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2   L E SCHIUME : PANORAMICA E SPERIMENTAZIONE 6

2.3   Stabilità delle schiume 10

2.3.1   Concetti di base nella chimica dei colloidi 10

Le peculiarità che caratterizzano uno stato colloidale sono senza ombra di dubbio la notevole estensione della superficie di separazione tra la fase dispersa e la fase disperdente e le specifiche proprietà fisico-chimiche delle molecole che si trovano all’interfaccia tra le due fasi.

L’estensione della superficie di separazione tra fase dispersa e disperdente può essere intuita agevolmente, in quanto prendendo in considerazione una generica particella sferica di raggio R costituita dal materiale che deve essere disperso e immaginando di dimezzarne via via il raggio a seguito della dispersione della particella nella fase disperdente, è evidente come, ipotizzando che la densità del materiale non cambi per effetto delle successive riduzioni delle dimensioni e tenendo conto che il volume totale occupato debba comunque mantenersi costante, l’estensione dell’area superficiale, essendo inversamente proporzionale al raggio R, si incrementerà sensibilmente con il procedere della dispersione.

Sistemi liofili e liofobi

I sistemi colloidali possono essere distinti in colloidi liofili e colloidi liofobi. I primi sono caratterizzati da una elevatissima affinità tra la fase dispersa e la fase disperdente, tanto che il sistema che si viene a generare è del tutto simile ad una vera soluzione e risulta essere termodinamicamente stabile. Se il mezzo disperdente è l’acqua, si parlerà più specificatamente di colloidi idrofili. Esempi di sistemi colloidi liofili sono rappresentati dalle soluzioni di molti polimeri naturali, come gomma o amido, o sintetici, quali nylon o polietilene, o anche da soluzioni come quelle formate dalle proteine, dai polisaccaridi, dai saponi e dai detergenti.

D’altro canto, i colloidi liofobi (o, analogamente a quanto detto prima, idrofobi qualora il mezzo disperdente fosse l’acqua) sono contraddistinti da una scarsa affinità tra la fase dispersa e quella disperdente, risultando così termodinamicamente instabili. Questa seconda classe di colloidi tende a separarsi nel tempo in due fasi distinte di differente densità a seguito di un

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processo di sedimentazione o, altrimenti, può essere soggetta a fenomeni quali la flocculazione2

e/o la coalescenza3 della fase dispersa con la conseguenza della formazione di particelle disperse

di maggiori massa e volume. Esempi di colloidi liofobi sono la panna montata, il fumo, la maionese, ma anche soluzioni colloidali di elementi quali oro, argento, zolfo, ecc.

Nel caso dei colloidi liofili la superficie di interfaccia tra la fase dispersa e la fase disperdente è interessata dalla presenza delle molecole di solvatazione4. Ciò incide sulla struttura del solvente

che viene modificata significativamente nelle vicinanze del soluto, salvo poi assumere nuovamente le caratteristiche proprie del solvente puro man mano che ci si discosta dalla molecola solvatata. Inoltre la solvatazione può incidere anche sui connotati delle molecole di soluto, modificandone, ad esempio, la disposizione sterica di alcuni gruppi di atomi in base alla loro polarità5.

Passando al caso dei colloidi liofobi, anche qui si registrano modifiche locali nella struttura del solvente e nella disposizione sterica delle molecole superficiali delle particelle della fase dispersa. In questo caso, però, non vi è solvatazione o, per lo meno, è estremamente limitata, e non possono sussistere dei forti legami tra le molecole superficiali della fase dispersa e quelle della fase disperdente. Tuttavia le molecole superficiali della fase dispersa sono legate alle molecole più interne e ciò fa sì che siano soggette ad una forza attrattiva diretta verso l’interno della particella, non bilanciata da un’analoga forza diretta in senso opposto. Ciò si traduce in una maggiore energia potenziale posseduta da queste molecole più superficiali rispetto a quella degli strati sottostanti che dà luogo ad una forza netta che, agendo sulla superficie stessa della molecola, tende a ridurne l’area. In altri termini, le molecole dello strato superficiale sono soggette ad una forza risultante non nulla che tende a farle spostare verso l’interno, sfuggendo dalla superficie limite che, conseguentemente, tende ad assumere l’estensione minima possibile (in assenza di altre forze la superficie minima è quella sferica).

Figura 2.3 Schematizzazione della forza netta agente sulle molecole [6]: nella massa: nulla [4] a); sulla

superficie: diretta verso l’interno b).

2Per flocculazione si intende il raggrupparsi, per mezzo di legami interparticellari, a formare un grappolo (o

flocculo) di più particelle originarie che mantengono comunque la rispettiva identità.

3 Per coalescenza si intende il fondersi di più particelle originariamente distinte così da formarne una di

dimensioni maggiori in cui non sia più possibile riconoscere le diverse particelle originarie.

4 La solvatazione consiste nell’interazione tra soluto e solvente per la quale le singole molecole di soluto

disciolto si circondano di molecole di solvente.

5 Sono definite molecole polari quelle che presentano una distribuzione asimmetrica degli elettroni di legame.

Le molecole che non presentano tale fenomeno sono dette non polari o apolari.

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Ma, come nel caso dei sistemi liofili, in quelli liofobi vi sono delle conseguenze anche sulla fase disperdente che verrà influenzata dalla presenza delle particelle disperse; infatti, anche le molecole della fase disperdente più prossime alla superficie delle particelle sono soggette ad una forza risultante diretta verso l’interno e sono quindi caratterizate dal possedere un’energia potenziale più elevata. In questo caso si viene a modificare l’orientamento sterico delle molecole di solvente con l’ottenimento di una struttura più compatibile con le interazioni di tipo Van der Waals, deboli legami di natura elettrostatica, che si determinano con le molecole superficiali della fase dispersa. Queste modifiche hanno l’effetto di ridurre il valore della tensione superficiale 𝜎, rendendo meno instabile il sistema colloidale.

In definitiva appare evidente come 𝜎dipenda dalla maggiore o minore propensione delle fasi del sistema colloidale a modificare la propria struttura in corrispondenza della regione interfasica6.

La tensione superficiale, da un punto di vista termodinamico, può definirsi come il lavoro per unità di area richiesto per formare una nuova superficie [6] (si pensi, ad esempio, al lavoro necessario a separare in due pezzi una colonna di materiale, processo che, se avviene in modo reversibile, si traduce in un aumento dell’energia libera):

∆𝐴 ∆𝑊 2𝜎𝐴 (2.1)

in cui 𝐴 rappresenta l’energia libera di Helmholtz del sistema7, 𝐴 l’area della superficie di nuova

formazione, 𝑊 il lavoro necessario a superare le forze attrattive in corrispondenza della nuova superficie che, come si nota dalla relazione, è proporzionale all’area (2𝐴 generata, 𝜎 la costante di proporzionalità denominata per l’appunto tensione superficiale, numericamente uguale, in condizioni di equilibrio, ossia quando non si ha adsorbimento di molecole di natura diversa in corrispondenza dell’interfaccia, all’energia libera superficiale specifica o, in altre parole, alla quantità di lavoro macroscopico che il sistema può compiere sull’ambiente. L’unità di misura di 𝜎 nel Sistema Internazionale è mNm-1. Fenomeni legati alla tensione superficiale sono, ad

esempio, la forma sferica delle gocce d’acqua, il galleggiamento di polveri od insetti, ecc. Quando un sistema subisce un cambiamento, ad esempio per una reazione chimica o per una transizione di fase, l’energia libera tende a decrescere raggiungendo un minimo in corrispondenza del quale viene raggiunto lo stato di equilibrio. Richiamando l’esempio della separazione di una colonna di materiale in due, potrebbe sembrare che tale cambiamento sia sempre sfavorito dal conseguente aumento della superficie di interfaccia e che, dunque, il sistema debba tornare, prima o dopo, alla condizione iniziale. Tale situazione si modifica sostanzialmente se tra le superfici di nuova formazione si inserisce una opportuna sostanza che, determinando l’insorgere di forze repulsive tra le superfici stesse, rende stabile la nuova condizione instauratasi.

Da quanto detto è evidente come la diminuzione di energia libera possa essere ottenuta secondo due diverse vie, la prima delle quali consiste in una diminuzione dell’area interfasale, ad esempio per via di fenomeni di flocculazione e coagulazione, mentre la seconda vede l’aggiunta di particolari sostanze denominate tensioattivi la cui presenza favorisce il processo di estensione superficiale dell’interfaccia, per cui le dimensioni delle particelle che formano la fase dispersa

6 Si definisce interfase una regione di dimensioni finite, con composizione e proprietà diverse da quelle di

ciascuna delle due fasi.

7 L’energia libera di Helmholtz è una funzione di stato utilizzata in termodinamica per rappresentare l’energia

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tendono spontaneamente a ridursi, fin quando il concomitante calo della loro concentrazione all’interfaccia rende nulla la variazione di energia libera per un ulteriore sviluppo di superficie. Tensioattivi (o surfattanti)

I tensioattivi (o surfattanti) rappresentano una specie chimica caratterizzata da una particolare propensione a concentrarsi in corrispondenza dell’interfaccia tra due fasi e dal formare aggregazioni colloidali anche a concentrazioni molto basse.

Una molecola di tensioattivo è contraddistinta dalla compresenza di due parti dalle proprietà sensibilmente diverse: una caratterizzata da una trascurabile attrazione verso la fase da cui è circondata (cioè il solvente), denominata gruppo liofobo, l’altra, invece, fortemente attratta da essa e detta gruppo liofilo. Poichè il solvente cui si fa riferimento nella maggior parte dei casi risulta essere l’acqua, anche nella letteratura specifica, si usano di sovente i termini idrofobo ed idrofilo in sostituzione di liofobo e liofilo rispettivamente, di più generale accezione [6]. Pertanto una molecola di tensioativo è anfifilica, termine che indica la peculiare proprietà di tali sostanze di possedere delle affinità verso due fasi essenzialmente immiscibili e, convenzionalmente, viene schematizzata mediante una “testa” idrofila ed una “coda” idrofoba, cf. Figura 2.4.

Figura 2.4 Schematizzazione mediante testa idrofila e coda idrofoba di molecole di tensioattivo e loro

classificazione in base alla natura della testa idrofila: non ionici, anionici, cationici ed anfoteri procedendo dall’alto verso il basso.

Tali sostanze posseggono la peculiarità di abbassare la tensione superficiale 𝜎di un liquido agevolando la bagnabilità tra le superfici o la miscibilità tra liquidi diversi. Infatti, in una soluzione di acqua e tensioattivo, la presenza, nelle molecole di quest’ultimo, della coda idrofoba dà luogo ad una distorsione della struttura del solvente con un conseguente decremento dell’entropia che viene poi recuperata nel momento in cui le molecole di tensioattivo vengono trasportate verso un’interfaccia del solvente con il conseguente rilascio delle molecole di acqua associate. In altri termini la forza motrice termodinamica per l’adsorbimento all’interfaccia risulta essere la rimozione delle code idrofobe dallo sfavorevole ambiente acquoso. In tale situazione si registra un aumento dell’energia libera del sistema, dovuta proprio al fatto che l’acqua interagisce con i gruppi idrofobi tendendo a spostarli dalla fase liquida: ciò comporta un acquisto di entropia e un calo dell’energia libera. Non appena le molecole anfifiliche giungono in corrispondenza della superficie, esse vengono parzialmente rimosse dalla fase acquosa; la disidratazione della parte idrofoba rilascia le molecole d’acqua ad uno stato di entropia più elevato [7]. A questo punto, una

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volta adsorbita, la molecola di tensioattivo riduce l’energia libera del sistema e, quindi, la tensione superficiale. L’adsorbimento spontaneo delle molecole di tensioattivo in corrispondenza dell’interfaccia è dunque dovuta all’interazione solvente-soluto.

Tutto ciò fa sì che sia richiesto un lavoro minore per trasportare le molecole di tensioattivo in corrispondenza di un’interfaccia relativa alle molecole del solvente, per cui la presenza dei surfattanti si traduce in una riduzione del lavoro richiesto per incrementare la superficie di interfaccia con una conseguente diminuzione della tensione superficiale.

In particolare, indicando con 𝜋 l’espansione o pressione superficiale di uno strato adsorbito, la tensione superficiale 𝜎 del solvente verrà ridotta al valore 𝜎 , proprio per effetto del tensioattivo aggiunto:

𝜎 𝜎 𝜋 (2.2)

Dunque la pressione superficiale 𝜋 𝜎 𝜎 rappresenta la riduzione della tensione superficiale dovuta alla presenza di tensioattivo o, in altre parole, la pressione di espansione della superficie. Un rapido aumento in pressione superficiale è indice di un veloce adsorbimento all’interfaccia tra le fasi (aria-acqua ad esempio) e, quindi, di una più elevata tensioattività del surfattante [8].

La struttura anfifilica delle molecole di tensioattivo, oltre a favorirne l’adsorbimento in corrispondenza dell’interfaccia, ne determina un orientamento preferenziale, essendo questo la configurazione energeticamente più stabile, caratterizzato dalla disposizione della coda idrofoba verso il gas, in modo da trovarsi dalla parte opposta rispetto alla massa liquida del solvente e minimizzare dunque le interazioni con la fase liquida riducendo la distorsione delle molecole di quest’ultima, e della testa idrofila in contatto con la fase acquosa, come mostrato in Figura 2.5.

Figura 2.5 Orientamento delle molecole di tensioattivo: preferenziale in corrispondenza dell’interfaccia tra

due fasi, casuale in soluzione.

I tensioattivi possono essere classificati in svariati modi, ad esempio in fuzione del loro utilizzo (emulsionanti, schiumogeni, bagnanti, disperdenti), o di alcune caratteristiche fisiche, quali il grado di solubilità in acqua o in olio, la stabilità in ambienti ostili, ecc. Tuttavia ognuna di queste classificazioni possiede delle limitazioni in quanto non fornisce alcuna informazione sulla natura chimica del materiale o su possibili diversi usi che se ne possono fare in funzione delle sue intrinseche peculiarità. Per questi motivi, di sovente, si preferisce utilizzare la classificazione dei tensioattivi basata sul loro carattere ionico che rende più semplice la loro identificazione anche relativamente ad alcuni aspetti e regole generali governanti il loro comportamento chimico-fisico.

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Da questo punto di vista, in base alla natura della testa idrofila, possono essere identificate quattro diverse categorie di surfattanti, Figura 2.4:

 anionici, con testa polare carica negativamente; si tratta di sali costituiti da lunghe catene idrocarburiche di 10, 20 atomi di carbonio, terminanti in testa con un gruppo carbossilato ( 𝐶𝑂𝑂 ) o solfonato ( 𝑆𝑂 ). Fanno parte di questa categoria numerosi saponi, il sodio lauril solfato (SLS) il lauril etossi solfato (LES) e numerosi acidi alchil-benzen-solfonici (ABS). Sono caratterizzati da un buon potere detergente ma da basso potere microbicida ed in genere vengono utilizzati per la produzione di shampoo, bagnoschiuma e detersivi. Sono molto sensibili alle cariche di segno opposto (possono subire il fenomeno della precipitazione) ed al pH (dissociazione);

 cationici, con testa polare carica positivamente; si tratta di sali costituiti da lunghe catene di atomi di carbonio (catene idrocarburiche) terminanti in testa con un gruppo ammonico quaternario. Esempi sono il benzalconio cloruro (BAC), che è molto utilizzato nei detergenti per via delle proprietà germicide, il bromuro di cetiltrimetilammonio (CTAB) o il bromuro di esadeciltrimetilammonio. Hanno un buon potere disinfettante, germicida/antimicrobico, ma basso potere detergente. Sono utilizzati in campo tessile come ammorbidenti, ma sono nocivi all’ambiente in quanto non biodegradabili;

 non ionici, con testa non carica; si tratta di alcoli a lunga catena come, ad esempio, i derivati poliossietilenici degli acidi grassi. Sono tensioattivi abbastanza efficaci e compatibili con tutti gli altri tipi di tensioattivi, caratterizzati da un buon bilancio di gruppi idrofili e lipofili nella molecola, da buone proprietà solubilizzanti e bagnanti. Rispetto ai precedenti, la loro attività non è influenzata dal pH o dalla presenza di elettroliti. Alcuni di essi producono poca schiuma e sono utilizzati come detersivi a “schiuma frenata” per lavatrici;

 anfoteri, con testa polare caratterizzata dalla contemporanea presenza di cariche positive e negative, dunque zwitterioni, ossia molecole elettricamente neutre nel complesso che presentano però sia cariche positive che negative localizzate; alcuni esempi sono la dodecil-betaina e gli acidi amminocarbossilici. Data la maggior affinità con la pelle ed un più moderato effetto detergente, vengono utilizzati per l’igiene intima e per pelli delicate nell’industria cosmetica.

Bisogna evidenziare che modificando il bilanciamento tra il gruppo coda idrofobo e il gruppo testa idrofilo è possibile modificare sostanzialmente le proprietà di una molecola di tensioattivo, enfatizzandone le proprietà di solubilità piuttosto che di schiumaggio o detergenti o altro, potendo così, almeno in teoria, progettare una molecola di surfattante con specifiche caratteristiche in funzione delle necessità di impiego [6].

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Tabella 2.1 Gruppi idrofili utilizzati nei comuni tensioattivi in commercio

Classe Struttura generale

Solfonato 𝑅 𝑆𝑂 𝑀 Solfato 𝑅 𝑂𝑆𝑂 𝑀 Carbossilico 𝑅 𝐶𝑂𝑂 𝑀 Fosfato 𝑅 𝑂𝑃𝑂 𝑀 Ammonio 𝑅 𝐻 𝑁 𝑋 𝑥 1 3, 𝑦 4 𝑥 Ammonio quaternario 𝑅 𝑁 𝑋 Betaina 𝑅𝑁 𝐶𝐻 𝐶𝐻 𝐶𝑂𝑂 Solfobetaina 𝑅𝑁 𝐶𝐻 𝐶𝐻 𝐶𝐻 𝑆𝑂 Poliossietilene (POE) 𝑅 𝑂𝐶𝐻 𝐶𝐻 𝑂𝐶𝐻 𝐶𝐻 𝑂𝐻

Polioli Saccarosio, sorbitano, glicerolo, glicole etilenico, ecc Polipeptide 𝑅 𝑁𝐻 𝐶𝐻𝑅 𝐶𝑂 𝑁𝐻 𝐶𝐻𝑅 𝐶𝑂 ⋯ 𝐶𝑂 𝐻 I gruppi idrofili (testa) che si incontrano più comunemente nei tensioattivi presenti in commercio sono riportati in Tabella 2.1, in cui 𝑅 rappresenta un opportuno gruppo idrofobo che impartisce proprietà tensioattive, 𝑀 un catione organico o inorganico e 𝑋 un anione.

È possibile, e in alcuni casi conveniente, combinare due o più funzionalità così da ottenere nuove proprietà superiori a quelle degli analoghi monofunzionali; un esempio è dato dall’alcol etere solfato, in cui il non-ionico POE viene solfatato, con struttura 𝑅 𝑂𝐶𝐻 𝐶𝐻 𝑂𝑆𝑂 𝑀 . Quest’ultima categoria, che potrebbe essere definita ibrida, ha il vantaggio di essere molto flessibile e viene utilizzata soprattutto nel settore dei prodotti per la cura della persona grazie al bassissimo grado di irritabilità per pelle e occhi.

Per quel che riguarda i gruppi idrofobi (coda) il più utilizzato è certamente il gruppo idrocarburico formato da 8-20 atomi di carbonio, ricavabile in modo economicamente vantaggioso o da risorse biologiche, quali agricoltura e pesca, o dall’industria del petrolio. Ne fanno parte gli acidi grassi naturali, con 12-18 atomi di carbonio n e struttura 𝐶𝐻 𝐶𝐻 , le paraffine, con 8-20 atomi di carbonio e struttura 𝐶𝐻 𝐶𝐻 𝐶𝐻 , ottenute da distillati del petrolio con punto di ebollizione superiore a quello della benzina, le olefine, gli alchilbenzeni, con 8-12 atomi di carbonio, gli alchili aromatici, gli alcoli, gli alchilfenoli, i fluorocarburi, caratterizzati da elevate proprietà tensioattive ma al contempo abbastanza dispendiosi dal punto di vista economico, i siliconi.

Un’ulteriore classificazione è quella che suddivide i tensioattivi in funzione della loro efficacia attraverso un indice empirico denominato HLB, acronimo di Hydrophilic Lipophilic Balance, correlato al rapporto tra le porzioni polari, ossia idrofile, e quelle apolari, ossia idrofobe, attraverso la seguente relazione:

𝐻𝐿𝐵 7 𝑔𝑟𝑢𝑝𝑝𝑖 𝑖𝑑𝑟𝑜𝑓𝑖𝑙𝑖 𝑔𝑟𝑢𝑝𝑝𝑖 𝑖𝑑𝑟𝑜𝑓𝑜𝑏𝑖 (2.3)

tale indice è compreso tra 0 e 20 e, in particolare:

 se HLB < 10 si avranno tensioattivi lipofili con formazione di emulsioni W/O, ossia emulsioni acqua-in-olio, con fase dispersa acquosa e fase continua idrofoba;  se HLB > 10 si avranno tensioattivi idrofili, per cui verranno preferenzialmente

formate emulsioni O/W, ossia emulsioni olio-in-acqua, con fase dispersa idrofoba e fase continua acquosa.

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Dunque, l’indice HLB fornisce informazioni sulla solubilità del tensioattivo: più tale indice risulta essere basso, maggiore è il carattere lipofilo e il tensioattivo risulta essere solubile in fase oleosa, più è alto, maggiore è il carattere idrofilo e il tensioattivo risulta essere solubile in fase

acquosa. Il valore di tale indice aiuta a distinguere i tensioattivi anche in funzione del loro impiego, ossia, come già precedentemente accennato, antischiuma, schiumogeni, emulsionanti, bagnanti (wetting agents), disperdenti, solubilizzanti (per la preparazione di soluzioni trasparenti di sostanze non solubili nel solvente); ciò è ben evidente nella scala di Griffin riportata in Figura 2.6.

Bisogna comunque evidenziare come la valutazione sulla base del solo indice HLB sia approssimata e certamente poco attendibile nel caso di sistemi dispersi complessi.

A proposito degli impieghi, in generale, è possibile aggiungere che come agenti bagnanti si utilizzano tensioattivi caratterizzati dal possedere una catena ramificata e un gruppo idrofilo centrale o anche una corta catena idrofobica e un gruppo idrofilo in testa, come agenti schiumanti si preferiscono i tensioattivi con una coda idrofobica di media lunghezza e un gruppo idrofilo in testa, mentre come detergenti surfattanti con una lunga coda idrofoba con un gruppo idrofilo in testa.

Venendo più nello specifico alla categoria dei tensioattivi naturali, tra i più utilizzati in ambito industriale, biologico e alimentare, si possono distinguere:

 tensioattivi a molecole piccole, di cui fanno parte i monogliceridi, gli acidi grassi e i fosfolipidi; sono caratterizzati dalla possibilità di formare strutture lamellari liquido- cristalline, aumentare la viscosità della fase continua, ridurre l’attrazione di Van der Waals, formare emulsioni e migliorare le proprietà meccaniche della superficie di separazione;

 polisaccaridi, di cui fanno parte la metil cellulosa, gli alginati, la guar, lo xantani; permettono di aumentare la viscosità della fase continua;

 proteine, di cui fanno parte i caseinati, le proteine del siero di latte, le proteine d’uovo e le proteine di soia; permettono di incrementare la viscosità e l’elasticità all’interfaccia oltre a provocare fenomeni di repulsione sterica.

Questa ultima classe, di sovente utilizzata nel settore degli additivi per calcestruzzi, merita una maggiore attenzione.

Le proteine sono dei polimeri composti da 20 amminoacidi legati mediante il legame peptidico (legame di tipo covalente tra il gruppo amminico di un amminoacido e il gruppo carbossilico dell’altro amminoacido) che posseggono delle proprietà tensioattive per via della contemporanea