di indeterminazione.

Consideriamo meglio la cosa. Le forme di determinazione economica che noi conosciamo non sono sempre esistite né dovranno esistere per sempre. In parti­ colare, la vistosa reificazione da cui siamo stati investiti è legata al prevalere di un’economia degli scambi ineguali nascondenti forme di sfruttamento dell uomo sull’uomo, e quindi forme di dominio. Vi sono state epoche in cui lo scambio avve­ niva in natura ed era commisurato ai criteri del valore d’uso dei beni ; oppure epoche in cui il peso degli scambi nell’economia di produzione e di consumo era irrilevante. Le istituzioni parentali, religiose, giuridiche, politiche e ideologiche trovavano in sé stesse la giustificazione del dominio. La tradizione, il carisma, la forza fisica o numerica, sono esempi di legittimazione del potere, che solo in parte hanno per­ duto la loro autonomia. Col prevalere dei rapporti di scambio e la generale reifi­ cazione, questa autonomia è stata obliterata o nascosta, ma non è scomparsa del tutto, nel senso che resta una parte irriducibile alle determinazioni economiche del sistema di scambio ineguale. Si è parlato delle forme del dominio. Ma non pos­ siamo dimenticare che esse corrispondono alla categoria concettuale proposta da Marcuse e chiamata repressione addizionale (governata dal principio di presta­

zione), con cui si vuole intendere la serie di restrizioni sociali rese necessarie dal

dominio sociale, che si aggiungono alla « repressione fondamentale, di base », cioè alle « modificazioni degli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà».8

Oltre al dominio, le forme di convivenza umana hanno conosciuto (e possono dunque conoscere ancora) il semplice esercizio razionale dell autorità. « Questo ultimo — scrive Marcuse — che è inerente a ogni divisione del lavoro in ogni società, proviene dalla consapevolezza, ed è limitato alla amministrazione di funzioni e di ordinamenti necessari al progresso deirinsieme. Invece, il dominio viene eser­ citato da un gruppo particolare o da un individuo particolare allo scopo di m an­ tenersi e rafforzarsi in una posizione privilegiata».7 Più sotto, parlando delle varie forme storiche del principio della realtà, Marcuse illustra così il concetto, scrivendo.

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« Per esempio, una società nella quale tutti i membri lavorino normalmente per il loro sostentamento, rende necessari altri modi di repressione diversi da quelli di una società in cui il lavoro rappresenta il settore esclusivo di un unico gruppo specifico. Analogamente, la repressione avrà una portata e un’intensità diversa a seconda che la produzione sociale sia orientata sul consumo individuale o sul profitto; se prevale la libera concorrenza o l’economia pianificata; se l’economia è privata o collettiva. Queste differenze incidono sul contenuto stesso del principio della realtà, poiché ogni forma di principio della realtà deve essere incorporata in un sistema di istituzioni e relazioni, di leggi e valori della società, che trasmettano e impongano la richiesta modificazione degli istinti. . . Inoltre, mentre ogni forma di principio della realtà esige comunque un grado e una misura notevole di indi­ spensabile controllo repressivo degli istinti, le istituzioni storiche specifiche del principio della realtà e gli specifici interessi del dominio introducono controlli addizionali al di là e al di sopra di quelli indispensabili all’esistenza di una comu­ nità civile».9

Per intendere meglio la ragione di questa citazione dall’opera di Marcuse occorre considerare che la realizzazione del controllo e della modificazione degli istinti comporta sempre il controllo e la modificazione dei comportamenti. Quello che Marcuse chiama principio di prestazione intende dare « rilievo al fatto che sotto il suo dominio la società si stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri». Ma, secondo il suo parere, il principio di presta­ zione non è « unico principio storico della realtà : altri modi di organizzazione sociale non soltanto hanno prevalso in culture primitive, ma sono anche sopravvissuti fin nei tempi moderni».10

Ci siamo cosi riferiti a forme di dominio non economicamente determinate e a forme di autorità esercitata sulla base della razionale consapevolezza degli inte­ ressi degli insiemi sociali, per dire che se l’attuale determinazione economica dei poteri delegati a molte categorie professionali aggiunge compiti e funzioni concer­ nenti il principio di prestazione atto a sostenere forme di repressione addizionale, essa lo fa per tramite dello scambio ineguale che asservisce a sé le legittimazioni autonome di autorità democraticamente fondate sul consenso continuamente veri­ ficato. Posto che lo scambio ineguale scompaia per dar luogo a prestazioni gratuite di merci e servizi, liberamente coordinate e orientate sul soddisfacimento dei bisogni sociali, la strategia delle relazioni solidaristiche e conflttuali fra gli uomini non riguarderebbe più le classi economicamente determinate bensì i ceti socialmente determinati. L’eventuale tralignamento dell’esercizio di autorità consapevole in altre forme di dominio è sempre possibile, ma non sarebbe mediato e ribadito comunque da un’ineguale ripartizione della penuria e della ricchezza.

In sostanza, di fronte al fatto evidente che la produzione si svolge sempre più in forme socializzate di interdipendenza organizzativa e settoriale, non solo è arduo distinguere tra chi è direttamente e indirettamente produttivo, ma è anche disutile ai fini della collocazione di classe di tutti i produttori. Per quanto concerne i profes­

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sionisti intellettuali (nel nostro caso gli insegnanti), diciamo che la posizione che essi assumono nei vari ambiti della vita sociale e negli ordini gerarchici delle orga­ nizzazioni in cui operano è solo in parte determinata dal denaro di cui dispongono nel processo di scambio ineguale. In essa giocano, sia pure in funzione nascosta e subordinata, anche determinazioni politiche, religiose, ideologiche non riducibili allo scambio ineguale. Se a ciò si aggiunge la capacità che hanno le sovrastrutture economicamente determinate di ripercuotersi sulla struttura economica dei rap­ porti di produzione e di scambio vuoi per ribadirla vuoi però anche per modificarla, si può allora comprendere appieno l’importanza teorica e pratica di un certo grado di indeterminazione nello sviluppo degli eventi umani. Gli insegnanti hanno ricevuto una delega di potere guidato dai criteri del dominio o della repressione addizionale. Essi possono rifiutarla o contestarla, ponendosi dalla parte di coloro che lottano per emanciparsi da ogni dominazione. Il grado di libera determinazione in questo senso sarà tanto più favorito quanto più sarà largo il fronte di coloro che progettano una società alternativa e che traducono questa progettazione nelle strategie della lotta entro il sistema attuale. Si innestano così sulle contraddizioni strutturali di questo sistema le contraddizioni culturali della dialettica dei fini.

Complementarità e organicità degli intellettuali rispetto alle classi

Estendiamo il discorso in generale agli intellettuali per seguire un’altra traccia. Se si esclude l’intellettuale umanista di vecchio stampo, tutto dedito all'otium, anche di essi si deve dire che non sono improduttivi. In rapporto alla produzione di idee e risorse umane e spirituali, essi sono direttamente produttivi. Invece, in rap­ porto alla capitalizzazione materiale, essi sono indirettamente produttivi, ma lo sono alla stessa stregua di molte attività operaie ridotte a funzioni di servizio o di sorveglianza di macchine e automatismi.

L’aspetto della produttività diretta o indiretta, congiunto con la progressiva «proletarizzazione» delle attività intellettuali, è dunque un argomento che, preso da solo, amplificherebbe i confini della classe oggettivamente antagonistica in posi­ zione di subordinazione. M a sappiamo bene che certi servizi intellettuali pagati dai datori di lavoro sono regolati da un criterio di prestazione e di convenienza che torna tutto a vantaggio del profitto nella misura in cui tali servizi puntellano l’area di libertà privatistica di decisione dell’impresa, pur in presenza di certi vincoli. Comunque, il criterio di « essere produttivi di plusvalore » in maniera diretta o indiretta, non è sufficiente né ad assimilare interamente gli intellettuali alla classe lavoratrice subordinata, né a riconoscer loro un fondamento distinto di classe.

Sul versante dell’assimilazione degli intellettuali alla classe lavoratrice subor­ dinata v’è una tendenza che investe alcune frange del lavoro intellettuale, una tendenza che va in parallelo con la intellettualizzazione di alcune prestazioni operaie altamente qualificate.

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Sul versante del fondamento autonomo di classe c’è, invece, in atto l’effetto proprio della divisione del lavoro che moltiplica le specializzazioni di tipo profes­ sionale e semiprofessionale degli intellettuali, rendendo loro diffìcile identificarsi con sé stessi per tramite di una cultura condivisa.

Quando gli intellettuali si dedicano a una professione libera — cosa sempre più rara, che riguarda alcuni pochi scrittori, artisti, medici, avvocati, giorna­ listi, ecc. — il datore di lavoro può essere o l’editore, o il mercante d’arte, oppure un certo pubblico selezionato di clienti paganti. Le prime due figure di datori di lavoro sono certamente assimilabili all’imprenditore capitalista, ma il rapporto che esse stabiliscono con l’intellettuale non è quello di una dipendenza spersonaliz­ zante e di una totale sottrazione degli strumenti di produzione. La terza figura ci induce invece a considerare l’intellettuale professionista come lavoratore in proprio. Ma la situazione degli intellettuali non si esaurisce in questi casi. Quando si riesce a individuare un datore di lavoro per la schiera sempre più numerosa di intellettuali inseriti in un’organizzazione governata da un’astratta razionalità produttivistica che li riduce a merce, ci troviamo di fronte alla difficoltà — vedi appunto l’industria culturale, la scuola e gli ospedali — di misurarne il grado di sfruttamento. In che misura, infatti, è sfruttato un redattore editoriale, un medico ospedaliero o un inse­ gnante di scuola? Ma questa difficoltà si riscontra anche per molte categorie di produttori diretti della ricchezza materiale, per le quali si deve ragionare in termini di lavoratore collettivo, monte salari e profitto, sulla base non della contabilità della singola impresa, bensì del sistema generale di produzione e di scambio, poiché neanche la contabilità della singola impresa può misurare analiticamente lo sfrut­ tamento di questa o quella categoria omogenea di lavoro. D ’altra parte, un conto è lo sfruttamento rozzo che si esprimeva nel capitalismo delle origini, concorrenziale, risparmiatore, tutto volto alla semplice accumulazione e interessato a comprimere i salari al massimo, aumentare al massimo le ore di lavoro, la fatica e lo sforzo, e un altro conto è lo sfruttamento manipolativo che estende il dominio dei criteri di produzione nell’area dei consumi, delle manovre finanziarie e dei prezzi. Il discorso della classe economicamente determinata si incrocia più strettamente con quello del ceto socialmente determinato quando lo sfruttamento rozzo cede il posto allo sfruttamento manipolativo.

I consumi indotti a cui accedono le varie categorie sociali si differenziano

non solo in virtù del reddito da lavoro disponibile, ma anche in virtù dello stile di vita e dello status. In questo caso le sub-culture che vengono mani­ polate comprendono, oltre ai gruppi professionalmente distinti, le generazioni (i giovani) e i sessi (uomini e donne).

Nonostante un’indubbia proletarizzazione dei ceti intellettuali vuoi nelle fun­ zioni di produzione vuoi in quelle di consumo, c’è dunque un residuo di distin­ zione. Eppure questo residuo non è sufficiente a creare per essi un fondamento autonomo di classe. Divisi e sparsi lungo tutta la gamma della stratificazione sociale oggettiva, il residuo è talmente atomizzato da non costituire un fattore interno

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di potenziale unificazione. Noi percepiamo meglio gli intellettuali come una cate­ goria sociale di complemento.11

M annheim12 parlava di loro come di una classe impropria, poiché, pur prove­ nendo da varie classi sociali, sono sociologicamente collegati dall’educazione rice­ vuta. Ma non si riesce a capire in che senso opera o potrebbe operare quel collega­ mento per porli in grado sia di sviluppare una prospettiva totale della realtà sia di modificare i rapporti sociali. La cultura è in grado di diventare certamente critica, ma non può farlo per processo endogeno, senza riferimento, cioè, alla prassi.

Ammettendo di aderire all’idea di Starck13 e di considerare gli intellettuali una classe « vincolata alla sua particolare condizione sociale, visione del mondo, e zone di interessi», ci troveremmo di fronte a tre alternative. Quando si identi­ ficano con la classe di origine o di adozione, quella borghese o quella proletaria, in questi due casi essi fungono da complemento e tessuto connettivo di altre classi e perciò cade l’assunto di Starck. Quando invece si fanno promotori o sostenitori degli interessi propri, fanno riferimento a collocazioni sociali e visioni del mondo ritagliate su categorie corporative, come in gran parte avviene nella realtà attuale. Ma che cosa c’è in comune tra insegnanti, giornalisti, medici, architetti, avvocati, ingegneri e operatori sociali? Molte professioni e semi-professioni hanno sviluppato tutta una sub-cultura e una normativa professionale proprie. Ogni categoria corpo­ rativa propone un’unità dal suo punto di vista; ma l’unione totale non può che appoggiarsi a una classe in grado di affermare la sua egemonia totale. Perciò anche in questo caso cade l’assunto di Starck. Di fatto gli intellettuali, quando non parlano in proprio dal chiuso della loro corporazione specifica, si applicano a una rifles­ sione che giustifica l’esistente, oppure lo contesta.

Di Starck si può accettare l’idea che le condizioni immediate di esistenza abbiano meno peso sugli intellettuali, in quanto essi reinterpretano tutte le condi­ zioni — compresa la loro — in termini culturali, effettuando una mediazione fra le tante. Ciò vale anche per la cultura che si propone il compito dell elaborazione di fini sociali umanizzanti e che assume quindi una funzione non apologetica, bensì critica. È quello che suggerisce H. Marcuse allorché rileva che la funzione di « coscienza critica della civiltà » va riconquistata lottando contro gli apparati coerci­

tivi sviluppatisi nell’ambito della civiltà meccanica-razionale del capitalismo. Nel suo più recente saggio «Controrivoluzione e rivolta»14 egli ribadisce che la controrivoluzione preventiva della società capitalistica è in atto in molti Paesi e si accompagna alla tendenza del modo di produzione capitalistico alla devasta­ zione degli uomini e della natura. Contro questa tragedia si dovrebbe sviluppare la coscienza radicale della necessità della rivoluzione. Le minoranze degli studenti e degli intellettuali in rivolta dimostrano che esiste un potenziale eversivo nel ricorso che essi fanno alla natura per riconoscere in essa una verità cui adeguare tutti i sensi umani, quelli attuali e quelli potenziali, volti alla creazione estetica e all emanci­ pazione dalla reificazione. Natura, sensibilità e arte possono allargarsi per mezzo dell’educazione, della persuasione e della ragione, reagendo all’astratta razionalità

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tecnologica e produttivistica e disvelando i processi di manipolazione ideologica. Ora, non c’è dubbio che sforzarsi di essere autenticamente secondo natura è un modo di porsi fuori delle istituzioni costrittive che utilizzano la natura come uno strumento e un mero serbatoio di mezzi di sussistenza. Per quegli intellettuali che sono relativamente più liberi dal lavoro rigidamente controllato, che sono in grado di discernere i veri bisogni scartando quelli superflui del consumismo, che non debbono adeguarsi ai comportamenti socialmente necessari, il programma di Marcuse è possibile. Ma essi si pongono così in posizione di avanguardia, incomprensibile spesso da parte di coloro che non sono nelle loro stesse condizioni. Essi propongono un’alternativa — spesso sono l’alternativa vivente — ma non riescono a suggerire quell’azione strategica, che, passando attraverso la realtà dei condizionamenti istituzionali, contribuisce al processo di liberazione di tutti.

Occorre tornare a Gramsci, il quale individuava la categoria deH’intellettuale organico alla classe egemone.15 La classe che lotta per la sua egemonia — il prole­ tariato — contestando la propria condizione subalterna, dovrà sottrarre alla classe dominante borghese gli intellettuali tradizionali e quelli indifferenti, oltreché for­ marne altri nel suo seno. M an mano che cresce, il proletariato rappresentato dai nuclei consapevoli e organizzati di lavoratori, riforma i suoi quadri intellettuali e con tutti gli altri intellettuali non organicamente legati alla borghesia realizza un blocco storico attraverso il quale propone e persegue obiettivi tattici e strategici sulla linea di maturazione della lotta di classe. In questo modo le stesse avanguardie minoritarie potranno costituire dei punti di riferimento positivi. Senza accettare l’idea che ci sia un partito unico che interpreta i bisogni del proletariato, non pos­ siamo non riconoscere che esiste un discrimine chiaro fra chi lotta per la conser­ vazione dell’ordine esistente e chi lotta per mutare questo sistema in senso socialista (cioè nel senso della progressiva umanizzazione ed emancipazione di tutti).

Riferito agli intellettuali questo discorso si traduce in due ordini di possibilità. Se stanno dalla parte della classe dominante, essi si trovano ad esercitare un qualche potere delegato, o a legittimare con varie forme di contributo ideologico la struttura di potere esistente, oppure a ridurre la propria complementarità a una semplice prestazione di servizio in qualità di esperti preoccupati di assicurarsi in contrac­ cambio una tranquilla carriera.

Se si trovano collocati dalla parte delle classi subordinate, essi elaborano una ideologia alternativa al dominio di classe, o propagando in varie forme una causa organizzata in movimento o in partito, oppure si scartano dall’impegno della mili­ tanza e seguono solo il filo di un’ispirazione soggettiva.

Si tratta di una schematizzazione generica. Ma essa aiuta a intendere che le varie costrizioni strutturali, a cui soggiacciono anche le categorie degli intellettuali, lasciano un certo spazio alla loro indeterminazione. Questo spiega perché il discorso sugli intellettuali non può prescindere da toni propri del linguaggio politico o nor­ mativo, relativi al dover essere. Ma poiché il linguaggio normativo si lega alla dialet­

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tica dei fini, questo spiega anche la vasta gamma delle posizioni socio-politiche sbilanciate rispetto alla realtà dell’antagonismo strutturale degli interessi.

L’ambiguità del linguaggio normativo — con cui tuttavia occorre fare i conti — è rilevabile nel seguente effetto. Quando il discorso perviene agli orecchi di coloro che già consentono sul fatto in forza di un imperativo categorico che non li trascende in quanto è tutto incorporato nel comportamento conforme a un atteggiamento innovativo o contestativo, allora esso è soltanto un’esortazione rafforzativa. Tuttavia l’esortazione può risultare utile per alcuni gruppi di intellettuali critici potenziali che siano alla ricerca di una vocazione, vuoi perché non esercitano ancora un lavoro, vuoi perché ne svolgono uno insoddisfacente. Per il resto c’è il pericolo di accedere a una involontaria mistificazione.

L’opinione che assegna alla categoria degli intellettuali una funzione libera­ toria, nel presupposto implicito o esplicito che la cultura è per virtù propria in grado di superare da sola i condizionamenti della struttura di interessi cui tutti gli altri mortali sono legati, è dura a morire. Che sia Mannheim oppure Marcuse a ripro­ porcela fa certo differenza con riguardo al contesto storico cui si applica la loro riflessione. Ma resta sempre un connotato di illuminismo aristocratico, di privilegio sacerdotale.

Per questa via si può cadere reattivamente nella travagliata coscienza di Weber, per il quale la professione dell’intellettuale deve rimanere comunque al di sotto del piano su cui si svolge la lotta tra le varie deità e idealità proposte dai politici carisma­ tici alle masse, sforzandosi soltanto di far luce sugli aspetti concernenti un rapporto già dato tra mezzi e fini. Questa caduta nella professionalità avalutativa, conforme a una razionalità formale, è dettata da un eccesso di umiltà e di timore per una scienza che, pur essendo peritura, riflette nei suoi riti e nelle sue cerimonie e proce­ dure, il carattere della cosa sacra. La scienza non libera, ma aiuta gli uomini a liberarsi; non li guida, ma illumina la strada di chi si pone in grado di esercitare una leadership efficace fra le molteplici leadership in conflitto. Sul piano fattuale, la travagliata coscienza del dover essere di Weber denuncia un impotenza relativa della cultura, rappresentando essa una potenza che, irretita nelle maglie dell orga­ nizzazione burocratica, si ritrova a servire altre potenze, pur non volendo sce­ glierne alcuna.

A fronte di questa umiltà orgogliosa, v’è anche l’orgoglio umiliato ma non vinto di coloro che, pervenuti ad analizzare le contraddizioni della vita sociale e del destino dell’uomo, hanno foggiato la figura dell’intellettuale come gigante impotente. Basterà richiamare alla mente Albert Camus, il più romantico degli esistenzialisti minori, per il quale la coscienza delle contraddizioni si traduce nell unica certezza dell’assurdo. L’intellettuale viene da lui emblematizzato nel mito di Sisifo: un uomo che si rivolta continuamente insoddisfatto e ricomincia sempre la stessa fatica. In II mito di Sisifo, parlando appunto dell’assurdo e definendolo come « un con­ fronto e una lotta senza sosta», egli scrive: « ...d e v o riconoscere che tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che vedere con la dispe­

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razione), il rifiuto continuo (che non deve essere confuso con la rinuncia) e l’insod­ disfazione cosciente (che non deve essere assimilata all’inquietudine giovanile)».16 Queste tre componenti del profilo doverista dell’intellettuale chiamato alla lotta testimoniano indubbiamente di una certa verità di fatto sul gigantismo romantico e impotente di chi non può darsi delle mete. Ma proprio per questa ragione siamo indotti ad apprezzare l’intuizione profondamente umana di Gramsci che sugge­ riva una possibile saggia e sempre rinnovabile conciliazione del pessimismo della intelligenza con l’ottimismo della volontà. Altrimenti si cade nella negazione della cultura e dell’intellettuale: in quella autodistruzione che in J. P. Sartre, dopo il maggio 1968 francese, arriva all’estremo limite di risolvere la cultura tutta nella prassi (salvo un residuo d'otium umanistico), nella politica che rifiuta anche il ruolo di intellettuale.

La discussione sugli intellettuali ha registrato anche in Italia questo tipo di negazione estrema.17 Ma a tale negazione si è contrapposta una più ponderata riflessione che unisce l’orientamento normativo a quello dell’analisi oggettiva della realtà. In generale, la preferenza è data all’interpretazione favorevole a un rapporto di complementarità organica degli intellettuali con la classe operaia per elaborare con essa l’alternativa all’attuale sistema o a una cultura antagonista.18

Vi è un parallelismo non trascurabile tra la negazione astratta della cultura o il suicidio dell’intellettuale e la proposta di descolarizzazione della società che nega una funzione istituzionale delle scuole e degli insegnanti. Ambedue sono la reazione polare alla credenza di un’autonomia della cultura e di una sua propria capacità liberatoria. Uscendo da questa angustiante pendolarità, il filone marxista propone un processo di liberazione che vada di pari passo con i processi delle classi sociali sfruttate, accettando di immergere la dialettica dei fini nella dialettica delle contraddizioni strutturali. Scrive K. Kòrsch : « Le rappresentazioni economiche, politiche, giuridiche. . . non fanno che esprimere l’insieme della società borghese. La stessa cosa dicasi dell’arte, della religione, della filosofia. Tutte insieme esse formano quella struttura spirituale della società nello stesso senso in cui sopra la struttura economica si eleva la sovrastruttura giuridica e politica. La critica rivolu­ zionaria del socialismo scientifico, materialistico e dialettico, deve criticarle tutte sul piano teorico e rovesciarle sul piano pratico come nel medesimo tempo fa con la struttura economica, giuridica e politica della società».19

Si ritorna cioè a proporre, in questo filone del marxismo, una soluzione che è politica in due sensi: primo, perché è normativa in quanto si pone sul piano della presa di coscienza orientata verso un fine, sia pur non sganciandosi dall’analisi scientifica della realtà ; secondo, perché supera i vari ambiti culturali cui si applicano le specifiche competenze degli intellettuali (letteratura, arte, professioni mediche, servizio sociale, insegnamento, ecc.) recuperando una totalità di orientamento che dà senso alle attività particolari che la divisione del lavoro e delle competenze impone.

Questo è possibile perché nell’ambiguità della cultura condizionata dal sistema di produzione e di scambio capitalistico esistono elementi negativi e positivi che

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rendono praticabile una contestazione e una ricostruzione. Una parte della cultura borghese riproduce e rafforza il sistema di produzione e di scambio in maniera diretta (ad esempio, 1’individualismo, la meritocrazia, i privilegi sociali del maschio, l’obbedienza cieca dei giovani verso i genitori o gli adulti, ecc.). Un’altra parte viene resa funzionale al sistema pur rappresentando di per sé capacità e attitudini umane buone a sostenere anche forme superiori di organizzazione sociale. Lo sviluppo delle capacità e attitudini razionali non è, infatti, da rifiutare in se stesso. Ma è la limitazione dell’ambito e dello scopo strumentale cui si applicano che ne deforma la qualità positiva. Lo stesso dicasi per certi valori culturali come l’autonomia personalistica, l’etica della responsabilità, l’amore, la fedeltà, la libertà, ecc. Questi valori hanno un fondamento di virtù e diritti universali i quali vengono distorti nel sistema borghese di produzione e di scambio nella vuota matrice di un forma­ lismo astratto e convenzionale funzionalizzato all’efficienza per il profitto.

Il dibattito sulla funzione degli intellettuali

Il dibattito che ha animato a partire dal 1945 il settore laico-progressista sul rapporto tra cultura e società, tra élite delFintelligenza e popolo nelle condizioni di una demo­ crazia di massa, si lega agli ideali della Resistenza per fondare concretamente l’alter­ nativa all’esperienza fascista autoritaria e demagogica. Le due riviste principali che lo hanno avviato sono il « Politecnico » e « Società ». È un dibattito in cui l’intellettuale critico viene posto nella condizione di ripensare l’atteggiamento idealistico di una funzione astrattamente autonoma di « rischiaramento » della cultura in nome della religione della libertà, per prendere atto della complessità dei problemi della prassi e, soprattutto, della fattuale e necessaria mediazione del « partito», in particolare quella del PCI e, genericamente, del movimento operaio o della classe operaia organizzata. Non entriamo nel merito. Ci basta accennare che l’indirizzo vincente considerante l’opera culturale a servizio del « partito » e, quindi, delle esigenze di compromissione di quest’ultimo con altre forze politiche emerse dalla Resistenza, ha contribuito a creare due fatti:

1) a dare, in un primo tempo, una giustificazione ideologica della ricostru­ zione politico-economica borghese, stemperandovi i più pregnanti ideali della Resistenza e le loro potenzialità di sviluppo in nome di un populismo nazionali­ stico 20 nel quale si perdevano le connotazioni di una strategia della lotta di classe; 2) a porre in crisi, in un secondo tempo, il ruolo dell’intellettuale e i suoi strumenti e modi di comunicazione, fino a giungere a negarli del tutto nell impos­ sibilità percepita di una loro funzione effettivamente autonoma.21

Ma, indipendentemente da come siano andate le cose, il seme era stato gettato perché si arricchisse di problematica il filone del marxismo mediato dall interpre­ tazione gramsciana. A questa tendenza si riconnettono la riscoperta delle tematiche

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di Lukàcs e di Adorno e, sul terreno della ricerca pedagogica, quella della filosofia di Dewey ripensante la democrazia come processo educativo e, pertanto, l’educa­ zione come anello di congiunzione tra teoria e prassi, l’educatore come condizionato dall’ambiente sociale e come operatore che reagisce sull’ambiente per trasformarlo.22 Ciò che accomuna queste ramificazioni del dibattito culturale — cioè il marxismo e il radicalismo progressista — nel rapporto cultura e società sono un accentuazione del momento di considerazione della prassi nei suoi aspetti psicologici e sociologici, oltreché politico-istituzionali, la critica aH’autoritarismo e al burocraticismo, e l’orientamento umanistico inteso a considerare l’uomo come fine.

Resta comunque il fatto che il dibattito sulla cultura e sull’intellettuale rimase circoscritto nell’ambito dei filosofi e pedagogisti, dei letterati, degli artisti e dei giornalisti, i quali condividono con i politici e le loro organizzazioni il rapporto — essenziale nella democrazia — con l’opinione pubblica in generale. La comuni­ cazione culturale era in realtà considerata dai politici marxisti e radicali la dimen­ sione sovrastrutturale privilegiata, capace a un tempo vuoi di riflettere il condi­ zionamento sociale della cultura, vuoi di contrastarlo con l’esercizio della critica. Ma per diversi anni a questo processo di reimpostazione del dibattito non vennero cointeressate le istituzioni di servizi sociali organizzati, quali, fra le altre, la scuola, la medicina, la magistratura.

L’organizzazione burocratica della scuola e 1 educazione in generale, gli inse­ gnanti e gli allievi costituiscono per lungo tempo oggetto di scarso interesse da parte dei partiti e dei sindacati. Alla spoliticizzazione di fatto di questo ambito ha corri­ sposto la sua marginalizzazione dal gioco strategico della politica e dell animazione di massa. Come per la medicina, gli si concedeva una qualche prerogativa di corpo- razione che al momento buono avrebbe potuto essere trasformata in docile stru­ mento di un diverso regime sociale e politico. Come per la magistratura, si ammet­ teva tacitamente che dovesse esserne garantita l’inderogabile neutralità per attenersi alla lettera delle leggi, dei regolamenti e delle disposizioni. La dimensione della comunicazione con l’opinione pubblica serviva ad appoggiare 1 affermazione di forze politiche atte a tradurre in leggi quella modificazione dei rapporti sociali, nei quali le istituzioni organizzate di servizio sociale avrebbero operato in maniera conforme.

Occorre attendere il 1967-68 affinché questo distacco fra il dibattito culturale e le istituzioni di servizi sociali organizzati venga colmato, quando la critica alle istituzioni, ai loro operatori interni, al ruolo sociale di costoro diventa elemento principale di composizione del magma della contestazione. L atto di dissacrazione che così si compie — l’antiautoritarismo della critica intellettuale tradotto in prassi — è la caratteristica preminente della contestazione, congiuntamente al fatto che essa rifiuta per un certo periodo tutte le mediazioni politiche, accademiche e ideologiche, rivolgendosi direttamente prima agli studenti e poi alla base dei partiti politici e dei sindacati, e sollecitando per questo tramite una riconversione delle stesse modalità di mediazione e transizione democratica una volta che lo sbocco

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rivoluzionario si rivelerà bloccato. La contestazione ha messo in circolazione valori e idee già preesistenti, più che inventarne di nuovi; li ha tradotti in movimento più che organizzarli sistematicamente in un disegno strategico omogeneo delle forze sociali alternative al sistema; li ha fatti esplodere, innescando processi a catena di una rivoluzione culturale che ha però appena avviato la « lunga marcia attraverso le istituzioni» indebolitasi gradualmente m an mano che le scissioni dei movimenti spontanei frantumavano le aggregazioni rivendicative in rivoli sempre più numerosi e depotenziati.

Il movimento di contestazione studentesca parte dalle Università per estendersi poi alle scuole secondarie superiori e operare in seguito anche, o soprattutto, fuori della scuola. Esso esprime in primo luogo un’esigenza morale che arriva a proporre strategie più radicali dell’azione politica. A fronte delle proposte di riforma della Università che rivelavano un’incapacità propria delle forze politiche a rinnovare sul serio, a fronte della riforma già attuata fin dal 1962 per la scuola media unica, che esemplificava l’irrilevanza delle trasformazioni strutturali non accompagnate da una riconversione dei ruoli di socializzazione, gli studenti ribadivano la necessità di un mutamento totale della mentalità degli operatori scolastici — specie degli insegnanti — provocandoli direttamente sul posto di lavoro. Essi hanno adottato modi clamorosi per esprimere il proprio dissenso sui valori e le norme dominanti, di cui gli insegnanti si facevano portatori per legittimare il ruolo autoritario ricevuto in delega dallo Stato. « .. .In tal modo — scrive Catalano — si sarebbe messa in dubbio l’oggettività della cultura che doveva essere ricreata di volta in volta e da ogni individuo, mentre si affermava pure la necessità di un’educazione politica .. .che preparasse il giovane ad un inserimento vivo nelle strutture sociali».23 La critica studentesca colpiva insieme i programmi, gli ordinamenti, le tecniche di istruzione e di valutazione per il loro carattere dogmatico e arbitrario, assolu- tizzato, per metterne a nudo la consustanzialità con la natura della gerarchia di potere esistente nella società. Per la prima volta, adottando forme inedite di sov­ versione, si accusava la scuola di essere una delle principali agenzie di formazione del consenso in favore di un ordine sociale fondato sulla libertà individualistica, la concorrenza, la meritocrazia, il successo monetario, l’isolamento degli individui e dei gruppi nella divisione del lavoro e nella manipolazione consumistica, la gerar­ chia del sapere e delle discipline scientifiche e umanistiche, il rispetto ossequioso della funzione sociale a scapito della personalità individuale, la frattura fra i sessi, le generazioni e i gruppi di lavoratori.

Nel documento dell’occupazione di Palazzo Campana a Torino la critica alla socializzazione operante nella scuola in funzione dei criteri di un’integrazione sociale passiva, si richiamava alla « tendenza a spingere all’estremo il meccanismo di divi­ sione del lavoro scientifico, di frantumazione delle discipline che riducono scienza e cultura a mere tecniche di valutazione della natura e degli uomini fuori di ogni considerazione dei fini e fuori di ogni utilizzazione a scopi di reale modificazione sociale».24

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Si potrebbero fare altre citazioni su questa linea. Ma quel che qui interessa è di rilevare come la critica si sia appuntata soprattutto sull’insegnante, sul suo modo di far lezione, di sollecitare l’apprendimento mnemonico, di servirsi della interrogazione e del voto per un’operazione che è a un tempo coercitiva e selettiva, funzionale quindi al privilegiamento di un’attitudine obbediente del comportamento verso i superiori e del pensiero nei confronti del sapere trasmesso dai libri di testo. In un altro documento classico della contestazione studentesca è scritto : « Lo sterile nozionism o... limita o impedisce lo sviluppo critico e la maturazione della perso­ nalità . . . La caratteristica fondamentale è il ruolo sociale che il professore viene a svolgere, cioè di controllore (dotato di potere e autorità) dell’altrui formazione professionale. . . A questo punto è chiaro come la scuola, così impostata, insegni esclusivamente a obbedire, a barcamenarsi alla meno peggio, oppure a competere con i propri simili per acquisire prestigio. . . ma mai ad autodeterminarsi, a decidere collettivamente se quanto è proposto dalla società e dalla scuola sia tutto oro colato, oppure sia assurdo o comunque non accettabile».26

La violenza dell’attacco agli insegnanti arriva fino al punto di chiamarli « cani da guardia del sistema», e di proporre come indispensabile la distruzione del loro ruolo categoriale. Essa è mitigata solo dal riconoscimento del fatto che il loro autoritarismo è spesso inconsapevole. Condizionati come sono dal sistema buro­ cratico della scuola che toglie loro ogni possibilità di affinare le doti personali e la propria cultura, essi sono obbligati a prestazioni specializzate in riferimento a materie artificialmente frazionate e standardizzate di una cultura considerata come patri­ monio di verità intangibili, eterne, metastoriche.

In sostanza, si poneva in risalto 1’esistenza di un circolo vizioso. Il condizio­ namento repressivo degli insegnanti, sia ideologico che burocratico, derivante dall’esperienza scolastica tradizionale, dal vincolo di un contratto di lavoro e dalla assenza di uno stato giuridico, li induceva ad atteggiarsi a loro volta come stru­ menti di repressione contro gli studenti. Solo questi ultimi allora, in qualità di con­ troparte direttamente interessata del rapporto educativo e non vincolata da alcun contratto, potevano e dovevano provocare la rottura di quel circolo vizioso, sot­ traendosi alla subordinazione e avviando in termini paritetici l’interscambio culturale e pedagogico.

Si perveniva così a configurare un diverso modello di insegnante-educatore, che guida il lavoro di gruppo degli allievi su programmi con questi con­ cordati di volta in volta nel rispetto delle loro rispettive congenialità e competenze, oltreché in funzione delle personali linee di maturazione combinate con quelle degli altri. Egli « non più centro autoritario di distribuzione di nozioni vuote, non più controllore dell’altrui efficiente subordinazione, diventerebbe così l'esperto con funzione di coordinamento del processo di maturazione culturale e civile auto­ nomamente determinato».26

Questa proposta indicava un obiettivo per il quale il rinnovamento pedagogico doveva passare attraverso un rinnovamento politico. D a ciò l’invito agli insegnanti

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a riconoscersi come partecipi del destino delle classi sfruttate — i lavoratori e gli studenti: la forza-lavoro attuale e quella potenziale, in formazione — e come por­ tatori di un interesse antagonista rispetto al sistema capitalistico. Lo stesso docu­ mento parla, infatti, della necessità che gli insegnanti prendano « coscienza del fatto di essere dipendenti da rapporti sociali determinati e di essere limitati dalla attuale struttura sociale — in particolare da quella scolastica — nella loro effettiva libertà di ricerca e di critica» (p. 161) e li sollecita ad accedere a una collaborativa o paral­ lela «posizione di contestazione nei confronti della scuola e deirinsieme socio- economico in cui vivono» (p. 161).

Ma come poteva attuarsi questa convergenza se l’invito proveniva da coloro che li avevano chiamati « cani da guardia del sistema » e combattuti di fatto come nemici diretti? Solo sparuti gruppi di insegnanti, politicamente orientati, si posero su di un piano di comprensione dei motivi del movimento studentesco, continuando ad alimentare alcuni pochi focolai di critica in termini di riforma scolastica e rinno­ vamento pedagogico, ma mantenendo le distanze da pratiche eversive che in realtà si ponevano rischiosamente fuori del gioco democratico-costituzionale. Nella gran parte delle categorie degli insegnanti la crisi del ruolo assunse un carattere di risposta nevrotica con esiti di ulteriore frustrazione e disorientamento. Anzi, il riflusso degli anni successivi alla contestazione, dovuto oggettivamente aH’indebolimento del­ l’arco delle forze politiche di sinistra e progressiste, favori diffusi atteggiamenti conformi agli atti di restaurazione: delusione, apatia, rinuncia, disimpegno. Quello che si poté salvare dal naufragio della rivolta contestatrice fermatasi alle soglie di una rivoluzione culturale va attribuito — oggi siamo in grado di capirlo — alla capacità dei partiti e dei sindacati di riprendere a un livello diverso il controllo dei molteplici strumenti di mediazione, non solo sul piano della politica intra- parlamentare e intra-sindacale, ma anche su quello dei rapporti con la base e con le stesse istanze extra-parlamentari ed extra-sindacali. La politica come arte del possibile contingentemente valutabile con la misura dei consensi su interessi diversi omogeneamente interpretati, è tornata ad essere, nella sua forma democratico­ borghese, il fulcro delle compromissioni fra i molteplici fattori della realtà sociale. La scuola, rivelatasi uno dei punti di maggior frizione della dinamica sociale soprat­ tutto per lo scontro-incontro che vi si verifica fra generazioni, come lo è il luogo di lavoro per il più irriducibile fenomeno della lotta di classe, si è riimmessa nel ciclo della logica della contrattazione.

Le ricerche sociologiche sugli insegnanti

Le ricerche sociologiche o quelle genericamente sociali prodotte in questi ultimi anni sul personale insegnante, non fanno che confermare in un quadro più siste­ matico la denuncia della contestazione studentesca contro l’autoritarismo e

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l’invo-luzione ideologica della scuola. I termini di riferimento principali dei modelli di indagine sono:

— l’estrazione sociale degli insegnanti e la loro identificazione con le classi medie in termini di cultura e di atteggiamenti e comportamenti ambigui a fronte dell’antagonismo strutturale degli interessi fra classi dominanti e classi subordinate;

— la percezione e la valutazione del ruolo professionale che essi svolgono nei loro riflessi sulla scemata gratificazione personale, sul precario prestigio di status, sulla ideologizzazione della funzione educativa istituzionale;

— le tendenze conservatrici e autoritarie risultanti maggioritarie a fronte di quelle radicali e permissive misurate su scale di atteggiamento applicate ad alcune aree dell’esperienza di vita e di lavoro.

In sostanza, da una parte vi è la dimensione della stratificazione sociale nel duplice riferimento come luogo in cui gli insegnanti si trovano collocati (con i relativi squilibri di status, le scontentezze, le tensioni, le rivalse) e come luogo da cui provengono i clienti « obbligati » e quelli volontari in una situazione di più diffusa scolarizzazione che mescola nella scuola le più diverse sub-culture sociali.

Dall’altra parte, vi è la dimensione psicologico-sociale degli atteggiamenti per lo più conservatori e autoritari, che trovano un fondamento o un rinforzo nell’ideologia dominante, nella persistenza di orientamenti tradizionalistici, nei pregiudizi sulla funzione mistica dell’educazione rispetto a verità già date da comu­ nicare con metodologie anche nuove, nel ritardo delle riforme di struttura, e nel­ l’assetto burocratico dell’organizzazione scolastica.27

Non credo opportuno riportare analiticamente i risultati di quelle indagini per non rifare la strada dell’orto. Più opportuno mi sembra ripercorrere le esperienze di ricerca. Queste si muovono lungo una pendolarità che o privilegia la stratificazione sociale come fattore condizionante gli atteggiamenti, oppure attribuisce maggiore importanza agli atteggiamenti, assumendoli come variabile autonoma di personalità.

Per quanto concerne la prima preferenza, la mente corre alla classica ricerca di R. Centers sulla coscienza di classe ( The Psychology o f Social Classes, Princeton University Press, Princeton, 1949). Senza entrare nel merito della metodologia da lui usata, è risaputo come le correlazioni trovate fra l’identificazione soggettiva di appartenenza di classe, il punteggio ottenuto lungo una scala di conservatorismo- radicalismo, e la collocazione oggettiva nella stratificazione sociale siano state giu­ dicate statisticamente sufficienti a validare l’ipotesi di partenza. Tale ipotesi era così formulata: « L o status e il ruolo che una persona ha nei processi economici della società gli impongono determinati atteggiamenti, opinioni, interessi relativi al ruolo e alla sua posizione nella sfera politica ed economica. . . e, inoltre, lo status e il ruolo dell’individuo in relazione ai mezzi di produzione e di scambio di beni e servizi, fanno nascere in lui la coscienza di appartenere a una classe sociale della quale condivide atteggiamenti, opinioni e interessi». Il risultato appare sorprendente

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