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3.1 LA DOLOROSA SCELTA TRA LA SCRITTURA O LA VITA

Nonostante oggi Semprun abbia assunto pienamente la posizione di testimone a lui richiesta, ricercato a colloqui e dibattiti sull’olocausto, la strada verso questo impegno è stata lenta e faticosa. Egli, infatti, inizialmente sceglie il silenzio, come hanno fatto numerosi deportati, e attenderà molti anni prima di dare la sua testimonianza ne Le grand voyage, pubblicato nel 1963. Appena indicati nel libro in questione, i motivi di questo silenzio sono stati ampliamente trattati e affrontati ne

L’écriture ou la vie, e sono da ricercare in primo luogo, in una scelta per la

sopravvivenza, avvalendosi di quello che egli chiama un «silence de survie [..] un silence bruissant de l’appétit de vivre.» (ÉV, 145) Siamo nell’estate del 1945, Semprun è tornato da pochi mesi e la voglia di scrivere sull’esperienza, dando così vita al suo sogno di divenire scrittore, si scontra ben presto con il desiderio di riprendere il corso di una vita normale, per quanto possibile, cercando di dimenticare l’atroce vissuto. L’indomani della liberazione, egli prova, infatti, un forte desiderio di vivere, “un goût violent”, di appartenere alla vita, tornando a godere delle piccole cose che fanno una vita, delle bellezze e delle ricchezze del mondo:

[..] ta surprise infiniment renouvelée devant la gratuité de l’existence ; ta joie violente d’être revenu de la mort pour respirer l’air iodé de certains matins océaniques, pour feuilleter des livres, pour effleurer la hanche des femmes, leurs paupières endormies, pour découvrir l’immensité de l’avenir. (ÉV, 297)

Si rivela, però, che la vita non sia una facile riconquista per il detenuto. Egli infatti, pur avendo un forte desiderio, e un’avidità quasi, di tornare a vivere, ha sempre la lucida consapevolezza che ogni suo sforzo sia solo un debole e momentaneo tentativo di allontanare i fantasmi del passato, e che poco riuscirà a fare contro il suo malessere e “les traces d’une agonie indélébile” (ÉV, 145) che oscurano la sua anima:

Mais ce savoir impotent, avide, cette sagesse du corps, ne m’occultait pas la certitude fondamentale de mon expérience. De mes liens avec la mémoire de la mort, à jamais. (ÉV, 161)

Ben presto anche il progetto di scrivere, dove spera di trovarvi il giusto rimedio per allontanare questo “malheur”, si rivela impossibile. La sua difficoltà non riguarda la scrittura, ma la sopravvivenza a questa : « j’essayais de survivre à l’écriture qui me rongeait l’âme.» (ÉV, 255) Nel 1945, infatti, quando intraprende l’avventura della testimonianza, e comincia ad elaborare l’esperienza attraverso la scrittura, essa si rivela dolorosa per l’autore, visto che è inscindibile dall’idea della morte: « Le bonheur de l’écriture, je commençais à le savoir, n’effaçait jamais ce malheur de la mémoire. Bien au contraire: il l’aiguisait, le creusait, le ravivait. Il le rendait insupportable. » (ÉV, 212). L’atto di scrittura, così, invece di allontanare o esorcizzare il ricordo lo ravviva attraverso la parola, e risveglia le angosce. Scrivere si rivela allora mortale; atto nefasto che non solo intacca la già faticosa voglia di riprendere il corso di una vita normale, ma impedisce lo stesso atto di vivere :

Tel un cancer lumineux, le récit que je m’arrachais de la mémoire, bribe par bribe, phrase après phrase, dévorait ma vie. Mon goût de vivre, du moins, mon envie de persévérer dans cette joie misérable. J’avais la certitude d’en arriver à un point ultime, où il me faudrait prendre acte de mon échec. (ÉV, 254)

È per questo che il tema del ritorno è abbordato, da Semprun, in una situazione tragica, poiché egli vede un unico modo per scampare all’angoscia della vita, quello della morte volontaria, del suicidio: « Seule la mort volontaire, délibérée, pourrait me distraire de ma douleur, m’en affranchir.» (ÉV, 205). La relazione tra l’autore e la scrittura è allora caratterizzata da un dilemma, perché da un lato scrivere diviene sorgente vitale per lo scrittore, dall’altro la scrittura rende la vita impossibile. Per l’autore si impone allora una scelta : vivere o scrivere. La stessa alternativa proposta dal titolo della sua opera maggiore, L’écriture ou la vie, appunto. Egli allora decide di scegliere la vita. Nella citazione che segue vediamo il momento della decisione del 1946 quando abbandona il suo progetto di scrittura, il sogno di divenire scrittore

poiché invece di trovare nella scrittura la liberazione che avrebbe voluto, essa lo porta a far vivere la vita di un morto.

Il est vrai qu’en 1947 j’avais abandonné le projet d'écrire. J’étais devenu un autre, pour rester en vie. A Ascona, dans le Tessin, un jour d'hiver ensoleillé, en décembre 1945, j’avais été mis en demeure de choisir entre l’écriture ou la vie. C’est moi qui m’étais mis en demeure de faire ce choix, certes. C’est moi qui avais à choisir, moi seul. (ÉV, 253-254)

Ogni libro parla della decisione di Ascona, ma è ancora ne L’écriture ou la vie che il lettore capisce perché il narratore è potuto tornare a vivere e sperare nell’avvenire. Il narratore si rifugia nella politica, confidando che l’azione possa distogliere il pensiero, perché se infatti la scrittura lo riteneva nella memoria mortifera del campo, l’attività politica lo proiettava nell’avvenire. Ma sarà soprattutto nelle donne, che troverà la riserva di energia per ritrovare il gusto della vita. I personaggi femminili, di finzione o reali, che nell’opera incarnano la forza della vita, hanno la doppia funzione materna e seduttrice. La giovane donna che saprà ricevere il sopravvissuto dandogli la sensazione di essere tornato a casa, è Laurence, la fidanzata di Marc, l’ufficiale che, l’indomani della liberazione, ha prestato a Gérard, il volume di poesie di René Char. È proprio il ricordo del giovane ufficiale e il dovere morale di raccontare gli ultimi suoi momenti di vita all’amata, che Semprun può aprirsi e parlare dell’esperienza. Il memorialista conviene che lei ha potuto aiutarlo a superare la ripugnanza a parlare : « C’est avec Laurence et avec elle seulement que j’aurais réussi cet été du retour à parler de Buchenwald ». (ÉV, 302). Ma Semprun vuole dimenticare ed è nelle gioie dell’amore che Semprun vuole ritrovare la forza di attaccarsi alla vita. Odile, la ragazza che Semprun frequenta l’estate del ritorno e con cui riscopre i piaceri del corpo, avrà il ruolo di incarnare le forze della vita. Grazie a lei infatti, alla sua gioia di vivere, il narratore riesce a capire che la vita è ancora vivibile.

Elle incarnait pour moi la vie, ses insouciances, son innocence: son irresponsabilité imprévisible et charmante. Elle était le présent toujours renouvelé, sans autre projet que de préservérer dans cette façon d’être au monde [..] (ÉV, 206)

Odile però, a differenza di Laurence, che aveva preso su di lei il passato affliggente del sopravvissuto, non sa ascoltare, né pronunciare le parole redentrici che occorrono al narratore quando i sogni del campo lo risvegliano improvvisamente durante la notte. Al narratore servirà una di riserva di oblio per ritrovare gusto per la vita, un oblio visto come una condizione essenziale alla sopravvivenza dell’autore, sopravvivenza più psicologica che reale: « La chose que je voudrais plus que tout, c’est le repos spirituel. L’oubli, autrement dit [..] je ne voudrais que l’oubli, rien d’autre.» (ÉV, 170) E la giovane donna che deve fargli dimenticare tutto, è Lorène, conosciuta ad Ascona nell’estate del rientro, ed a cui decide di nascondere la sua vera identità; infatti solo lasciandola all’ignaro di tutto il narratore trova l’unico modo di salvarsi e di dimenticare. L’oblio scelto diviene cura del silenzio ed è per questo che non può parlare con lei del passato: « Mais elle est la seule personne à qui je ne peux pas, ne dois expliquer. C’est son ignorance qui peut me sauver, son innocence qui me remet dans les chemins de la vie. Pas un mot sur la neige d’antan, à aucun prix. » (ÉV, 275) Abbandonandosi all’amore con Lorène, “inoubliable maîtresse de l’oubli” (ÉV, 286), riuscirà ad allontanarsi dalla scrittura ed a rimanere nella vita: « Grâce à Lorène, qui n’en savait rien, qui n’en a jamais rien su, j’étais revenu dans la vie. C’est-à-dire dans l’oubli: la vie était à ce prix. Oubli délibéré, systématique, de l’expérience du camp.» (ÉV, 255)

L’oblio scelto e imposto dalla sopravvivenza, quello che Semprun definisce come “une longue cure d’aphasie, d’amnésie délibérée” (ÉV, 255) si dimostra però essere una felicità labile, perché provvisoria; infatti anche se inizialmente esso offre le gioie di un’esistenza intensa si dimostra ben presto debole contro gli attacchi della memoria che riporta in superficie immagini insopportabili: « Pourtant, malgré elle, malgré moi, malgré l’exubérance de cet été du retour, la mémoire de la mort, son ombre sournoise, me rattrapait parfois.» (ÉV, 201-202) Se Manuel ne

L’évanouissement e il memorialista de L’écriture ou la vie, si abbandonano a lunghe

erranze notturne, è solo per sfuggire ai ricordi, dovuti al risveglio improvviso da sogni insopportabili perché carichi di angoscia. L’oblio rivendicato, infatti, per tenere a distanza il passato distruttore, si rivela spesso impotente contro il risorgere dei ricordi involontari che rimontano alla memoria indotti da sensazioni che

risvegliano per la loro similitudine le esperienze vissute al campo. Come quella volta che Semprun, a causa della memoria risvegliata dal gusto del pane nero, è riportato con la memoria, indietro negli anni, alla realtà del campo:

Au fil des années, il faut dire, des souvenirs m’ont assailli, parfois, d’une parfaite précision, surgissant de l’oubli volontaire de ce voyage, avec la perfection polie des diamants que rien ne peut entamer. Ce soir, par exemple, où je devais dîner chez des amis. [..] Elle [Catherine] avait prévu un dîner à la russe, et c’est ainsi que j’ai eu à la main, tout à coup, une tranche de pain noir, et j’ai mordu dedans, d’une façon machinale, tout en poursuivant la conversation. Alors, ce goût de pain noir, un peu acide, cette lente mastication du pain noir, grumeleux, ont fait revivre en moi, brutalement, ces instants merveilleux où l’on mangeait notre ration de pain, au camp, où l’on dévorait longuement, avec des ruses d’Indien, pour que cela dure, les minuscules carrés de pain humide et sableux que l’on découpait dans la ration de la journée. Je suis resté immobile, le bras en l’air [..] et mon cœur battait follement. (GV, 149-150)

Quello che emerge è la figura di un uomo torturato, costretto a rifugiarsi nell’illusione dell’azione politica e nei piaceri provvisori della vita sentimentale, nel vano tentativo di cancellare il ricordo di un’esperienza troppo pesante da portare nella memoria. Pur avendo creato intorno a se una sorta di vuoto e di ignoranza, Semprun sa che un giorno dovrà tornare con la memoria a quella esperienza cruciale e che ormai sembra caratterizzarlo. La realtà vissuta ha ormai cambiato profondamente non solo l’esistenza del detenuto, ma anche la sua visione del mondo, e ha risvegliato in lui la consapevolezza che la sua vita sia ormai caratterizzata da una realtà inimmaginabile, perchè nessuno può capire: «[s]on enracinement dans le néant, [s]on linceul dans le ciel, [s]a singularité mortifère.» (ÉV, 297)

3.2 LA TESTIMONIANZA CONTESTATA

Se Semprun si chiude nel silenzio e decide di non testimoniare, non è soltanto per un motivo personale; egli infatti si scontra con gli stessi problemi che hanno colpito, prima di lui, gli altri testimoni, vale a dire, con quelli della colpevolezza del sopravvissuto e dell’impossibilità di ascolto, già incontrati, nella nostra analisi, al punto 2.1. di questo studio. Tacere è per lui infatti anche l’unica risposta possibile

all’incapacità di ascolto da parte della società del dopoguerra. L’autore infatti dubita che l’opinione pubblica sia pronta a ricevere tali testimonianze, così come spiega ne

L’écriture ou la vie: « Leur publication [..] m’avait toujours paru prématurée. Je

parle des livres qui concernent immédiatement l’expérience des camps, bien entendu. » (ÉV, 299) L’autore si riferisce qui al fatto che Primo Levi, pur avendo scritto Se questo è un uomo, subito dopo la sua liberazione, non è riuscito inizialmente a trovare un editore disposto a pubblicare il suo libro. Pubblicato poi da una piccola casa editrice, quello che oggi è considerato un capolavoro della letteratura della guerra, riesce, se non dopo molti anni, ad avere presa sul pubblico e trovando così la riconoscenza che merita. Prematura quindi perché Semprun si rende conto che la realtà vissuta è così atroce che raccontare le sofferenze vissute crea una sorta di fastidio in chi ascolta. È quello che succede a Gérard ne Le grand voyage, il 13 aprile, due giorni dopo la liberazione, quando delle ragazze “inverosimili” arrivano con due auto, in uniforme blu con lo stemma Mission de France, a visitare il campo. Il narratore si limita a mostrare confidando che le immagini siano già eloquenti senza bisogno di parole. Ciò che vedono infatti diviene talmente esplicito che il narratore non ha bisogno di aggiungere commenti: le sale della tortura con tutti gli attrezzi, il montacarichi che trasferiva i detenuti della cava direttamente al primo piano davanti ai forni.

Elles me suivent et je leur montre la rangée des fours électriques, et les cadavres à moitié calcinés qui sont restés dans les fours. Je ne leur parle qu’à peine, je leur dis simplement : « Voici, voilà » Il faut qu’elles voient, qu’elles essaient d’imaginer. ( GV, 88 )

Questo commento minimalista, “Voici, voilà”, evolve e si trasforma in silenzio per lasciar parlare i fatti. Quando escono per andare a vedere l’ammasso di cadaveri, il narratore non dice più niente, perché quello di cui i morti hanno bisogno non sono le parole ma di uno sguardo puro e fraterno.

C’était idiot d’essayer de leur expliquer. Plus tard, dans un mois, dans quinze ans, je pourrai peut-être expliquer tout ceci à n’importe qui. Mais aujourd’hui, sous le soleil d’avril, parmi les êtres bruissants, ces morts horribles et fraternels n’ont pas besoin d’explication. Ils ont besoin d’un

regard pur et fraternel. Ils ont besoin que nous vivions, tout simplement, que nous vivions de toutes nos forces. ( GV, 89 )

L’episodio evidenzia l’atteggiamento reticente di molte persone davanti alle testimonianze in cui la descrizione dell’orrore. Si rende conto infatti che quando la morte appare nelle sue risposte chi ascolta diventa muto, si mura nel silenzio e diventa incapace di intendere; alla vista dei cadaveri infatti, le giovani ragazze fuggono. Lo stesso episodio è raccontato ne L’écriture ou la vie, quasi allo stesso modo, dove il silenzio che si installa è però maggiormente sottolineato: « Elles me suivaient, comme une masse de silence angoissé, soudain.» (ÉV, 132)

Ma il contenuto della testimonianza, ossia l’orrore vissuto, non è stato l’unico motivo che ha portato la società ha chiudersi in una sordità generale. Il giorno dopo la liberazione i superstiti comprendono che dopo la minaccia della morte devono affrontare il rifiuto di questa testimonianza che portano impressa sulla loro pelle: i sopravvissuti proprio perché tali non sono infatti i migliori narratori. Si genera allora il sentimento della colpa che vive il sopravvissuto, come abbiamo già precedentemente analizzato. La colpevolezza va infatti a colpire la credibilità della loro testimonianza e la figura del sopravvissuto appare così irrimediabilmente sciolta da quella di testimone. Ne nasce una contraddizione che, non solo crea un sentimento di frustrazione nel testimone, ma distrugge anche la possibilità di una testimonianza integrale e colpisce lo statuto dei racconti di quelli che sono tornati.

D’ où l’angoisse de ne pas être crédible, parce qu’on n’y est pas resté, précisément, parce qu’on a survécu. D’où le sentiment de culpabilité chez certains. De malaise, du moins. D’interrogation angoissée. Pourquoi moi, vivante, vivant, à la place d’un frère, d’une sœur, d’une famille tout entière, peut-être ? ( ÉV, 72 )

Semprun nonostante ripeta spesso di non essere portato per tale sentimento, e di non aver mai provato tale colpa, come abbiamo visto al punto 1.3.2., torna spesso sull’argomento, come ne Le mort qu’il faut, dove, come Levi prima di lui, si interroga sullo statuto del testimone, e riconosce che questo è costretto ad esibire una certa colpevolezza per essere creduto. È in questo contesto che l’autore afferma che i

veri testimoni dell’esperienza sono tutti morti, e che la testimonianza integrale può essere comunicata solo dai dispersi:

Il semble, en effet, et cela n’a pas cessé de me surprendre, qu’il faut afficher quelque honte, une conscience coupable, du moins, si l’on aspire à être témoin présentable, digne de foi. Un survivant digne de ce nom, méritant, qu’on puisse inviter aux colloques sur la question. Certes, le meilleur témoin, le seul vrai témoin, en réalité d’après les spécialistes, c’est celui qui n’a pas survécu, celui qui est allé jusqu’au bout de l’expérience, et qui en est mort. ( LMQF, 17 )

Questa consapevolezza, che porta Semprun a prendere le sue distanze, non solo dal ruolo di testimone, ma anche di quello di survivant, sarà alla base della sua decisione di non parlare più sull’esperienza, promettendosi di divenire un “futur combattant.” (GV, 97). Tale decisione si inserisce nell’episodio di Eisenach, in un hotel allestito come campo di rimpatrio, quando Gérard si rende conto che le testimonianze sono prese sul serio e devono scontrarsi con la reticenza della gente a capire. La serata si rivela un’amara sorpresa poiché il narratore capisce che essi sono solo una sorta di divertimento per gli ufficiali : «depaysés, mais très comme il faut, racontant nos petites histories à ces officiers français qui pelotaient des filles. Nos dérisoires souvenirs de crématoire et d’appels interminables sous la neige.» (GV, 21). Gli aggettivi « petites » e « dérisoires » mostrano come i sopravvissuti non siano presi sul serio. Il narratore si rende molto presto conto che i riscappati non sono che un divertimento accessorio a questa festa dove tutti è contento che la guerra sia finita e dove più nessuno vuole essere confrontato con quello che è veramente accaduto nel campo di concentramento; ce ne rendiamo conto quando l’ufficiale va a riprendere Martine, la ragazza con cui Gérard sta danzando:

« Alors, Martine?», dit une voix, près de nous, vers le milieu de la danse. C’est un officier français, en tenue de combat, avec un béret de commando sur le crâne. Il a un air de propriétaire et la jeune femme de la rue Scheffer s’arrête de danser. Je crois que je n’ai plus qu’à aller retrouver les copains et boire du cognac français. « Bonsoir, vieux », dit l’officier, pendant qu’il prend Martine par le bras. « Bonsoir, jeune homme », je lui réponds, très digne. Son sourcil gauche tressaute mais il ne réagit pas. « Tu viens du camp ? », dit-il. « Comme vous voyez », je lui réponds. « C’était dur, hein ? » fait l’officier au béret de commando, avec un air concentré. « Mais non », je lui dis, « c’était de la rigolade ». (GV, 102)

Questa è la peggior situazione in cui sono incappati. Passività dell’opinione pubblica davanti ai sopravvissuti, il narratore è talmente irritato per la mancanza di serietà che si dà alla testimonianza che risponde in forma di battuta di spirito all’ufficiale che gli domanda se è stato veramente duro. È senza dubbio il motivo per il quale Gérard getta la spugna e non si dedicherà più a produrre testimonianze serie.

3.3. SIGRID : LA PRESA DI COSCIENZA

Le figure femminili, come abbiamo sottolineato, hanno il compito di portare il narratore lontano dal ricordo dell’esperienza del Lager e riappacificarlo con il mondo. C’è, però, una donna che fa risvegliare in lui il ricordo del passato doloroso, portandolo a interrogarsi sul problema dell’accettabilità dell’oblio e forzandolo ad usare uno sguardo critico sulla testimonianza. La ragazza, che si chiama Sigrid, è una giovane modella tedesca che Gérard ha conosciuto nel quartiere dove vive. È essenziale sapere che Gérard incontra questa ragazza quando ha già dimenticato

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