• Non ci sono risultati.

La rivendicazione dell’artificio e il desiderio di scrivere secondo la legge idilliaca dell’arte, allontana l’opera di Semprun da una linea puramente descrittiva della vita dei campi, che si vedrebbe limitata essenzialmente alla resa di una quotidianità insopportabile. Egli, nel trattare la propria esperienza della deportazione, desidera modellarsi ad una forma che gli permetta di allontanarsi dal documento, da un racconto il cui fine principale sia l’informazione, evitando così il rischio di cadere nel patetico e permettendo invece di raggiungere quello che, come vedremo, sembra essere lo scopo principale: l’invito alla riflessione. Egli si rende conto, infatti, che il dramma che si consuma nel campo non è tanto quello della mostruosità nazista, o dell’oppressore in faccia alle vittime innocenti, quanto quello dell’uomo contro il suo simile. Per svegliare le coscienze e portarle alla riflessione, non è sufficiente, quindi, descrivere l’orrore o attaccarsi agli stereotipi, che potrebbero circoscrivere l’esperienza alla società nazista dell’epoca, ma, quello che sembra necessario allo scrittore è rinunciare ad una semplice esposizione dei fatti associando una meditazione sociologica, filosofica e morale per trascendere la propria esperienza e iscriverla nell’universalità.

5.1. LA RIFLESSIONE SUL MALE RADICALE

La prima riflessione che investe il testimone è quella morale sul Male e sulla capacità, e i limiti, della resistenza umana di fronte a questa forza. Semprun sembra interrogarsi sulla problematica del male, a partire già dalla sua prima opera, ne Le

grand voyage: sul treno il narratore, infatti, memore delle precedenti esperienze col

suo compagno di cella Ramaillet, che non divideva con lui il cibo ricevuto, e l’esempio invece del gars di Semur, che, al contrario, non ha esitato a dividere con lui le mele portate per il viaggio, lo conducono a riflettere sulla naturale inclinazione umana a fare del bene o del male. Con una prolessi, poi, Gérard analizza questo atteggiamento all’interno del campo, dove ha visto uomini rubare un pezzo di pane

ad un compagno, e, quando da un pezzo di pane dipende la vita stessa, significa mandare a morte certa un compagno, solo per assicurarsi qualche giorno in più di sopravvivenza. Nel campo l'uomo, diviene, però, anche l'essere capace di dividere fino all’ultimo pezzo di pane per sostenere un compagno. Quello che Semprun vuole sottolineare è che non è in situazioni limite, come quella del campo, che l'uomo si vota al male, poiché esso è una possibilità iscritta da sempre nella sua natura: « Réellement, on n’avait pas besoin des camps pour savoir que l’homme est l’être capable du meilleur et du pire. C’en est désolant de banalité, cette constatation.» (GV, 72). Davanti al male, infatti, c’è chi cede, chi tradisce un compagno, chi prevarica gli altri per assicurarsi qualche giorno in più di vita. Per Gérard, non solo questo è deplorevole, ma, il tradimento, è visto come una vittoria dei nazisti. Egli riporta l'esempio è Émil, un detenuto, capo del block, che ha tenuto alta la sua dignità per dodici anni, poi, a un mese dalla liberazione, ha ceduto. Le S.S., spinte dalla piega che aveva preso la guerra, avevano chiesto dei volontari per l’esercito, e, non avendo ricevuto domande, avevano minacciato gli chefs dei Block. Allora, Émil, aveva iscritto sulla lista accanto a qualche criminale di diritto comune che erano volontari, un deportato del suo Block, un alsaziano; lo aveva iscritto senza dirgli niente, abusando del suo potere di capo del block, mandandolo alla morte e alla disperazione, rendendolo un uomo perso per sempre, perché, se ne fosse uscito vivo, non si sarebbe mai più fidato di qualcuno.

Et voici que brusquement il nous quittait, qu’il s’effondrait dans la nuit de ces douze ans passés, voici qu’il devenait l’une des preuves vivantes de cette horreur et de cette interminable nuit de douze années. Voici qu’au moment où les S.S. étaient vaincus, Émil devenait une preuve vivante de leur victoire, c’est-à-dire, de notre défaite passée, déjà mourante, mais entraînant dans son agonie le cadre vivant d’ Émil. (GV, 204 )

È, tuttavia, soprattutto ne L’écriture ou la vie che la riflessione sul Male si sviluppa. Quando Semprun espone gli obiettivi del suo progetto di scrittura, nell’episodio di Eisenach, dove i sopravvissuti si interrogano sul modo migliore di rendere l’esperienza, le sue idee sono già chiare: per cogliere l’essenziale non si deve descrivere tanto l’orrore, quanto il male:

Mais l’enjeu ne sera pas la description de l’horreur. Pas seulement, en tout cas, ni même principalement. L’enjeu en sera l’exploration de l’âme humaine dans l’horreur du Mal…il nous faudra un Dostoïevski ! (ÉV, 170)

La questione si solleva già l’indomani della liberazione. L’amministrazione militare americana prepara un rapporto sulla vita a Buchenwald, e invita i detenuti che avevano esercitato qualche responsabilità nella gestione del campo, a collaborare. Il detenuto Semprun rappresenta l’Arbeitsstatistik, il servizio dove si svolgeva la distribuzione della mano d’opera deportata. Semprun si trova, così, a raccontare al lieutenant Rosenfeld, ufficiale della terza armata di Patton, l’episodio della registrazione al campo e Rosenfeld dice che è un buon inizio per raccontare l’esperienza. Nella citazione che segue Semprun rivela che il male appare come l’essenziale dell’esperienza vissuta nei campi, ed è necessario andare oltre l’evidenza dell’orrore, poiché considerato solo l’apparenza del male, per cercare di arrivare alla radice del male radicale.

-L’essentiel, dis-je au lieutenant Rosenfeld, c’est l’expérience du Mal. Certes, on peut la faire partout cette expérience…Nul besoin des camps de concentration pour connaître le Mal. Mais ici, elle aura été cruciale, et massive, elle aura tout envahi, tout dévoré…C’est l’expérience du Mal radical… (ÉV, 120)

Nel campo, l’esperienza del male è, infatti, quella del male radicale. "Das radikal

böse!", enuncia Rosenfeld, che ha colto il riferimento a Kant. Il filosofo, ne La religione entro i limiti della sola ragione, parte dal presupposto che esiste

nell’uomo un “male radicale”, ossia una tendenza radicata nell’umanità in quanto specie, a deviare dalla retta massima della moralità, anche nei casi in cui il soggetto ne sia perfettamente cosciente. Il male ha un fondamento soggettivo, umano radicato nella costitutiva struttura ontologica trascendentale della natura umana, la quale si manifesta quindi come caratteristica propria, quella di essere moralmente libera1. Essa, in quanto specificamente libera può determinarsi al bene come al male, ontologicamente equivalenti, ma, principalmente, è spinta naturalmente al secondo piuttosto col primo : « D’où l’impossibilité de décréter l’inhumanité du Mal…» (ÉV, 216).

1

Le mal est l’un des projets possibles de la liberté constitutive de l’homme…De la liberté où s’enracinent à la fois l’humanité et l’inhumanité de l’être humain… (ÉV, 121)

La speculazione filosofica, tuttavia, che appare più completa agli occhi del detenuto, è quella sulla libertà umana e sul Male, delle opere di Schelling. Semprun dice a Rosenfeld che, anche con una descrizione dettagliata dell’orrore quotidiano, si potrebbe mancare ugualmente l’essenziale, senza svelare il mistero di questa esperienza, la sua oscura verità, “la ténèbre qui nous était échue en partage”. La frase fa parte del volume che contiene il saggio sulla libertà dove Schelling esplora il male e lo considera la base originaria dove si radica il fondamento dell’umano. Una ampia delucidazione dell’opera del filosofo ci viene offerta ne Le mort qu’il faut. A Buchenwald, nella baracca delle latrine il detenuto parla con due compagni Lenoir e Otto. Otto, testimone di Geova, vuole parlare dell’esperienza del male, che domina tutte le altre, ma pensa di non doversi tenere a Kant bensì a Schelling. Giorni dopo, Otto, va a trovare Gérard all’Arbeit, con il libro del filosofo Recherches sur

l’essence de la liberté humaine, volendo provare che la concezione del male è più

sostanziosa qui. Nelle sue Recherches, Schelling, partendo dalla questione dell’origine del male, si chiede: da dove vengono il finito, il male, la libertà? Se Dio che è atto purissimo, statico, come spiegare che l’Assoluto essendo perfetto, possa dar vita all’imperfetto? La discussione chiama in causa Dio. Qual è allora il rapporto tra Dio e il Male?1

Quel est le rapport de Dieu comme être moral au Mal, dont la possibilité et l’effectivité dépendent de l’autorévélation? S’il a voulu celle-ci, a-t-il aussi voulu le Mal, et comment concilier ce vouloir avec la sainteté et la suprême perfection qui sont en lui, ou encore, pour user de l’expression courante, comment justifier Dieu du Mal ? ( LMQF, 133)

Nella speculazione schellinghiana si attaccano quelle teologie, le tomiste in particolare, che tacciono sulla questione religiosa, cercando di preservare Dio e allontanandolo dalla linea del male. Se, infatti, il concetto di dio, di entità perfetta, e statica non riesce a giustificare e dar ragione del male allora, secondo il filosofo, non

1

rimane altra soluzione che quella di cambiare radicalmente il concetto dell’assoluto, interpretando Dio come una realtà in divenire e come sede di due contrari, opposti: l’inconscio, la tenebra, irrazionale e la ragione, la luce della razionalità. Se Dio diviene, allora, è possibile distinguere il momento attuale in cui arriva all’esistenza e uno primordiale che rappresenta il fondamento della sua esistenza. Questo fondamento è radice oscura, e indica la presenza della natura in Dio:

Dieu ne fait pas obstacle à cette volonté du fond et ne la supprime pas. Ce serait en effet exactement comme si Dieu supprimait la condition de son existence, c’est-à-dire sa personnalité propre. Donc pour que le Mal ne soit pas, il faudrait que Dieu lui-même ne fût pas.. ( LMQF, 134)

Ora, mentre in Dio questi due principi sono indisgiungibili e costituiscono una unità assoluta, nell’uomo sono invece separabili. Il principio oscuro, la tenebra primordiale dell’inconscio si estrinseca come volontà individuale e si oppone alla universale. Il male qui affonda le sue radici, se non in Dio, almeno nel suo fondamento. L’uomo ne resta comunque il primo responsabile, e la libertà consiste proprio nella facoltà di scegliere il bene o il male.1 Otto espone poi un punto cruciale che colpisce il detenuto: « Sans cette obscurité préalable la créature n’aurait aucune réalité: la ténèbre lui revient nécessairement en partage.. » (LMQF, 134)

Semprun è silenzioso sulla questione religiosa, e la figura di Dio non riveste alcun ruolo nell’opera. Quando egli si trova a parlare del silenzio di Dio, davanti al testimone di Geova, che vuole continuare a credere in un Dio Buono e misericordioso, e a Lenoir, che attribuisce questo silenzio non ad una prova della sua inesistenza, ma della sua impotenza o debolezza, il narratore, che non ha inquietudini metafisiche, si chiede: in fin dei conti in quale altro massacro della storia Dio si è fatto sentire? Emerge un certo ateismo, nelle parole del narratore, che lo porta ad essere più realista e ad affermare che quello che più lo preoccupa è, invece, il silenzio degli uomini: « Ce qui était en question, disais-je aux deux autres, ce n’était pas le silence de Dieu, mais celui des hommes. Sur le nazisme, par exemple, Mal absolu. Trop long, trop craintif silence des hommes.» (LMQF, 137)

1

5. 1.1. LE FORZE RASSICURANTI DELLA FRATERNITA’

Accanto all’esperienza del male e della morte, ci sono istanti unici che Semprun vuol farci ricordare: le promesse rassicuranti della fraternità. Idea che sembra aver ripreso dall’opera di Malraux e che l’epigramma scelto da Semprun per L’écriture ou la vie sembra confermare: « …je cherche la région cruciale de l’âme où le Mal absolu s’oppose à la fraternité». Quello che interessa a Semprun dell’opera di Malraux è la meditazione sulla morte e di conseguenza un seguito di riflessioni e dialoghi sul senso della vita. Ne La lutte avec l’ange, la riflessione tocca punti estremi con la descrizione della famosa scena del primo attacco a gas dei Tedeschi sul fronte russo; episodio che, ripreso, poi, ne Les miroir des limbes, dove riviene sullo scontro tra la morte e la fratellanza. Scrivendo la sua opera, Malraux, ha ben presente i grandi drammi della storia, ma, quello che più interessa lo scrittore, è l’uomo e ciò che lo eleva o lo sprofonda nell’abisso. Per lui è con i primi gas che Satana oscura la terra e l’unica risposta possibile, a tali atrocità sembra essere la fraternità, forza che Malraux ritiene misteriosa, e giunta da lontano, tanto quanto il male.1 Il Male si trova, allora, confrontato a una fraternità iscritta nell’uomo da sempre. Da un lato, infatti, al campo di concentramento, il Male è, per i detenuti, incarnato nelle S.S. e nel loro potere arbitrario di fare del Male, come emerge nell’episodio della corvée di lavoro quando Semprun riconosce nel soldato sadico che abusa del suo potere un “Sourire ravi et cruel: humain, trop humain. L’inimitable sourire de l’humaine joie du Mal.” (LMQF, 63). Dall’altro, non è impossibile incontrare le forze rassicuranti della solidarietà, così come è successo al narratore, quando a soccorso arriva un giovane russo, egli si fa carico, infatti, della pietra più pesante, approfittando di un momento di distrazione della S.S., lasciando la sua, più leggera, al narratore. Semprun riconosce, dietro questa azione, la capacità, dell'uomo, di fare del bene:

Geste inouï, totalement gratuit. Il ne me connaissait pas, ne me verrait plus jamais, ne pouvait rien atteindre de moi. Membres anonymes, impuissants, de la plèbe du camp, nous étions sur un même plan d’égalité démunie de pouvoir. Geste de pure bonté, donc, quasiment surnaturel. C’est-à-dire, exemplaire de la radicale liberté de faire le bien, inhérente à la nature humaine. (LMQF, 63)

1

Nel gesto del giovane russo, Semprun vede personificata la morale che regna tra molti detenuti e che risponde alla tendenza umana di un sentimento di fratellanza, di vicendevole aiuto tra i membri di una stessa comunità:

S’il y a une morale, ici, ce n’est pas celle de la pitié, de la compassion, moins que jamais une morale individuelle. C’est celle de la solidarité. Une solidarité de résistance, bien sûr : une morale de résistance collective. Provisoire, certes, mais contraignante. (LMQF, 173)

Ed è proprio a questa solidarietà che Semprun deve la vita, come ci racconta in un episodio, ricorrente nell’opera. Ci avvaliamo, qui, delle spiegazioni di L’écriture ou

la vie, dove rievoca l’arrivo al campo e la registrazione dei suoi dati. Semprun ha

insistito che fosse registrato con il suo statuto di student di filosofia, sebbene il vecchio comunista che si è occupato di queste iscrizioni abbia cercato di dissuaderlo. L’episodio è ripreso più avanti, in visita di nuovo al campo, quarantasette anni dopo, Semprun capisce che il vecchio comunista finì per scrivere stukkateur al posto di studente salvandogli la vita. Egli aveva cercato di fargli comprendere quella realtà, dove per sopravvivere è più vantaggioso essere un operaio qualificato, che uno studente di filosofia. É alla fraternità che deve la vita :

Il avait réagi en fonction d’une idée de la solidarité, de l’internationalisme. En fonction d’une idée généreuse de l’homme. [..] Qu’il fût capable, à ce moment, d’être attentif à l’Autre : moi-même. Attentif à je ne sais quoi dans mon visage, mes paroles. Attentif à l’idée de l’homme qui en avait fait un militant, autrefois, dans la vie au-dehors : une idée qui brillait encore comme une petite flamme vacillante dans son esprit, que rien n’avait pu étouffer. Ni l’horreur, ni le mensonge, ni la mort. Une idée de fraternité s’opposant encore au déploiement funeste du Mal absolu. (ÉV, 388)

5.2. L’ESPERIENZA DELLA MORTE

La riflessione di Semprun si sposta poi sulla lotta dell’uomo con una forza superiore e indissociabile dalla prova del campo del male: la morte. L’orrore conosciuto, l’ingiustizia sofferta, ma soprattutto il Male subito, altro fine non avevano, infatti,

che la morte e la distruzione dell’essere umano. La morte come espressione, quindi, della tenebra che l’uomo si porta in dote. La presenza ossessiva di questa forza oscura, appare già nella sua prima opera dedicata ai viaggi verso i campi. Dopo l’annuncio della morte del gars di Semur e la morte, poi, del vecchietto che grida: «Vous vous rendez compte?», la morte sembra impossessarsi del vagone. La morte adesso non solo s’impone, ma si anima ed è personificata: « [..] La mort était-elle déjà en train de ramasser ses force et ses ruses, pour un dernier assaut, un déferlement subit à travers les artères, un froid caillot d’ombre s’avançait.» (GV, 240). La personificazione, che è ripetuta più avanti e che da vita ad una allegoria, sottolinea questo concetto di morte incombente che prende vita: « La mort était en marche dans le wagon, silencieusement, une force irrésistible avait l’air de pousser ces cadavres vers leur ultime action.» (GV, 247)

Al campo, la morte, diviene per i detenuti, non solo una tragica probabilità della loro sorte, ma un’esperienza vicina, quotidiana, di cui essi fanno conoscenza e prova diretta a cui sembrano quasi assuefarsi:

[..] Nous étions habitués à la présence des cadavres, à l’odeur du crématoire. La mort n’avait pour nous plus de secret, plus de mystère. Pas d’autre secret, du moins, pas d’autre mystère que celui, banal, de tout temps reconnu, insondable pourtant, du trépas lui-même: passage invivable, à tous les sens du terme. (LMQF, 221)

Semprun torna sull’idea della morte, come esperienza, ne L’écriture ou la vie, quando, per sottolineare quanto essa sia stata cruciale e abbia influenzato il suo essere, spiega al lieutenant Rosenfeld che proprio essa è stata vissuta come una vera e propria esperienza. Il narratore espone allora un nozione capitale dell’opera, che emerge da un nuovo rapporto sia con la vita che con la morte :

Et puis, de cette expérience du Mal l’essentiel est qu’elle aura été vécue comme expérience de la mort. Je dis bien expérience. Car la mort n’est pas une chose que nous aurions frôlée, côtoyée, dont nous aurions réchappé [..] Nous l’avons vécue… Nous ne sommes pas des rescapés, mais des revenants… Ceci, bien sûr, n’est dicible qu’abstraitement. Ou en passant, sans avoir l’air d’y toucher… Ou en riant avec d’autres revenants.. [..] (ÉV,121)

Egli si sente un fantasma e ne ha la conferma davanti allo sguardo spaventato dei tre ufficiali che si presentano a Buchenwald il giorno della liberazione del campo:

À deviner mon regard dans le miroir du leur, il ne semble pas que je sois au- delà de tant de mort. [..] la sensation, en tout cas, soudaine, très forte, de ne pas avoir échappé la mort, mais de l’avoir traversée. D’avoir été, plutôt, traversé par elle. De l’avoir vécue, en quelque sorte. D’en être revenu comme un revient d’un voyage qui vous a transformé : transfiguré, peut-être. (ÉV, 27)

La prigionia nel Lager si confonde, allora, con una discesa agli inferi, da cui il deportato torna, non solo tesoriere di una consapevolezza in più che cambia inevitabilmente il suo rapporto col mondo, ma anche con la sensazione di aver passato la sua condizione di mortale. Tornato dalla morte senza averla lasciata, come se fosse risorto, nato un seconda volta, Semprun azzarda la convinzione di sentirsi immortale. Aver già pagato il suo debito alla vita infatti lo porta a pensare che dopo tale esperienza potesse solo avvicinarsi alla vita, vedendo nei giorni che passano un allontanamento dalla morte:

C’était excitant d’imaginer que le fait de vieillir, dorénavant, à computer de ce jour d’avril fabuleux, n’allait pas me rapprocher de la mort, mais bien au

Documenti correlati