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L’ORA DELLA TESTIMONIANZA, TRA IL

4.1 LA VOCAZIONE DI SCRITTORE

Vedere in Semprun un semplice riscappato dell’olocausto, che prende la penna per denunciare le atrocità ricevute, sarebbe riduttivo. Le sue opere, che sono nate sulle rovine del secolo, ne sono un chiaro esempio e, il loro valore narrativo e il loro spessore lirico, lasciano intravedere che la volontà dell’autore è ben altra, e che il desiderio di scrivere era già presente in lui. Rintracciare questa vocazione e il suo percorso verso la scrittura ci permetteranno di delineare la figura di un intellettuale, che non nasconde il desiderio di voler divenire uno scrittore: « Le seul projet qui donnait, à mes yeux, un sens à ma vie, celui d’être écrivain. Un projet qui avait, dès l’enfance, quasiment structuré mon identité la plus authentique.»1 Semprun ci fa sapere che questa relazione privilegiata con il linguaggio, il gusto per la letteratura prende forma nell’infanzia. Delineando la biografia dell’autore, è stato possibile apprendere, che egli cresce in un ambiente stimolante per la sua intelligenza vivace, dove regna una certa gioia comunicativa, e dove il padre si presenta come un importante punto di riferimento per i figli. José Marìa Semprun è un amante della poesia, soprattutto quella romantica, passione che ha trasmesso ai figli recitando loro i versi dei più grandi poeti spagnoli dell’epoca: lo scrittore romantico Gustavo Adolfo Bécquer, e Antonio Machado, voce importante della lirica spagnola del novecento, ma, soprattutto, la poesia di Rubén Dario, il più grande poeta nicaguarense di tutti i tempi. Semprun conserva un ricordo vivo di questi momenti perduti, episodi nostalgici della sua infanzia perduta: « J’adorais ces instants. J’appréciais plus ou moins tel ou tel poème, mais ces séances de lecture m’ont ouvert à tellement de choses!»2 Questi momenti, che lo iniziano ad una sensibilità poetica da cui non si separerà più, sono anche al centro dei giochi con i fratelli; giocando, infatti, col linguaggio e le immagini poetiche, egli si diverte a fare parodie dei componimenti, specialmente di Rubén Dario, la cui opera, come lui stesso

1

Dal discorso pronunciato a Francoforte il 9 ottobre del 1994.

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testimonia, ben si presta: « La grandiloquence sonore extraordinaire de Dario invite au jeu de la parodie.»1

Il padre, iniziatore discreto della sensibilità di Semprun alla letteratura, lascia la sua biblioteca aperta ai figli e dal 1935 vi trasferisce la stanza dei fratelli più grandi: luogo dove il bambino passa ore a sentire l’odore dei libri, e conosce nomi che ritroverà più tardi. L’odore dei libri e le copertine in cuoio lo affascinano e formano in lui una predilezione per la cultura: « [..] Jétais sorti de la guerre de mon enfance pour entrer dans la guerre de mon adolescence, avec une légère halte au milieu d’une montagne de livres. J’étais à l’aise devant n’importe quel livre, devant n’importe quelle théorie.» (GV, 103)

Sarà durante il soggiorno a La Haye, dove conosce Paludes di Gide, che egli scopre la lingua francese, e resta conquistato dalla prosa, così differente dalla barocca e ridondante lingua spagnola:

Cet été-là de mes quinze ans, en 1939, ce qui m’épatait vraiment, m’ouvrant des horizons nouveaux, c’était la prose de Gide. Paludes, plus précisément. Voilà une écriture qui n’avait rien à voir avec la complexité rauque et baroque du castillan. (ÉV, 190)

A Parigi egli conduce una vita da intellettuale: gli studi universitari, gli incontri e le discussioni appassionate nei café, nel cuore del Quartiere Latino, dove non era difficile incontrare Albert Camus sempre contornato da ragazze. Sono anni questi di grandi incontri e di nuove scoperte intellettuali, che Semprun non omette di esporre2:

Deux ans auparavant- toute une vie: plusieurs morts auparavant- une jeune fille m’avait donné à lire un roman de William Faulkner, Sartoris. Ma vie en avait été changée. Je veux dire, ma vie rêvée, encore bien improbable, d’écrivain.[..] c’était dans le Paris austère et fraternel de l’Occupation, dans un café de Saint-Germain-des-Prés. (LMQF, 98)

Ne L’écriture ou la vie torna a menzionare Sartoris, riconoscendo l’importanza, che esso, ha rivestito nella sua formazione: « Sartoris est l’un des romans qui m’a le

1

Cortanze, G. de, op. cit., p.34.

2

I riferimenti culturali all’interno dell’opera sempruniana sono numerosi , ma qui ci limiteremo ad evocare quelli che sono stati capitali per la sua formazione.

plus marqué.» (ÉV, 218). Nello stesso passo, il narratore cita, poi Absalon !

Absalon ! dello stesso autore e dietro il giudizio che ne fa sembra facile

riconoscerne l’influenza ricevuta e la ripresa del modello strutturale. La complessità dell’opera di Faulkner, costituita da un racconto costruito secondo un movimento all’indietro, verso il passato, sembra, infatti, adattarsi bene anche al testo sempruniano, organizzato dalla vertigine della memoria: « C’est la mémoire qui compte, qui gouverne l’obscurité foisonnante du récit, qui le fait avancer [..] » (ÉV, 218). Sempre all'interno di questa opera, egli evoca l’intero panorama letterario francese dell’epoca, con le figure degli intellettuali, amati e studiati da Semprun durante gli anni parigini, ci è presentato da Manuel all’uscita del campo nella conversazione con il giovane ufficiale francese, che gli darà l’esemplare del volume di poesie di René Char :

Albert Camus était l’homme du jour [..] André Malraux n’écrivait plus, semblait-il. Il aurait tourné au politique[..] Il y avait Sartre, bien sûr [..] il y avait Aragon [..] Jean Giraudoux était mort, je l’ignorais [..] (ÉV, 102-104)

In questo periodo, egli è pertanto un intellettuale, preso dal desiderio-repulsione di scrivere, uno scrittore potenziale, cui la Storia però ha consegnato le armi. Negli anni della guerra la militanza nella resistenza lo assorbe quasi a tempo pieno, ed egli si getta nell’avvenire dell’azione, dando addio alla vita da studente: « [..] adieu au chères études, adieu à Paris, adieu aux jeunes filles en fleurs.» (ÉV, 181)

Negli anni di prigionia, la letteratura e la poesia costituiranno una costante nella sua vita, quasi una necessità, un modo per strapparsi dall’angoscia della detenzione, un rifugiarsi nel mondo del linguaggio. Il giorno dopo la liberazione, all’impossibilità di scrivere, si unisce il bisogno di dimenticare per poter tornare a vivere. La difficoltà che vive e la dolorosa alternativa sono spiegate e confessate da Semprun ne L’écriture ou la vie nel corso della conversazione con Claude-Edmonde Magny. Dopo una notte insonne quello che si rifugia all’alba da lei, nella sua abitazione di

rue Schœlcher, è uno scrittore torturato, che sta cercando la sua via. Siamo infatti

nell’agosto del 1945, Semprun è tornato da pochi mesi, la voglia di dimenticare presto l’esperienza vissuta si scontra col suo desiderio di scrivere e farlo impossibile perché il ricordo che riemerge è ancora troppo vivido. Lui che non vuole una

semplice testimonianza non riesce a scrivere altro1, l’esperienza è troppo intensa e drammatica per poterla circoscrivere: « Il y a des obstacles de toute sorte à l’écriture. Purement littéraires, certains. Car je ne veux pas un simple témoignage [..] » (ÉV, 217). A tale difficoltà Claude-Edomnde Magny, risponde con la lettura di una lettera che aveva scritto due anni prima e che darà poi forma a Lettre sur le

pouvoir d’écrire, opera, che scrive e dedica a Semprun; essa è infatti a lui

indirizzata: « Mon cher Jorge, votre ami Juan prétendait aimer, jadis, ce qu’il appellait mes “homeliès”; et ce que vous m’écrivez, des scrupules qui vous sont venus récemment sur votre vocation littéraire me donne envie de vous en adresser une [..] ».2

Mais ce jour-là, début août , trois mois après mon retour de Buchenwald, Claude-Edmonde Magny avait décidé de me lire une longue lettre qu’elle avait écrite deux ans plus tôt, en 1943, à mon intention. J’en connaissais l’existence mais j’ignorais son contenu dans le détail. En 1947, elle publierait ce texte chez Pierre Seghers, dans une édition à tirage limité qui m’était dédiée, sous le titre Lettre sur le pouvoir d’écrire. (ÉV, 193)

Claude-Edmonde Magny esplora e va alla ricerca dei fondamenti dello stesso atto di scrivere, spesso atto "meprisé" dallo scrittore, che volge, spesso, la propria attenzione al risultato finale. Ma quello che risulta importante non è il poema compiuto, bensì l'esperienza interiore che lo ha generato. Ci vuole uno sforzo interiore quindi per giungere al potere di scrivere, via che si apre quando lo scrittore riesce ad approfondire la vita interiore, e quando riesce a distaccarsi da sé. Claude- Edmonde Magny tenta di proporre un’etica morale dello scrittore: la scrittura è un esercizio di perfezione morale che deve mirare alla purezza di cuore.3 In queste parole c’è il cammino che Semprun deve intraprendere per diventare uno scrittore.

Juste avant de m’accompagner à la porte, Claude-Edmonde Magny avait feuilleté une dernière fois les pages dactylographiées de sa Lettre sur le

pouvoir d’écrire. Elle avait trouvé la phrase qu’elle cherchait : « Je dirais

volentiers : Nul ne peut écrire s’il n’a le cœur pur, c’est-à-dire s’il n’est pas assez dépris de soi… » [..] Le sens était clair, dans ce contexte : l’écriture, si

1

« C’était impensable d’écrire n’importe quoi d’autre, lorsque j’abandonnais la tentative de rendre compte de l’expérience de Buchenwald », Intervista in Lire, novembre 1996.

2

Claude-Edmonde, Magny, Lettre sur le pouvoir d’écrire, Paris, Seghers, 1956, p.7.

3

elle prétend être davantage qu’un jeu, ou un enjeu, n’est qu’un long, interminable travail d’ascèse, une façon de se déprendre de soi en prenant sur soi: en devenant soi-même parce qu’on aura reconnu, mis au monde l’autre qu’on est toujours. (ÉV, 376-377)

Ma tale fase, termina, come abbiamo già evocato al punto 3.1., nella decisione di Ascona di interrompere il libro in corso e di rifugiarsi nella vita nell’azione politica per poter presto dimenticare. Semprun si allontana, così, da Claude-Edmonde Magny, si allontana dal suo desiderio, ormai inappagato, di divenir uno scrittore:

Sa Lettre sur le pouvoir d’écrire qui m’accompagnait partout, depuis 1947, même dans mes voyages clandestins, était le seul lien, énigmatique, fragile, avec celui que j’aurais voulu être, un écrivain. Avec moi-même, en somme, la part de moi la plus authentique bien que frustrée. (ÉV, 255-256)

Solo nel 1961, Semprun è pronto a riprendere il libro interrotto molti anni prima, e a Madrid inizia a scrivere Le grand voyage:

Des années plus tard, quand j’ai écrit Le grand voyage, à Madrid, dans un appartement clandestin de la rue Concepción-Bahamonde, je me suis souvenu de cette conversation avec Claude-Edmonde Magny. D’une certaine façon mon livre était une réponse à sa Lettre [..] Au moment où le pouvoir d’écrire m’était rendu, il était impensable que je ne me rappelle pas la Lettre qu’elle m’avait écrite, autrefois. [..] (ÉV, 226)

Il ricordo delle parole e dei consigli dell’amica, torna alla memoria di Semprun, nel momento in cui, acquistato il potere di scrivere, intraprende il suo cammino di scrittore, divenendo in pochi anni una voce conosciuta ed apprezzata nel panorama letterario contemporaneo.

4.2. LA CONQUISTA DEL POTERE DI SCRIVERE : LE GRAND VOYAGE

La redazione de Le grand voyage risale al 1961. Semprun è a Madrid, sono gli anni della clandestinità e della militanza nel partito comunista spagnolo. Dopo più di quindici anni, egli, riprende il libro che, molti anni prima, aveva dovuto abbandonare per sopravvivere. Il momento stesso della sua nascita e il suo incipit, sono riportati all’interno de L’écriture ou la vie, (ÉV, 312), in un passaggio in cui l’autore

ripercorre i motivi per cui nell’estate del 1945, a Ascona, si è visto costretto ad abbandonare ogni progetto di scrittura.

Nel 1961 il partito gli trova alloggio nell’appartamento in rue Concepcion-

Bahamonde, di proprietà di due militanti spagnoli Manuel e Maria A.. Durante un

periodo in cui gli arresti si erano fatti più intensi, Semprun decide di allontanarsi dalla vita madrilena, di “faire le mort pendant quelque temps”. In questo momento di reclusione forzata, egli trascorre più tempo con Manuel, il quale gli racconta la sua prigionia a Mauthausen. Semprun tace sulla sua deportazione a Buchenwald, ponendosi solo come un ascoltatore. Egli si rende conto che non si riconosce in quei racconti noiosi e confusi e si dice che chiunque lo avesse ascoltato, non avrebbe capito quello che veramente è l’esperienza del Lager.

Manuel A. était un survivant de ce camp. Un revenant, comme moi. Il me racontait sa vie à Mauthausen, le soir, après le dîner, à l’heure du petit verre d’alcool et du cigare des Canaries. Mais je ne reconnaissais rien, je ne m’y retrouvais pas. [..] je ne m’y retrouvais pourtant pas, dans les récits de Manuel A. C’était désordonné, confus, trop prolixe, ça s’embourbait dans les détails, il n’y avait aucune vision d’ensemble, tout était placé sous le même éclairage. C’était un témoignage à l’état brut, en somme : des images en vrac. Un déballage de faits, d’impressions, de commentaires oiseux. (ÉV, 309-310)

Dopo una settimana di pasti e racconti divisi con Manuel, Semprun sogna di nuovo la neve, elemento simbolico, che acquista un valore mortifero se accostata all’esperienza della prigionia. La mattina dopo egli si sveglia con una consapevolezza nuova :

Tout me semblait clair, désormais. Je savais comment écrire le livre que j’avais dû abandonner quinze ans auparavant. Plutôt : je savais que je pouvais l’écrire, désormais. [..] J’allais l’écrire pour moi-même, bien sûr, pour moi seul. Il n’était pas question de publier quoi que ce fût, en effet. Il était impensable de publier un livre tant que je serais un dirigeant clandestin du P.C.E. (ÉV, 312)

Sebbene la neve possa sembrare un richiamo all’ordine, una richiesta di testimonianza, Semprun a rischio di scioccare il lettore, non esita a dichiarare che il motivo per cui scrive Le grand voyage, non è la testimonianza, bensì la sfida che sta

alla base della scelta di rompere il silenzio, perché come ammette: «[..] je n’ai jamais écrit pour témoigner [..].»1 Egli ha infatti scritto il suo primo libro per migliorare i cupi racconti di Manuel Azaustre, in nome di coloro che non sanno esprimersi. Rifiutando di riconoscere lo statuto di testimonianza per la sua opera e affermando di scrivere per “[s]oi-même”, è in questo senso che l’autore respinge una vocazione di testimonianza, e afferma che non è un testimone perché ha piegato la testimonianza attraverso i procedimenti narrativi.2 Anche in Quel beau dimanche!, Semprun sostiene questa sua decisione, dicendo che non ha intenzione di parlare in nome dei morti, e che « [..] rien ne [l] ’autorisera jamais à parler au nom des morts [..] » (QBD, 244). Solo una volta, almeno per quanto riguarda il periodo successivo alla liberazione, in cui ha deciso di dimenticare, egli si assume questo ruolo, parlando per colmare un silenzio e perché, come spiega: « Peut-être parce que les revenants doivent parler à la place des disparus parfois, les rescapés à la place des naufragés [..] ». Il narratore, infatti, racconta la sua esperienza di Buchenwald, a Jeanine, la fidanzata di Yann Dessou, internato a Neuengamme e non ancora tornato. Semprun parlerà una sola volta, perchè nessuno gli ha chiesto di farlo, parlerà per dare voce a chi non può, a chi non è ancora tornato, in nome di un’idea di solidarietà e fratellanza. Ed allora il risultato non sarà deludente, perché Yann è alla fine tornato. Questo passaggio non si presenta come una testimonianza abituale che rivela un documento, c’è tutta l’emozione del deportato:

[..] j’ai parlé pour la première et dernière fois, du moins pour ce qui est des seize années suivantes. Du moins avec une telle précision dans le détail. J'ai parlé jusqu'à l'aube, jusqu'à ce que ma voix devienne rauque et se brise, jusqu'à en perdre la voix. J’ai raconté le désespoir dans ses grandes lignes, la mort dans son moindre détour [..] sans doute faut-il parfois parler au nom des naufragés. Parler en leur nom, dans leur silence, pour leur rendre la parole. (ÉV, 182-183)

Solo col tempo, mantenendo comunque una certa reticenza di base, Semprun si convince della necessità di dare testimonianza, di dare qualche riferimento a coloro che non hanno vissuto l’esperienza e che vogliono sapere. Questa nuova consapevolezza appare in Se taire est impossibile, dove è raccolto il dialogo tra

1

G. de Cortanze, « Entretien avec Jorge Semprun », in Le magazine littéraire, n. 438, janvier 2005, p. 45.

2

Semprun e Elie Wiesel, avvenuto nel 1995, in occasione del cinquantenario della liberazione dei campi di sterminio e concentrazione, nell’ambito della trasmissione

Entretien, su ARTE. In questo contesto, i due sopravvissuti al regime nazista, si

interrogano sullo statuto di testimone in un periodo in cui i testimoni diretti stanno man mano sparendo e arrivano alla conclusione della necessità di dare il proprio contributo alla testimonianza, poiché, c’è l’urgenza di dire parlare per la memoria collettiva, prima che la parola sia definitivamente data agli storici e ai romanzieri. Sia Semprun che Wiesel, se da un lato confessano di partecipare a questo genere di commemorazione col cuore stretto e di vestire controvoglia gli abiti del testimone, dall’altro riconoscono che parlare è utile alla nuova generazione, che a differenza della precedenti, si dimostra molto più disponibile all’ascolto. È per soddisfare il loro desiderio di conoscere degli altri che hanno vinto la loro repulsione a parlare. L’umore tragico del loro dialogo si chiude con la speranza, dichiarata all’unisono, di non essere l’ultimo testimone.

4.3. IL CATTIVO TESTIMONE : LA RIVENDICAZIONE DELL’ARTE

Semprun pur avendo scritto molti anni dopo, non sembra essere sfuggito al diverbio sulla questione letteraria che interessò il periodo immediatamente successivo alla guerra; i suoi libri sono infatti una continua interrogazione sul come raccontare. La prima apparizione di questi interrogativi è in Quel beau dimanche!, dove il ricordo dei racconti confusi di Manolo Azaustre e Ferdinand Barizon della loro detenzione rispettivamente a Mauthausen

e Buchenwald, portano l’autore a riflettere sulla difficoltà che s’incontrano a parlare di tale esperienza; difficoltà che lui stesso risente :

A-t-on vraiment vécu quelque chose dont on n’arrive pas à faire le récit, à reconstruire significativement la vérité même minime – en la rendant ainsi communicable ? vivre vraiment, n’est-ce pas transformer en conscience – c’est-à-dire en vécu mémorisé, en même temps susceptible de devenir projet – une expérience personnelle ? mais peut-on prendre en charge quelque expérience que ce soit sans en maîtriser plus ou moins le langage ? [..] Pour en revenir aux récits brouillons de Manolo Azaustre et de Ferdinand

Barizon, la vie des camps n’est pas facile à raconter. Moi non plus, je ne sais comment m’en sortir. Moi aussi je m’embrouille. Qu’est-ce que je raconte, à vrai dire ? (QBD, 71-72)

Ma è ne L’écriture ou la vie, che l’autore torna a parlare di nuovo, e in modo più esauriente sulla forma da dare alla testimonianza. Manuel, all’uscita del campo, si chiede: « Mais peut-on racconter? Le pourra-t-on ?» Il limite non concerne un difetto della memoria il giorno dopo la liberazione la memoria è fresca e non c’è bisogno di alcuno sforzo per ricostruire i fatti. E non si tratta neanche di un problema di mezzi, in quanto il linguaggio permette di parlare di tutto ed in un passaggio, dove chiarisce le sue grandi possibilità, sembra darne un esempio concreto:

On peut toujours tout dire, en somme. L’ineffable dont on nous rebattra les oreilles n’est qu’alibi. Ou signe de paresse. On peut toujours tout dire, le langage contient tout. On peut dire l’amour le plus fou, la plus terrible cruauté. On peut nommer le mal, son goût de pavot, ses bonheurs délétères. On peut dire Dieu et ce n’est pas peu dire. On peut dire la rose et la rosée, l’espace d’un matin. On peut dire la tendresse, l’océan tutélaire de la bonté. On peut dire l’avenir, les poètes s’y aventurent les yeux fermés, la bouche

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