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La Conferenza di Parigi e il Trattato di Pace

Cap II La questione di Trieste II 1 L’esodo e il contro esodo

II. 2. La Conferenza di Parigi e il Trattato di Pace

Nella primavera del 1946 la questione del trattato di pace era stata inevitabilmente messa in sordina dal referendum istituzionale e dalle elezioni per l’Assemblea costituente del 2 giugno. A partire dall’estate, e per tutto l’anno, catturò invece l’attenzione dell’opinione pubblica e del nuovo governo De Gasperi. Divenne un tema sui cui i partiti politici mostravano posizioni differenti.

I quotidiani erano il riflesso dell’opinione pubblica. La pace era il “problema dei problemi”35. Si rimproverava a De Gasperi di essere troppo cedevole su tutto. Si sospettava che il trattato sarebbe stato un Diktat, come quello imposto alla Germania nel 1919 a Versailles. Il 23 luglio, l’agenzia Reuter confermò i timori sul carattere punitivo del trattato italiano, il paragone con la Germania divenne un Leitmotiv. A ben guardare l’Italia era stata trattata un po' meglio. Era stata ammessa a difendere la propria tesi sul confine orientale: quattro volte fu invitata a parlare al Consiglio dei ministri, insieme alla Jugoslavia. Per il confine settentrionale l’Italia e l’Austria entrambe presentarono un memorandum ed erano state sentite dal Consiglio dei sostituti. Il governo poté esporre le proprie argomentazioni sul confine franco- italiano, sulle riparazioni e i danni di guerra, sulle questioni militari. Commissioni speciali furono incaricate di indagini a hoc sui confini occidentali e orientali. Le occasioni per argomentare le proprie tesi italiane furono limitate e senza diritto di

34E.MILETTO, la speranza e l’illusione, Il mulino, Bologna, pp. 76-78

replica, e le richieste non tenute in nessun conto dai negoziatori. Le speranze per una “pace giusta” furono deluse presto. In verità l’Italia non aveva voce in capitolo. De Gasperi se ne era già reso conto. Comunque il presidente del consiglio e ministro degli esteri curò nei particolari la partecipazione italiana, rendendo la delegazione sempre pronta a intervenire. Si sapeva che gli sconfitti potevano essere invitati a presentare le proprie ragioni, che avrebbero avuto piena libertà di movimento e accesso alle delegazioni dei vincitori. Non tutti ne approfittarono, l’Italia ne approfittò eccome, organizzando un calendario molto fitto di incontri e colloqui.

La rappresentanza a Parigi era nutrita e di massimo livello. Ad affiancare36 il presidente del Consiglio ci fu Bonomi, presidente della commissione dei trattati dell’Assemblea costituente, e Saragat, presidente della Costituente. Altri importanti consiglieri erano Antonio Meli Lupi di Soragna, Quirino, Carandini, Tarchiani, Martini, Reale, Arpesani e Benzoni. Numerosi erano i consiglieri militari, Facchinetti, Trezzani, Cadorna, De Courten, Ajmone Cat, e quelli economici fra cui Corbino, Ivan Matteo Lombardo, Di Nola, Ezio Vanoni e Guido Carli, Donato Menichella per la Banca d’Italia, Vittorio Valletta per la FIAT. Infine consulenti giuridici come il repubblicano Tomaso Perassi, Cerulli per le colonie, Giuseppe Brusasca per i confini occidentali, Giuseppe Bettiol per quelli orientali. Un numero di addetti e funzioni di segreteria e di pubbliche relazioni, fra cui Cavalletti, Cattani e il segretario particolare di De Gasperi, Canali. De Gasperi osservava come il paese fosse in ansia per il destino della frontiera orientale, in particolare il mantenimento di Trieste. Per l’opinione pubblica era imprescindibile. Il governo si impegnava a ottenete un “ minimo”: Gorizia, Trieste e l’Istria occidentale e meridionale, promettendo in cambio alla Jugoslavia l’accesso al porto di Trieste. L’Italia non si sarebbe certo rassegnata a cedere alla Francia Briga, Tenda e il Moncenisio. Né tanto meno poteva accettare la rinuncia della sovranità sulle colonie. Quanto all’Alto Adige, l’Austria aveva avuto sufficienti assicurazioni che la regione sarebbe diventata un ponte fra le due nazioni, luogo di comunicazione e scambio in cui la popolazione di lingua tedesca avrebbe potuto conservare il proprio carattere nazionale e i propri costumi. Su un altro punto non c’era alcun dubbio: l’Italia aveva il diritto morale di vedere confermato il possesso della flotta. Accettava al massimo riduzioni attraverso negoziati diretti. Sulle questioni economiche la posizione era ancora più adamantina: “l’Italia non deve e non può pagare”. Davanti all’apprensione dell’Assemblea costituente, De Gasperi parve rassicurante nonostante l’assoluto segreto dei suoi incontri fra i ministri degli esteri. Il 27 luglio egli riferì a lungo con la commissione dei trattati, corredando la propria esposizione dii excursus storici e cartine per illustrare la linea di difesa delle posizioni italiane. Intanto, per il 29 luglio in Italia era previsto uno sciopero contro le disposizioni della bozza di trattato.

La conferenza che avrebbe aperto i battenti il 29 luglio 1946 al Palais de Luxembourg37 a Parigi, era anche un evento mondano, preparato con cura e seguito febbrilmente della stampa. Molte questioni erano ancora aperte e questo dava all’avvenimento molta importanza a livello mondiale. Passò in secondo piano la chiusura delle udienze del processo di Norimberga. In esplicito contrasto con la Versailles del 1919, questa volta a Parigi, lo sfarzo era ufficialmente bandito. Ma solo in teoria, perché l’occasione restava delle più solenni. Alla conferenza38 avrebbero partecipato ben 1.500 delegati, in rappresentanza dei vincitori. I russi avevano fatto le cose in grande: erano in trecento. Gli americani, cento in meno. La Jugoslavia aveva portato ben 170 delegati, la Cecoslovacchia solo sessanta. Partecipava ai lavori anche il nuovo segretario generale dell’ONU, Trygve Lie. Parigi era piena di gente. Alcune delegazioni faticarono a trovare una sistemazione.

36S. LORENZINI, l’Italia e il trattato di pace del 1947, Il mulino, Bologna, pp. 63 - 65 37S. LORENZINI, l’Italia e il trattato di pace del 1947, Il mulino, Bologna, pp. 65 - 67 38M. CATTARUZZA, l’Italia e il confine orientale, Il mulino, Bologna, pp. 305-306

Quasi tutti erano arrivati a ridosso della conferenza, il 28 luglio. C’erano anche delegazioni provenienti dai paesi sconfitti, moltissimi giornalisti, fotografi e cineoperatori.

L’inaugurazione fu spettacolare. La sala del Senato, destinata alle sedute plenarie, era sovraccarica di ornamenti e oro, con sedie color rosso porpora e palchi di velluto. All’ingresso quattro guardie repubblicane in alta uniforme napoleonica salutavano sfoderando la sciabola. C’erano sorvegliati a tutte le porte, che controllavano le tessere d’ingresso. Il gran caldo favoriva il silenzio, interrotto dai flash dei fotografi che si intrufolavano dappertutto. I delegati di rango inferiore vennero fatti accomodati per primi. Ogni delegazione aveva 15 posti a disposizione e venivano riempiti tutti, erano poche le sedie vuote. Alle quattro del pomeriggio, interrompendo il brusio e le cordiali strette di mano fra diplomatici, comparvero i pezzi grossi, salendo dal retro del palco e attraversandolo. Per primi, entrarono Molotov e Višinskij, poi fu il turno di Byrnes, infine i britannici guidati da Attlee. Per l’ultimo, entrò il presidente Bidault, che dichiarò aperta la conferenza.

I discorsi di apertura dei capi delegazione nell’assemblea plenaria furono concilianti. Nella prima seduta Molotov era assente. Parlarono americani, inglesi, cinesi. Byrnes ricordò che dopo la prima guerra mondiale le divergenze tra le nazioni avevano indebolito la volontà di collaborare per mantenere la pace. Questa volta, bisognava garantire meglio che le soluzioni fossero accettabili. Gli Stati Uniti si impegnavano ad appoggiare le risoluzioni votate dai due terzi dell’assemblea. Non si voleva una pace di vendetta. Il cinese Wang Shin Chien chiese che non si imponessero dure condizioni agli sconfitti. La Gran Bretagna non aveva obiettivi particolari e intendeva soltanto impegnarsi per eliminare le frizioni. Nei giorni successivi fu il turno di Molotov che concordò con Byrnes39, e di Kardelj che lamentò eccessiva indulgenza per l’Italia e rivendicò altre zone etnicamente slave per cui la Jugoslavia aveva versato tanto sangue. Il 3 agosto parlò l’Etiopia. Chiese l’amministrazione dell’Eritrea e auspicò che prima di fare scontri all’Italia almeno ci si assicurasse che si fosse pentita dei crimini commessi.

Gli italiani avevano poco di che stare tranquilli, e la situazione non migliorò con il prosieguo dei lavori. Risultava evidente che il clima era ormai cambiato. Presto divenne chiaro che la conferenza non sarebbe stata solo lunga ma anche combattuta. Le prime discussioni riguardarono, immancabilmente, la procedura. I sovietici avevano proposto che l’assemblea si riunisse in seduta plenaria solo per l’apertura e la chiusura, mentre il vero lavoro così sarebbe svolto all’interno di cinque commissioni, una per paese, composta solo da quegli stati che avevano attivamente dichiarato guerra. Così facendo però molti stati non avrebbero partecipato a nessuna commissione. Rappezzata la questione delle commissioni con un compromesso, restò il problema delle maggioranze di voto e del valore che avrebbero dovuto avere le decisioni della conferenza. Il 7 agosto vi fu un primo scontro fra Byrnes e Molotov, definito dalla stampa «drammatico duello». Era il primo di una serie di litigi. Un giornale satirico di Parigi commentò: i grandi sono venuti per fare la pace fra loro e non con i nemici. Per evitare che la situazione diventasse troppo tesa, si decise che tutte le raccomandazioni, anche senza maggioranza, sarebbero state vagliate dal Consiglio dei Quattro. L’Unione Sovietica e i suoi alleati adottarono da subito un atteggiamento ostruzionistico, presentando osservazioni e relazioni minuziose su tutti i punti controversi, tanto da esasperare gli americani. Tutti coloro che non condividevano le posizioni sovietiche venivano accusati di voler neutralizzare il dialogo e di cercare lo scontro. Sembrava che alcuni punti controversi sarebbero rimasti insoluti fino alla fine dei lavori. Il segretario di stato americano, criticato in patria per la sua apparente arrendevolezza nei confronti delle tesi sovietiche, intendeva usare la conferenza come un vero palcoscenico. Voleva dimostrare che gli Stati Uniti promuovevano una pace democratica e condivisa, mentre L’Unione Sovietica aveva un atteggiamento

punitivo e si comportava come una grande potenza tradizionale. I quattro si erano anzi impegnati a difendere solidali i risultati di compromesso raggiunti. Così questioni come confini e la rinuncia alle colonie da parte italiana non potevano essere toccate, mentre alcune proposte furono accettate su temi pur importanti ma secondari, come, la libertà di navigazione sul Danubio, lo statuto di Trieste e numerose questioni economiche e legali.

Il progetto di trattato fu consegnato all’Italia ufficialmente proprio il 29 luglio. Ricevuta la bozza40, restava, effettivamente poco spazio per la speranza. Il governo italiano non poté nascondere la propria insoddisfazione di fronte a un trattato «puramente punitivo e tale che se non modificato si ritiene inaccettabile». La reazione, nella commissione esteri dell’Assemblea costituente e nel Consiglio dei ministri, fu di profonda indignazione. Il paese aveva subito mutilazioni territoriali peggiori rispetto alle attese, era obbligato alla smilitarizzazione unilaterale delle frontiere. La flotta era divenuta bottino dei vincitori. Le clausole economiche erano gravissime. Imponevano il pagamento di riparazioni e nel contempo privavano l’Italia dei mezzi con cui pagarle: erano confiscati i beni italiani all’estero né si prevedeva la possibilità di recuperare investimenti e crediti, nemmeno quelli verso la Germania. Il 3 agosto al ministero degli esteri si svolse una riunione presieduta da Bonomi per discutere le clausole della pace. Il ministro del tesoro Epicarmo Corbino notava che, se applicato alla lettera, il trattato avrebbe condotto a un disastro economico: privata dei beni all’estero, l’Italia non sarebbe riuscita a pagare le riparazioni. Così il primo documento da predisporre doveva essere una dichiarazione sulle questioni economiche. Frattanto era opportuno prepararsi a discutere i singoli punti nelle commissioni. Quanto ai confini, De Gasperi sulla frontiera settentrionale chiese se il sacrificio del Brennero potesse garantire rettifiche a favore dell’Italia altrove. Trezzani, capo di stato maggiore dell’esercito aveva dubbi sull’intaccare il principio geografico. Si rischia a un confine indifendibile. De Courten commentò le gravi disposizioni relative alla flotta. Osservava De Gasperi, era grave che la flotta fosse dichiarata bottino di guerra; ma in fondo, l’Italia aveva firmato la resa senza condizioni. La seduta fu interrotta in fretta e furia perché nel frattempo era giunta la notizia che l’Italia sarebbe stata invitata a esporre il proprio punto di vista. De Gasperi partì preoccupato, nonostante le raccomandazioni del collega socialista che gli consigliava di non eccedere in pessimismo. All’aeroporto dichiarò alla stampa che la sua posizione era era «per quattro quinti quella di imputato come responsabile di una guerra che non [aveva] fatto e che il popolo non [aveva] voluto, per un quinto quella di cobelligerante». L’Italia, come gli altri paesi ex nemici, non era naturalmente ammessa a proporre o a votare emendamenti. Poteva solo presentare punti di vista e osservazioni. Intanto l’opinione pubblica era in subbuglio. Il problema della pace da ormai un mese teneva banco nel pubblico interesse e nell’attività del governo rispetto a qualsiasi altro problema. I circoli giuliani erano in fibrillazione e chiedevano di partecipare alla conferenza per dire la loro. Anche la finanza e l’industria volevano inviare propri rappresentanti.

Il 7 agosto la delegazione si riunì a Parigi per preparare il discorso che De Gasperi sarebbe stato chiamato a tenere di fronte all’assemblea plenaria. Era necessario tentare il tutto per tutto per cercare di modificare una bozza di trattato che, come aveva suggerito con la giusta enfasi pochi giorni prima il ministro della difesa Cipriano Facchinetti, segnava “la fine del nostro Risorgimento”. La proposta vincente, che era una vera e propria sfida intellettuale, fu quella lanciata da De Gasperi e dai “grandi ambasciatori” (Carandini, Tarchiani, Saragat, Quaroni): bisognava portare la discussione su un piano ideologico più elevato, evitare le cadute nelle recriminazioni nazionalista e dimostrare che l’Italia democratica era una garanzia di pace. Per molto però, anche fra i membri della delegazione, il trattato era un “vero e proprio delitto”. Se non si potevano ottenere modifiche significative, dichiaravano, non si sarebbe dovuto firmare. De Gasperi era dubbioso e cercava di distinguere fra l’atto della firma e l’accettazione morale41. Occorreva fare proposte costruttive e dichiarare che rinunce ulteriori non erano assolutamente ammissibili per gli italiani. Concretamente si decise

di affrontare la questione giuliana sul piano etnico-economico, senza scordare di menzionare il pericolo di revanche in caso di attribuzione alla Jugoslavia. Il memorandum al riguardo era già pronto: fu consegnato il giorno successivo.

Frattanto si rincorrevano le voci sull’invito dell’Italia. C’era grande tensione e una certa frenesia fra i componenti della delegazione. Per impiegare il tempo e preparare il terreno in attesa del gran giorno si susseguirono gli incontri con i rappresentanti degli Stati medi. Il Brasile e l’Australia innanzi tutti. Il discorso era già stato discusso in lungo e largo. Sull’impianto generale c’era un accordo unanime. Saragat insisteva sulla necessità di puntare di più sulla lotta antifascista. Il grosso nodo restava la questione di Trieste. De Gasperi, con l’occhio all’opinione pubblica italiana, rifiutò di passarla sotto silenzio. Forse si poteva proporre di rimandare la decisione come già era avvenuto per le colonie, dimostrando che lo stato libero, così com’era concepito, non poteva funzionare. Restava poco tempo per scegliere la strategia migliore. Finalmente, il 9 agosto 1946 alle ventuno arrivò l’invito ufficiale a esporre il punto di vista italiano. L’appuntamento era per il giorno successivo alle ore sedici. Mezz’ora prima della seduta, la sala era ancora vuota. Oltre ai giornalisti appostati nel loggiati, c’erano solo gli uscieri che sistemavano i microfoni e disponevano nelle ultime file di poltrone tre nuovi cartelli con l’indicazione “Italy”.

La sala si riempì lentamente. Fra i primi arrivarono i cinesi. Alle 16 età quasi piena. I grandi arrivarono per ultimi, come le vere star. Mancava solo la delegazione italiana, 14 poltrone. La seduta si apri alle 16.10. Il cerimoniale prevedeva che le delegazioni ospito fossero accompagnate dal segretario Jacques Fouques- Duparc. Andò a prendere la delegazione italiana che entrava dal fondo. De Gasperi, in nero, restò per alcuni secondi fermo sulla soglia con aria seria, quasi accigliata. Bidault annunciò l’intervento italiano. De Gasperi avanzò lentamente percorrendo il corridoio centrale verso il palco degli oratori. Cominciò a parlare in italiano, pallido, con tono deciso ma che rivelava l’emozione del momento.

De Gasperi rivendicò il diritto di parlare come democratico antifascista, come rappresentante della nuova repubblica, portatrice dei valori dell’umanesimo mazziniano, di quello cattolico e dell’internazionalismo socialista insieme. Prendendo progressivamente animo, toccò tutti i punti di delusione dell’Italia e scese nel dettaglio, scorrendo l’iter delle trattative su Trieste, approdando infine alla richiesta di rinvio. Il discorso, cominciato in maniera convincente perdeva poi nel prosieguo un po' di smalto. Trasmetteva bene l’ansia, il dolore e l’angosciosa preoccupazione degli italiani per le conseguenze del trattato. Così minuzioso, era un discorso da commissione, non da assemblea plenaria. Faceva la cronaca di una sconfitta annunciata. Si sentiva troppo poco antifascismo e forse troppo nazionalismo. E infatti le repliche dei paesi socialisti non mancarono di farlo notare. La presentazione delle tesi italiane durò quaranta minuti. Era stata seguita con grande attenzione. Lo jugoslavo Kardelj aveva preso appunti tutto il tempo. Alla fine, calò il silenzio. Sceso dal palco, De Gasperi si allontanò camminando lungo il corridoio centrale, nel silenzio, senza che fra i tanti presenti che lo conoscevano anche bene qualcuno gli rivolgesse la parola. Byrnes si alzò e gli strinse la mano. Tornato al posto, De Gasperi ricevette le strette di mano di Bonomi e Saragat. Durante le traduzioni, mentre la delegazione italiana se ne stava immobile, molti delegati uscirono. Alcuni passando si fermarono a salutare. Prima che, finite le traduzioni, la delegazione italiana fosse condotta nuovamente fuori, Bidault assicurò che alla relazione sarebbe stata data tutta l’attenzione che meritava. Dopo De Gasperi parlò Kardelj, che subito lo attaccò. Definendo la politica italiana continuativa delle politiche fasciste di Mussolini, un governo nazionalista che sfruttava gli antifascisti italiani per avvalorare le proprie richieste42.

41S. LORENZINI, l’Italia e il trattato di pace del 1947, Il mulino, Bologna, pp. 73-75 42S. LORENZINI, l’Italia e il trattato di pace del 1947, Il mulino, Bologna, pp. 76-78

Il discorso italiano suscitò reazioni differenziate. Il ministero degli esteri ne raccolse i ritagli di stampa. Secondo alcuni commentatori De Gasperi era stato abile; secondo altri non poteva fare diversamente. In Italia le reazioni furono pacate. La stampa anglosassone fece buona accoglienza al discorso, e offrì ampi spazi per diffondere il punto di vista italiano. De Gasperi, dopo l’apparizione alla conferenza, cercò di verificare se le sue parole avessero smosso la situazione . Byrnes, nell’incontro la sera del 10 agosto aveva affermato di non poter fare grandi cose. Aveva aggiunto che la Russia mirava soltanto a differire le questioni sull’Italia e sulla Germania per continuare a occupare l’Europa orientale. Anche Neves da Fontoura e Fernández, della delegazione brasiliana, osservavano che i sovietici volevano tirare per le lunghe, mentre gli americani volevano concludere presto per affrettare il ritiro di tutte le truppe e contenere così l’influenza russa nei Balcani. Insomma, i grandi erano poco concentrati sul caso italiano. De Gasperi convocò una riunione della delegazione per fare il punto sui risultati raggiunti dopo il discorso all’assemblea plenaria. Insistette sull’atteggiamento “fermo ma conciliativo” e sulla richiesta del rinvio per i confini orientali. Se si torna con un trattato senza Pola, affermava, la Costituente non lo firma. A questo si aggiungeva il pericolo di insurrezioni popolari e di una nuova occupazione militare dell’Italia da parte alleata. Fatto il punto sulla situazione, nonna mancava che distribuire i ruoli. Delle questioni economiche furono incaricati Tarchiani e Menichella, dei rapporti con l’Europa orientale Quaroni e Reale, dell’America Latina Martini. Furono poi creati due comitati. L’uno, guidato da Saragat, doveva fare il punto sulle questioni relative alla frontiera occidentale. L’altro, guidato da Bonomi, si sarebbe occupato dei confini ad est. Quanto a come procedere in merito a quest’ultima questione, si decise la difesa a oltranza di Pola, chiedendo che i delegati italiani fossero sentiti in commissione. De Gasperi era netto Pola o niente. Reale insisteva sulla necessità di accordi diretti.