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Questione di Trieste nel dopoguerra 1943-1954

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Questione di Trieste nel dopoguerra

1943 – 1954

Abstract

La presente tesi si propone di fornire uno sguardo su una specifica vicenda della storia d’Italia, la

cosiddetta questione triestina, legata sia alla Seconda guerra mondiale, sia alla nascente Guerra

Fredda. Trieste fu occupata due volte e due volte liberata, fu al centro di un rapporto complicato tra

due importanti partiti comunisti, quello italiano, il PCI, e quello jugoslavo, il KPJ, e un’area di

attrito tra due nazionalismi, quello italiano e slavo, che si contendevano l’intera regione di confine.

Il periodo temporale durante il quale si intrecciarono questi avvenimenti è tra il 1943 e il 1954,

dodici anni costellati da minacce di conflitto armato, manifestazioni represse con il sangue, cambi

di alleanze e lavoro diplomatico per raggiungere un accordo duraturo.

L’approccio nel seguente lavoro che mi propongo a illustrare, è di un ampia panoramica degli

avvenimenti, delle cause, e delle motivazioni. Far conoscere a chi legge come Trieste e la regione

circostante fu molto importante geopoliticamente, e fosse baricentro di un fragile equilibrio che si

stava creando in Europa.

In questo lavoro – oltre a fare ricorso alla storiografia esistente in materia - ricostruirò tali

avvenimenti attraverso la stampa italiana, mettendo in luce come due quotidiani di idee politiche

alternative, «l’Unità», «Il Popolo d’Italia e il «Corriere della Sera», presentarono a questione di

Trieste in maniera profondamente diversa.

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Indice

Introduzione

Capitolo I – Il confine orientale dall’armistizio alla fine della guerra

I.1. Dall’8 settembre 1943 alla fine della guerra

I.2. Occupazione o liberazione? I 48 giorni della presenza militare jugoslava

Capitolo II – La questione di Trieste

II.1. Esodo e controesodo

II.2. La Conferenza di Parigi e il Trattato di Pace

II.3. Il Territorio Libero di Trieste

II.4. Il Governo militare alleato

Capitolo III – Il Memorandum di Londra

III.1. Il memorandum e le sue conseguenze

III.2. La situazione di Trieste dal TLT al Memorandum di Londra nella stampa

italiana

Conclusioni

Appendice documentaria

Bibliografia

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Cap. I. Il confine orientale dall’armistizio alla fine

della guerra

I.1. Dall’8 settembre 1943 alla fine della guerra

A seguito della firma dell’armistizio a Cassibile il 3 settembre1, l’Italia si presentava in condizioni disastrose; la fuga precipitosa del Re e dei vertici militari da Roma a Brindisi avevano mandato allo sbandamento l’esercito, il paese era in preda al caos e alla violenza e si temeva che fosse giunta alla sua disgregazione come nazione e alla perdita di ogni autorità. Lo Stato era letteralmente spaccato a metà, la popolazione dopo tre anni di conflitto era stremata, impaurita e abbandonata alla mercé delle forze occupanti e degli sbandati che approfittarono del caos generale.

Il Centro-Nord dopo l’annuncio dell’armistizio fu subito occupato dalle forze tedesche, le quali crearono la Repubblica Sociale Italiana, insediando un governo fantoccio a Salò. Successivamente liberarono Mussolini che era stato fatto prigioniero su ordine di Pietro Badoglio, e lo misero a capo del suddetto governo. Ben presto si comprese che il prezzo era la totale sottomissione a Hitler; una parte del territorio fu subito annessa al Reich e separato dalla RSI, la Zona di Operazione Prealpi (

Operationszone Alpenvorland)

affidato al Supremo Commissario/

Gauleiter del Tirolo

Franz Hofer e la Zona di Operazione Litorale Adriatico

(Operationszone

Adriatisches

Küstenland), alle dirette dipendenze del Supremo

Commissario/Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer.

Diverso e complesso lo scenario al Sud. Le forze Alleate occuparono e amministrarono il meridione, mentre Re Vittorio Emanuele III e Badoglio come capo di governo guidavano un territorio grande quanto la Puglia. Si creò, così, una convivenza non proprio chiara, spiegabile dal fatto che formalmente l’Italia per gli Alleati era ancora una nemica e il governo ‘’Badoglio’’ rappresentava il vecchio sistema. Il Regno del Sud non era visto come un “quasi alleato”, e lo si evince dal cosiddetto “Armistizio Lungo” firmato da Badoglio sulla corazzata Nelson il 29 settembre 1943, ma era piuttosto una sorta di “Pace cartaginese” che spazzava via ogni illusione di una possibile volontà di trattare il regno del sud come un alleato. Al di là della durezza, il documento fu percepito dal governo Badoglio come un chiaro segnale di riconoscimento di unica autorità politica legittima per l’Italia. A tal proposito gli Alleati crearono la formula della cobelligeranza per superare l’ostacolo, un’alleanza di fatto che consentiva al Regno del Sud di combattere i tedeschi, ma che non pregiudicava le clausole della resa e non modificava lo status di paese nemico. Il trattamento dell’Italia ai tavoli di pace era subordinato al suo impegno contro il Reich. Superata questa questione per Badoglio e per il Re se ne aprirono ben due più importanti : il riconoscimento interno ed esterno. Internamente, il governo e

1 G. Mammarella P. Cacace, La politica estera dell’Italia, Laterza, 2010, pp. 131 – 134 M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 239 – 240

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la monarchia erano osteggiati come autorità da un nuovo organismo politico nato a gennaio del 1944 a Bari, il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Esso era formato da tutti i partiti antifascisti, e nel primo congresso richiesero la sospensione dei poteri regi e la formazione di un governo provvisorio politicamente rappresentativo. La parola d’ordine del comitato era di respingere ogni forma di collaborazione. Per la politica estera, di “Cavouriana memoria”, il governo italiano aveva ha sempre cercato il riconoscimento internazionale. Come incaricato di riallacciare i contatti esteri fu scelto un diplomatico di origine sarda, Renato Prunas, che a capo del dicastero degli esteri del regno, con audacia e, spregiudicatezza, prese contatto con personalità di spessore dell’Unione Sovietica. Sfruttando il malcontento2

francese

e sovietico sulla organizzazione dei ruoli tra gli alleati, riuscì a usarlo a vantaggio per mitigare i termini dell’armistizio e ricreare quel

clima di solidarietà dei paesi alleati verso l'Italia.

Riuscì quindi ad ottenere un colloquio segreto, anche se in forma ufficiale con Andrej Visinskji

vice di Molotov e uno dei principali collaboratori di Stalin a Napoli nel gennaio del 1944. Al primo

colloquio ne seguì un secondo, dopo breve tempo a

Salerno, appena liberata dalle forze alleate, dove si tenne nel novembre del 1943 la conferenza dei ministri degli esteri delle tre grandi potenze: Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. Visinskji

era il

rappresentante della delegazione sovietica. L’intesa tra Visinskji e Prunas fu immediata, perché gli interessi erano coincidenti. A seguito di trattative riguardanti la sorte dei prigionieri di guerra italiani e dei beni immobili in Russia, Prunas

comunicò che da parte del

governo Badoglio non vi era «alcuna obbiezione o difficoltà» a permettere il rimpatrio in Italia di

Palmiro Togliatti, leader dei comunisti italiani in esilio volontario nell’Unione Sovietica. Verso la

fine delle trattative, il 14 marzo 1944, ebbero inizio le relazioni diplomatiche tra l’Italia e l’Unione

Sovietica con apertura di rispettive sedi rappresentative. Il ritorno di Palmiro Togliatti nel panorama

politico portò nell’aprile del 1944 alla cosiddetta “Svolta di Salerno”, un compromesso tra le forze

antifasciste, la monarchia e il governo Badoglio. Un’ iniziativa non certo frutto di Togliatti, ma

organizzata in un colloquio tra Stalin e lo statista italiano. Accantonando temporaneamente la

questione istituzionale, si decise che a fine conflitto si sarebbe formato un governo di unità

nazionale con la partecipazione dei rappresentanti delle forze politiche presenti nel CLN. Badoglio

si senti dunque costretto a costituire un governo con esponenti antifascisti che lo avevano attaccato

violentemente, e il 22 aprile 1944, nacque il governo dell’Esarchia, con la presenza dei sei

principali partici politici (Democrazia cristiana, Democrazia del lavoro, Partito comunista, Partito

socialista, Partito d’azione, Partito liberale), il primo governo politico post fascismo.

In molte località si formarono i Comitati di Liberazione Nazionale. Nel nord Italia nell’estate del 1944 si insediò la costola milanese del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), un movimento che operò con ampia autonomia e che coordinò i diversi gruppi di resistenza che si erano organizzati nella RSI. Accadde anche a Trieste, dove la presenza comunista era molto forte, specie tra gli operai dei cantieri, ma forte era il sentimento patriottico risorgimentale, rappresentato dagli azionisti del partito Giustizia e Libertà e dai socialisti. C’erano anche altre forze: la Democrazia cristiana e il Partito Liberale, rappresentanti dalla borghesia professionistica ed economica triestina. Il CLN dovette ovviamente lavorare in clandestinità a causa della forte presenza dello Stato fascista che era riuscito a creare un clima di sorveglianza, e la poca élite intellettuale e politica che poteva rappresentare una leadership per la città e la

2 G.Mammarella P.Cacace, La Politica estera dell’Italia, Laterza, 2010, pp.138 - 140 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 98 - 99

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regione si era ritirata in una posizione attendista. A causa di questo clima, era rischioso il lavoro di “proselitismo” e a riprova delle difficoltà il movimento di resistenza fu decapitato da arresti e retate, costringendo il CLN a un continuo ricambio e ricostruzione dei quadri. Il clima di isolamento politico dal resto del paese, pesò sul morale degli uomini della resistenza triestina e la maggior parte della borghesia e classe media non aiutò molto chi voleva rischiare di combattere. L’Occupazione tedesca peggiorò già il forte clima di oppressione che già soffocava la città, per tutti gli uomini al di sopra dei 15 anni e al di sotto dei 60 era forte il rischio di una retata per gli arruolamenti forzati. Per i dirigenti del movimento clandestino furono mesi di isolamento totale da gli altri CLN: procurarsi informazioni e finanziamenti significava esporsi con esiti mortali. Anche i contatti con il governo italiano del sud furono impossibile dopo la liberazione di Roma e la sostituzione di Badoglio con Ivanoe Bonomi. Mentre il movimento sloveno più fortemente saldato nelle zone rurali interne poteva contare su facili contatti con i comandi e reparti armati alle spalle della città.

Il primo CLN triestino ebbe vita breve. Fu la naturale evoluzione del fronte democratico nazionale creatosi il 26 luglio 1943; ne fecero parte esponenti dell’antifascismo cittadino, uomini di lunga esperienza, rispettati e puliti da ogni collusione con il fascismo. I membri del comitato erano d’accordo che il futuro della regione fosse di dotarsi di una ampia autonomia amministrativa, nella quale ci fosse stato rispetto delle minoranze, e che il porto di Trieste potesse svolgere funzione internazionale, in aiuto dell’entroterra. Le difficoltà che affrontò il primo CLN furono ampie: indirizzare i soldati che dopo l’8 settembre volevano unirsi alla lotta partigiana, creare forze armate, garantire rifornimenti, creare una rete clandestina di propaganda e collegamenti tra Trieste ad altri centri della Venezia Giulia. I dirigenti comunisti erano convinti di poter tenere separate e autonome le formazioni italiane, slovene e croate. E si sperava in una rapida salita delle forze angloamericane, cosa vana con l’arresto del fronte a Cassino.

I maggior partiti che componevano il primo CLN furono il partito comunista e quello d’azione, come descritti precedentemente. Entrambi avevano un’ampia organizzazione di tipo politico - militare e una base logistica alle spalle, mentre gli altri partiti erano assenti in ambito militare. Il nucleo dell’attività clandestina era da trovare nei complessi lavorativi e delle fabbriche, dove concentrarono i loro sforzi per poi estendere il consenso al resto della società. A dicembre del 1943 tutto il CLN fu decapitato da un rastrellamento tedesco. L’organizzazione entrò in crisi e dal governo Badoglio non pervennero né indicazioni né risposte su come reagire. Il periodo di caos finì nel maggio del 1944, quando le forze di opposizione si riorganizzarono: questa volta comunisti e azionisti si indirizzarono verso un sistema di cellule, più difficili da prendere perché composti da poche persone. Nel secondo CLN prese forza la componente democristiana che usò una serie di reti capillari per ottenere informazioni e infiltrare gente nella struttura occupante in vista di una possibile sollevazione popolare. I democristiani si avvalsero di due gruppi armati: quello formato dai ferrovieri che nei primi mesi del’8 settembre si distinsero in azioni di sabotaggio, di salvataggio di militari e di civili, e quello formato dalla brigata Venezia Giulia, composta da universitari cattolici e studenti liceali che rastrellavano munizioni e armi e compivano anche loro azioni si sabotaggio. Intorno a Trieste operavano gruppi formati da ex militari che presidiavano punti chiave del porto.

Per il secondo Comitato di liberazione nazionale, come per il suo predecessore, non era facile svolgere le sue attività clandestine, perché doveva cercare armi, stampare volantini, giornali, far sentire la presenza alla popolazione e contrastare la propaganda slovena che faceva proseliti nelle fabbriche con o senza accordi. Doveva inoltre raccogliere informazioni, stare in contatto e sabotare la macchina produttrice tedesca, tutto questo senza farsi scoprire dal nemico. Con le infiltrazioni in tutto l’ambiente cittadino, la resistenza ebbe personale armato all’interno sia della Guarda Civica (giovani ragazzi che si erano rifugiati lì per evitare l'arruolamento forzato e il lavoro coatto), sia nelle forze armate. Tutto questo personale in armi sarebbe stato

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utile nei giorni dell’insurrezione. La presidenza fu data a Don Eduardo Marzani con il consenso di tutti, e sotto il suo comando si creò un programma con cui il CLN doveva creare rapporti più stretti con le brigate Osoppo, tagliare fuori le unità comuniste esposte dall’egemonia slovena, mantenere i giovani in città, preparare una difesa e un’organizzazione per il dopo ritirata tedesca, e si cercò di non creare situazioni che portassero rappresaglie. Fu il primo ad avere un ruolo istituzionale. Dopo la liberazione di Roma e l’insediamento di Bonomi, i CLN furono proclamati rappresentanti dell’Italia libera; questo dava ai comitati una veste ufficiale e un valore simbolico soprattutto in aree contese.3

Nel giugno del 1944, tra comunisti sloveni e resistenza italiana si intensificò l’azione diplomatica. A Milano si incontrarono i rappresentanti dell’ OF – Osvobodilna Fronta Slovenskega Narada (Fronte di Liberazione del popolo sloveno) Anton Vratusa e Franc Stoka e i membri del CLNAI. Durante l’incontro, gli sloveni posero come condizione l’accettazione della mozione dell’Avnoj, ed in cambio avrebbero accettato il rinvio sulla delimitazione dei territori misti. Gli italiani invece chiesero garanzie per i connazionali dell’Istria. Alla fine si venne ad un accordo: il CLNAI attraverso un appello stabili che le motivazioni dell’Avnoj erano legittime sulla rivendicazione delle terre dell’Istria e della Dalmazia, che le formazioni partigiane dovevano collaborare con le truppe titine, che ogni decisione sui confini tra le zone miste si dovesse rimandare a fine conflitto. Il CLN triestino, ad eccezione della rappresentanza comunista, respinse l’appello ritenendolo una sottomissione alle forze di Tito.

Nei nuovi incontri del 16-19 luglio a Milano fra CLNAI, CLN triestino e OF, il documento finale fu percepito come una marcia indietro nei confronti del precedente appello emanato. A questo punto sembrava che gli sloveni lasciassero il tavolo pensando che l’Italia non volesse superare la precedente politica; ma non fu cosi perché l’OF voleva raggiungere un accordo al più presto possibile, in quanto la resistenza jugoslava stava attraversando un momento difficile; il quartier generale di Tito era stato bombardato e i partigiani jugoslavi avevano avuto numerose perdite sul terreno. Inoltre c’era un ipotesi di sbarco alleato imminente nella Venezia Giulia. Nei giorni successivi gli avvenimenti portarono ad un cambio di programma con gli arresti dei dirigenti comunisti italiani a Trieste. Vratusa portò la risposta negativa del governo sloveno, e si passò dalla collaborazione al sospetto reciproco con l’interruzione dei contatti diretti tra CLNAI e OF. La rigidità della posizione slovena era da imputare alla mutata situazione sia in campo locale che internazionale.

Come abbiamo accennato sopra, con la serie di arresti nell’agosto del 1944, il CLN triestino perse completamente la sua componente comunista e l’intera struttura fu spazzata via. Importanti personalità politiche e intellettuali, come Luigi Frausin fondatore del PCI e forte attivista antifascista all’estero nel suo auto esilio, furono arrestate. Alcune di loro finirono alla risiera di San Sabba, ivi interrogate, torturate e dopo fucilate. Questi eventi e arresti indebolirono ancor di più il comitato giuliano.

3 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 49 - 50 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 67 - 69 R.Worsdorfer, Il confine orientale, Il mulino, 2009, pp. 173 - 202

M.Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 262 - 205 F. Amodeo, Trieste 30 aprile 1945, LEG, 2007, pp. 47 - 52

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Le voci di dissenso e avversione verso un atteggiamento su posizioni pro-slave cessarono e la nuova dirigenza comunista che si formò era nettamente filo - slovena. Il nuovo CLN si trovò senza la componente con maggior membri rappresentativi e il PCI triestino ruppe i rapporti con gli altri partiti. La rottura si fece sentire anche con i rapporti in seno alle brigate combattenti. Il Comitato tentò in ogni modo di ristabilire i rapporti con il PCI triestino e fu richiesto al CLNAI di mediare, ma questo non portò a nulla. Ad ogni quesito sulla partecipazione comunista l’osservatore Pino Gustincich rispose che per volere popolare la Venezia Giulia doveva essere annessa alla Jugoslavia, e si necessitava, nel CLN, la presenza di un membro comunista sloveno. La proposta venne giudicata un’intromissione dell’influenza jugoslava su organismi italiani, e quindi rigettata. Il dialogo restò uguale come prima, vuoto. A questo punto la resistenza triestina cercò di coinvolgere il CLNAI e gli alleati angloamericani per un’eventuale occupazione militare della Venezia Giulia, ma, per motivi logistici e di mancato accordo tra le parti, questo non avvenne. Quello che è certo è che gli angloamericani, vedendo la frattura tra CLN e comunisti e le tensioni tra le Osoppo e la XI Korpus, si convinsero, dopo l’esempio della guerra civile greca, di temporeggiare e di dividere i partigiani italiani e sloveni e separare gli osovani dalla resistenza italiana. Comunque gli Alleati nei loro piani avevano l’obiettivo di occupare l’intera area con un governo militare. In tutto ciò la popolazione risultava sfiduciata e depressa, ma speranzosa4 per le voci di sbarco alleato, che però venivano perennemente deluse. Il 9 dicembre il CLN di Trieste siglò un patto sintetizzato in un documento unitario dove si specificò l’inviolabilità dell’unità d’Italia. Era prevista un ampia autonomia amministrativa della Venezia Giulia da inserire nella futura costituzione con assoluta parità giuridica, culturale ed economica tra cittadini italiani, sloveni e croati; Trieste doveva diventare un porto franco governato da un organismo composto di enti pubblici, municipalità, aziende nazionali e estere. Il documento non dava prova però di realismo politico perché teneva fermo il punto sull’intangibilità dei confini. Ebbe tuttavia un ampio risalto e ridette speranza alla città depressa, con diffusione su giornali esteri e italiani e attraverso la radio del governo democratico di Roma.

A Trieste giunse nel gennaio del 1945 una delegazione del CLN veneto composta da un socialista, un liberale e un ufficiale britannico. Il “caso Trieste” era ormai presente sui tavoli delle maggiori capitali. La delegazione incontrò il CLN triestino e i rappresentanti comunisti, i quali rimasero sulle loro posizioni di un’unificazione con la Jugoslavia, comunista, federalista, sovietica, ma non esclusero una ripresa dei rapporti purché abbandonassero la linea nazionalista. Il 10 febbraio il comitato redasse un rapporto nel quale giudicò improbabile una ripresa della collaborazione con l’OF a causa della sua linea annessionistica. Una possibile risposta sarebbe stata la creazione di un organismo comune italo - jugoslavo, e se fosse fallito anche quest’ultimo, il rapporto prevedeva un intervento rapido alleato dopo la ritirata tedesca come forza separatrice e di salvaguardia contro atti di terrorismo verso gli italiani. Sul finire il rapporto invitò il CVL (Corpo Volontari della Libertà, ramo militare del CLN) a mandare a Trieste una commissione militare per coordinare le operazioni per le fasi finali del conflitto. La delegazione incontrò sia il prefetto Coceani, ritenuto compromesso con i nazisti e quindi non più utile alla causa, sia il Podestà Pagnini, ritenuto invece sfruttabile con la sua guardia civica metà infiltrata per l’insurrezione.

4 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 70 - 74 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 78 - 81 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 103 - 106 F. Amodeo, Trieste 30 aprile 1945, LEG, 2007, pp. 66 - 76

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Pochi giorni dopo il rapporto, il CLN triestino fu di nuovo colpito da una retata che lo paralizzò: quasi tutti i membri furono torturati e uccisi nella risiera. Per gli jugoslavi l’indebolimento della resistenza italiana era un chiaro obiettivo perché un CLN ben organizzato almeno sulle zone costiere avrebbe costituito un pericolo per le loro pretese. Ancora, il 12 aprile gli sloveni proposero al CLN la costituzione di un comitato misto, con tre seggi a loro, tre ai comunisti slavi e quattro seggi all’Unità Operaia. In questo modo la componente democratica sarebbe stata subalterna a quella comunista. Con l’arenarsi di questa proposta gli antifascisti sloveni e quelli comunisti italiani costituirono un Comitato esecutivo antifascista italo - sloveno (CEAIS). Il CLN rimase fedele agli ideali di patriottismo e antifascismo senza cedere né a infiltrazioni di gruppi collusi con il precedente governo né a subordinazioni comuniste di Tito. Da parte slovena e croata l’apertura a ideali nazionalistici fece godere di consensi maggiori tanto nel litorale quanto nell’OF e nell’Zavnoch ove confluirono forze nazionaliste; anche se rimasero in minoranza e controllate dai comunisti. esse rappresentarono l’unica forza organizzata nell’area. Alla vigilia della fine della guerra la posizione italiana nella Venezia Giulia era debole rispetto alle rivendicazioni jugoslave.

Il caos causato dal’8 settembre nella Venezia Giulia fu percepito dalla popolazione differentemente che dal resto della nazione. I 100.000 soldati italiani stanziati sul confine abbandonarono senza combattere e il generale Ferrero, comandante del XII corpo d’armata abbandonò Trieste lasciando nel caos la sua unità, che sarebbe stata deportata. In tutto il territorio i generali italiani applicarono con zelo la cosiddetta “circolare Roatta” e repressero le manifestazioni create spontaneamente nel clima di festa per la caduta del fascismo. Diversi comizi furono stroncati nel sangue a Pola, Udine, Gorizia, Cormons e Fiume. Senza resistenza queste città caddero in mano tedesca. Fascisti, gerarchi, funzionari e dirigenti sparirono in un attimo, interi reparti dell’esercito si lasciarono disarmare o si dissolsero. Se nelle città fu mantenuto un minimo di ordine, le campagne furono abbandonate a loro stesse, e tornarono bande di razziatori e banditi fuggiti dalle carceri sfruttando la totale assenza di autorità per compiere qualsiasi crimine.

Nell’Istria interna i soldati italiani si arresero al popolo insorto, e i partigiani in maggioranza sloveni o croati, assunsero il potere civile e militare sotto forma di Comitati popolari di liberazione. Anni e anni di repressione e oppressione, ma anche odio etnico creato ai tempi asburgici, sfociarono in un clima di violenza e vendetta verso qualunque rappresentante dello Stato. A fianco dell’intervento partigiano croato la rivolta dei contadini porto giorni di vera caccia, esponenti fascisti locali, funzionari e impiegati dello Stato e possidenti furono i primi a subire i tribunali popolari. seguirono podestà, carabinieri, proprietari terrieri, ecc. . L’epurazione interessò ben presto altre categorie: insegnanti, commercianti, farmacisti e classe produttrice e agli arresti seguirono torture, violenze e stupri. L’Intero ceto medio italiano e classe dirigente fu fatto sparire dopo processi sommari. Le vittime, condannate a morte, vennero legate con fil di ferro alcune ancora vive e gettate nelle voragini dette ‘’Foibe’’, con un numero che si aggira intorno ai 400 - 500 cadaveri. Nelle foibe, in quanto luoghi di esecuzione e non di pulizia etnica, furono buttati anche soldati tedeschi e collaborazionisti serbi e croati. Il ritmo delle esecuzioni accelerò con l’inizio dell’offensiva tedesca. Le sollevazioni, soprattutto slave, dell’entroterra e l’istituzione di comitati popolari, diede l’occasione alla maggior parte della popolazione di origine croata e slovena di rivendicare quelle terre soggette al governo di Roma, e chiederne la riunificazione al resto della Slovenia e della Croazia libera. La distruzione della borghesia slava per opera del regime fascista aveva convogliato le ambizioni nazionalistiche nella leadership comunista. Sin dal’42 era chiaro che la Venezia Giulia doveva diventare Jugoslavia: i croati ambivano all’intera Istria e gli sloveni ai territori sul confine dell’Isonzo. Per Giovanni Paladin (leader giuliano del Partito d’azione), il passaggio di poteri in Istria era il risultato della non esistenza di un partito italiano o istituzione autonoma italiana che garantisse alla maggioranza della popolazione di cultura italiana di raccogliersi e resistere. L’8 settembre lasciò un vuoto che i partigiani slavi riempirono senza ostacoli. In pratica la Venezia Giulia si era trasformata in terra di nessuno e di conquista.

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Per gli italiani l’8 settembre è considerato il giorno del crollo dello stato, per gli slavi croati istriani e sloveni rappresentò invece il giorno della liberazione nazionale. I croati e gli sloveni del KPS e del KPH non agivano solo in veste di rivoluzionari sociali, ma anche di irredentisti slavi. Cinque giorni dopo l’armistizio, il 13 settembre 1943 a Pisino (considerata la capitale della cultura slava istriana), il neo comitato popolare cittadino appena insediato, formato da partigiani sloveni e croati, proclamò il famoso “proclama di Pisino”. Gli esponenti del comitato furono affiancati dai massimi rappresentanti locali del comunismo italiano. Il proclama si può riassumere nei seguenti punti: 1) annessione dell’Istria alla Croazia, 2) soppressione di tutte le leggi fasciste, 3) allontanamento di tutti gli italiani non nativi trasferitevi dopo il 1928, 4) concessione dell’autonomia alla “minoranza italiana dell’Istria”, ecc.. Il 16 settembre, poco dopo l’armistizio, il Plenum supremo dell’OF proclamava l’annessione del Litorale sloveno garantendo l’autonomia alla minoranza italiana. Sette giorni dopo, il 20 settembre 1943, lo Zavnoh (Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia), decretò che tutti i trattati e convenzioni, stipulati dopo la prima guerra mondiale dall’Italia con la Jugoslavia era decaduti. Per cui l’Istria, la Dalmazia e le isole erano di fatto annesse alla Croazia. Mentre le rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Italia5 furono confermate a Jajce dalla seconda sessione dell’Avnoj, organo supremo della Resistenza jugoslava. Alla fine di novembre - primi di dicembre, le decisioni prese ebbero un valore storico per i popoli jugoslavi e l’assemblea si trasformò da organo di rappresentanza politica a organo legislativo ed esecutivo.

Decreto della II sessione dell’Avnoj 30 novembre 1943:

“ La Presidenza del Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia decreta sull’annessione del Litorale sloveno, dell’Istria croata e delle isole croate adriatiche alla Jugoslavia. In armonia con le aspirazioni di secoli e con gli sforzi di combattimento dei popoli sloveno e croato nelle regioni soggiogate dagli imperialisti italiani, l’Avnoj conferma: 1) il decreto del Litorale sloveno e di tutte le parti di Slovenia che sono state annesse all’Italia, alla Slovenia libera, nella Jugoslavia federativa. 2) il decreto Zavnoh sull’annessione dell’Istria croata, di Fiume, di Zara e di quelle parti croate che sono state annesse all’Italia, delle isole croate dell’Adriatico, alla libera Croazia nella Jugoslavia federativa. 3) il presente decreto entra in vigore immediatamente”.

Il decreto non delineò confini ma da questo derivò un forte contrasto nel luglio del 1944 fra il CLNAI e OF. I comunisti italiani assunsero un atteggiamento attendista; essi fecero pressioni sui compagni jugoslavi affinché la questione territoriale venisse regolata solo dopo la fine del fascismo.

Verso la metà di ottobre del ‘43, sotto ordine immediato di Hitler, tutto il territorio della Venezia Giulia fu messo sotto diretto controllo del Reich e staccato dal controllo della Repubblica fantoccio di Salò. Nemmeno l’arruolamento di leve per l’esercito riguardava le forze repubblichine e la scelta di corpi volontari per

5 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 49 - 50 P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 61 - 63 R.Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 11 - 13

R.Worsdorfer, Il confine orientale, Il mulino, 2009, pp. 187 - 190

M.Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 241 - 246 F. Amodeo, Trieste 30 aprile 1945, LEG, 2007, pp. 23 - 32

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l’esercito ricadeva esclusivamente sotto controllo tedesco. Due zone furono create e governate da un supremo commissario dotato di amplissimi poteri, prerogative in campo sia amministrativo che giudiziario. Egli doveva rispondere direttamente agli ordini del Führer solo in casi particolari. Operavano nel litorale pure unità delle SS comandate da uno dei responsabili dello sterminio di 3 milioni di ebrei polacchi, Odilo Globocnik. La zona di operazioni Prealpi e la zona di operazioni litorale adriatico, erano stati territori di antica tradizione mitteleuropea; per questo, la maggior parte dei funzionari erano tutti di origine carinziana e avevano intrattenuto rapporti con Trieste e con il suo porto che era strategico per i piani della Germania come punto di collegamento con i Balcani. Per complicare i collegamenti con le zone e il resto della repubblica di Salò, si limitò di molto il transito delle persone: a chi era originario delle zone di operazioni non serviva il passaporto per entrare nel Reich, mentre i cittadini della RSI potevano trattenersi per non più di sette giorni, a meno che non dovessero richiedere un’autorizzazione speciale.

E’ inevitabile supporre che a fine guerra, “se” il terzo Reich avesse vinto il conflitto, le zone occupate non sarebbero state restituite a un futuro stato satellite italiano. «Le strutture statali tedesche comunque hanno avuto in passato il ruolo di forza ordinatrice in territori con popoli, lingue e culture diverse»: cosi la pensava il governatore della Carinzia e supremo commissario del Litorale adriatico Friedrich Rainer. L’annessione del Litorale avveniva «nel quadro della risistemazione globale dell’Europa, nell’ambito del nuovo ordine europeo», gli sarebbe spettata la tradizionale funzione di penetrazione commerciale del Levante, come Ludwig Von Bruck elaborava nel suo disegno mitteleuropeo. La creazione della zona di operazione Prealpi era da attribuire al sogno di riconquista mai sopito del nazionalismo tedesco di riportare il Sudtirolo nella madre patria. Infatti la popolazione altoatesina accolse la Wehrmacht come esercito liberatore. Utilizzare il nome Adriatisches Küstenland (litorale adriatico) voleva mettersi in aperta ostilità alla tradizione italiana perché rimandava al ricordo austro-ungarico. Il supremo commissario voleva proprio cercare di far leva sulle vecchie nostalgie asburgiche della maggior parte della popolazione, soprattutto di quello economico portuale. La premessa era quella di isolare sia politicamente, amministrativamente e etnicamente la Venezia Giulia dal resto d’Italia, oltre a limitare l’accesso agli italiani residenti in altre regioni e proibire il reclutamento per le forze armate. Vennero soppressi i tribunali militari, le corti di cassazione e limitati i giornali fuori regione. Venne inoltre attuata una politica filo - slava di contrasto all’elemento italiano nominando sloveni e croati nell’amministrazione del Litorale, riaprendo le scuole e radio in lingua slava. Serviva ai tedeschi per non creare un fronte unitario delle due nazionalità contro di loro.

Le simpatie filo slave servirono nella regione per imporsi tra gli slavi. A Trieste i tedeschi miravano all’elemento locale, nominando triestini alle cariche amministrative per la pubblica amministrazione, per il podestà e il prefetto. Questo sortì l’effetto di creare simpatie del ceto imprenditoriale e commerciale della città che vedevano Trieste reinserita in quello spazio mitteleuropeo nell’ambito economico del Reich. La borghesia triestina nell’ottobre del ‘43 si rese complice della ferocia nazista, giustificandosi, dopo la guerra, che l’opportunismo filo nazista era in nome della “difesa dell’italianità”, a tutela della minaccia comunista jugoslava. In realtà, l’obiettivo era difendere interessi economici e di potere: lo testimonia la nomina a podestà di Cesare Pagnini e di prefetto Bruno Coceani. L’Unione degli Industriali e dei fascisti locali convinse i capi militari e politici a non collaborare con i partigiani contro l’occupante tedesco come “blocco patriotico antislavo” e queste manovre consentirono alla propaganda jugoslava di rendere il rancore nei lavoratori giuliani ancora più forte mescolando CLN e fascisti.

I tedeschi furono molto abili a utilizzare le tensione tra i diversi gruppi etnici e nazionali per consolidare il consenso. Il primo criterio fu quello di mettere l’uno contro l’altro, ripristinando i diritti nazionali sloveni e la lingua slovena nell’amministrazione di Lubiana. Furono riaperte scuole slovene, venne diffusa stampa e

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trasmissioni radiofoniche in sloveno anche a Gorizia. Invece, a Trieste il gruppo italiano avrebbe rappresentato l’interlocutore privilegiato dell’autorità tedesca. A complicare ancor di più il mosaico si inventarono un quarto gruppo etnico, quello dei ladini. Questo comportava un drastico ridimensionamento sulla carta dell’elemento italiano che diventava minoritario. A complicare ulteriormente, nell’area della Carnia, si insediarono gruppi consistenti di cosacchi e non solo truppe di combattenti , ma un intero popolo in fuga con donne e bambini. La terra carnica diventava il Kasakenland suddiviso in okrugi (distretti) e in stanicy (villaggi), cambiando i toponimi dei borghi e città, e di colpo 60.000 friulani si ritrovano a convivere con questo popolo differente da tradizioni e cultura.

La politica attuata dai tedeschi sortì i sui effetti immediati e ampi strati della popolazione slovena e italiana collaborarono all’autorità dell’occupante. La figura di riferimento della comunità slovena era il vescovo di Lubiana, Gregorij Rozman, che instaurò rapporti simili come quelli instaurati con le forze occupanti italiane. Fu una presa di posizione giustificata dall’evitare l’ascesa del potere dei comunisti rappresentati dall’OF. Rainer al suo processo forni una descrizione del suo incontro con il vescovo,. usando l’espressione streitbar (bellicoso). Affermò di aver avuto la sensazione di trovarsi di fronte a un vescovo bellicoso, e quando Rainer chiese a Rozman che opinione avrebbe avuto lui e la popolazione se alla carica dell’amministrazione autonoma di Lubiana avesse messo il generale Rupnik, questi rispose che avrebbe avuto la massima stima ritenendolo il più adatto a tale carica. E sempre nella sua deposizione Rainer affermò che gli sloveni si sarebbero potuti conquistare ampi spazi di autonomia e concessioni con il Reich se avessero collaborato. Uguale apertura di collaborazione venne dalle autorità italiane a Trieste i tedeschi non trovarono difficoltà a nominare un prefetto e un podestà di propria nomina, Guido Coceani e Silvio6 Pagnini. La motivazione per la scelta di questi due uomini è un mistero ma di sicuro essi erano legati a due ambienti che i tedeschi favorivano; l’uno rappresentava la borghesia patrizia triestina legata al quietismo municipalistico di origine asburgica, l’altro ai ceti economici della città. A Fiume i tedeschi misero alla carica di podestà Riccardo Gigante, già sindaco ai tempi dell’impresa dannunziana, e come prefetto il croato Spehar; a Pola divenne vice prefetto Bogdan Mogorovic. I tedeschi dimostrarono di favorire lo sviluppo di un’identità civica fatta di localismo e autonomismo e il 15 gennaio 1944, sotto comando tedesco, costituirono la guardia civica, una specie di milizia territoriale che si occupava di compiti surrettizi come la repressione antipartigiana, la scorta ai vagoni dei deportati ai lager, ecc. . Molti giovani da età di leva la trovarono una soluzione più accettabile rispetto al servizio militare nella Wehrmacht, o all’adesione alle forze partigiane. Però ci furono casi molto ampi di collaborazionismo della guardia civica con il CLN e parecchi parteciparono all’insurrezione del 30 aprile. La giustificazione a questa ampia zona grigia di ambiguità tra collaborazionismo e resistenza è ardua da trovare, ma lo si può intuire dalle scelte motivazionali di ogni individuo: in un territorio occupato la scelta era verso il meno peggio; tolta una minoranza tedesca che condivideva l’ideologia nazista, il resto della popolazione preferiva collaborare per sopravvivere e salvare la propria cultura e identità dalla minaccia del comunismo.

La repressione verso le forze partigiane soprattutto nella zona della Carnia e del Friuli orientale dove si costituirono per breve tempo delle repubbliche partigiane fu durissima. La ferocia delle stragi compiute sono

6 M.Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 246 - 255 R.Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 14 - 22

R.Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 31 - 39

P.Pallante, La tragedia delle foibe, Editori riuniti, 2006, pp. 55 - 58 T.Piffer, Porzus, Il mulino, 2012, pp. 53 - 57

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da attribuire alla 24 Waffer - Gebirgs Division der SS “Karstjager”: composta da volontari di varie parti d’Europa, legati da un fanatismo ideologico, si batteva in ogni occasione con veemenza. Ma nulla è da paragonare alle micidiali azioni di rastrellamento condotte dal ricordato Odilo Globocnik, austro-triestino comandante delle SS nella Zona di operazioni. Egli creò un sistema di terrore e morte nell’ex opificio della risiera di San Sabba, in un Polizeihaflager, un campo di detenzione di polizia. San Sabba era un campo misto, serviva come campo di transito per gli ebrei per la deportazione nei campi di sterminio, ma anche come prigione e centro di interrogatori dei partigiani e antifascisti attraverso tortura e poi venivano uccisi. Nel aprile 1944 Trieste fu anche teatro di rappresaglie tedesche contro sloveni e italiani in seguito ad attentati partigiani: 72 ostaggi rastrellati da un villaggio uccisi per una bomba in un cinema frequentato da soldati tedeschi, per una bomba messa nella casa del comandante che provocò dei morti, 51 prigionieri delle carceri del Coroneo furono impiccati e appesi alla scalinata interna del conservatorio di musica Tartini. I tedeschi lasciarono i cadaveri ben visibili per chiunque passasse di là. Kubler esortava a colpire il nemico senza pietà, proponeva la fucilazione o l’impiccagione immediata, e condanne a morte anche per chi aiutasse i partigiani. Nel reprimere si crearono anche ambigue complicità tra tedeschi e repubblichini in chiave anticomunista e anche antislava. In un mese e mezzo 503 soldati tedeschi caddero vittima di azioni partigiane, i partigiani misero a segno 147 attentati contro ferrovie e ponti, e 22 sabotaggi a linee telefoniche, ma registrarono perdite su 1.138,608 di italiani, 517 jugoslavi e a 13 al Corpo italiano di liberazione. Nonostante l’escalation dell’attività repressiva e delle rappresaglie, il movimento di resistenza in Istria non fu debellato. La città partecipò molto inferiormente alla resistenza rispetto le altre città italiane, ci furono solo azioni di propaganda, sabotaggi nelle fabbriche, mancanza consegna di prodotti, di materiale sanitario. Nelle settimane successive al’8 settembre decine di migliaia di soldati italiani vennero condotti in Germania in campi di concentramento; a volte quando ce n’era la possibilità, gli antifascisti locali e i ferrovieri aiutarono a far scappare singoli soldati o interi gruppi, i fuggiaschi dopo un po' di tempo riprendevano i contatti e si aiutavano tra loro, la rete di rapporti sorta fu uno dei punti di partenza della resistenza partigiana. Furono le fabbriche o le zone industriali circostanti a dare segni di partecipazione e lotta dura all’occupazione.

Uno dei nuclei della resistenza nella regione fu il movimento operaio organizzato, in particolare da Monfalcone, città operaia che fu il centro del movimento proletario sovranazionale della regione giuliana proprio per le sue fabbriche. Operavano tre gruppi organizzati: i Gap, Interdenza e l’Assistenza. Interdenza era la principale fonte di rifornimento di tutte le unità partigiane, e faceva da collegamento tra il IX Korpus sloveno e le unità Garibaldi. L’Assistenza aiutava i familiari dei partigiani. Nei giorni successivi al’8 settembre quando calò l’invasione tedesca, nella zona di Gorizia scoppiò una vera lotta organizzata dagli operai di Monfalcone come Brigata proletaria con i partigiani sloveni contro gli occupanti. Diverso fu il significato della lotta per gli sloveni, per i quali il “Fronte di Gorizia/dell’Isonzo” era come se dovessero difendere un confine, mentre per gli italiani la “Battaglia di Gorizia” era la prima vera azione della resistenza. I rivoltosi resistettero e per due mesi costituirono la Repubblica di Caporetto, creando una linea del fronte ricalcando quella della prima guerra mondiale. Tuttavia cedettero ai rastrellamenti dei collaborazionisti e dei tedeschi. I sopravvissuti tornarono nei cantieri navali, altri crearono i nuclei delle formazioni partigiane Garibaldi Natisone in Friuli e Battaglione triestino nel Carso.

Nell’autunno del 1943 quando si costituirono le prime unità partigiane italiane, quelle slave erano già operative da due anni. I boschi furono la base di partenza della guerra partigiana, era tutto per i partigiani. L’OF – Osvobodilna Fronta Slovenskega Narada (Fronte di Liberazione del popolo sloveno) aveva dei contatti locali e ne facevano parte anche italiani o assimilati. E ampi settori della popolazione italiana (operai e contadini) simpatizzavano con la lotta di liberazione degli sloveni. Le forze slovene e croate accolsero positivamente la partecipazione di gruppi italiani alla lotta armata e favorirono la formazione di unità partigiane italiane. Dal loro punto di vista le brigate erano utili perché controllavano alcune zone attraversate

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dalla linea ferroviaria che collegava il Reich all’Adriatico. Perciò era frequente azioni di sabotaggio congiunte a danno dei tedeschi. Ma fecero di tutto per impedire un rapporto stabile tra le unità italiane e la popolazione dell’entroterra a prevalenza italiana. Il movimento partigiano era egemonizzato dalla resistenza slovena e croata. Miravano e pretendevano che il comando delle formazioni italiane e i battaglioni a est dell’Isonzo che operavano nella zona fra Cividale e Gemona si spostassero al di là del Tagliamento oppure che si sottomettessero al comando militare del IX Korpus. I partigiani italiani nelle zone a nord del confine non potevano spostarsi da una luogo all’altro senza pericoli, si sentirono ingabbiati in una stretta tra il nemico tedesco pronto a ucciderli in qualsiasi momento e un alleato che non nascondeva sentimenti di disprezzo e mire annessionistiche sulla Venezia Giulia. Incidenti di tricolori strappati, imposizione di simboli sloveni, reclutamento forzato, sottrazione delle armi, viveri, di materiale proveniente dall’esercito con il pretesto che tutto quanto doveva andare agli sloveni, portava a discussioni anche molto accesi. Il IX Korpus dell’Esercito popolare sloveno di liberazione era stato formato nel dicembre del 1943 da reparti già esistenti nella zona di operazioni della resistenza slovena. Era la forza d’armata autonoma più grande nella zona del litorale che compì azioni contro la Wehrmacht: se confrontiamo le Brigate Osoppo e Garibaldi, insieme non raggiunsero le dimensioni di una divisione; tuttavia, sul numero dei combattenti il IX Korpus non era affatto più forte della divisione Garibaldi-Osoppo nel suo insieme.7

La differenza tra le formazioni italiane e slovene era non solo che le unità partigiane jugoslave si erano trasformate in esercito di liberazione nazionale, mentre le altre erano rimaste nuclei separati, ma anche differenze politiche inconciliabili. L’area delle operazioni era tutta la metà occidentale dell’attuale Slovenia e la cosiddetta slovena veneta, anche se c’erano comandanti e esponenti del partito comunista sloveno che avrebbero volentieri esteso la sfera delle operazioni fino nel bellunese. Le IX Korpus erano organizzate e dotate di ospedali da campo, tipografie, depositi di munizioni, giornali, genio e unità per la sicurezza dello stato. Era in grado di fornire informazioni dei movimenti della Wehrmacht e sull’equipaggiamento, e di aiuto tecnico e sanitario agli Alleati occidentali e sovietici. Per questo aveva uno status internazionale maggiore di una semplice formazione partigiana. Il suo comando era in grado di esercitare forti pressioni sul movimento partigiano italiano e di dare ordini a questo. Erano dei centri di potere nella regione che le formazioni italiane avevano poco da opporsi.

Gli sloveni consideravano terra irredenta la parte del Friuli a presenza slovena, la cosiddetta slovena veneta, e mettevano pressione ovunque: Trieste, Carso, Istria. Per queste motivazioni, ritenevano che la Brigata Garibaldi Natisone che operava in quella zona dovesse obbedire al comando sloveno. Agli italiani si chiedeva anche di non usare nomi per le unità partigiane come Gorizia, Isonzo, Natisone e simili perché poteva ferire i sentimenti nazionali degli sloveni, ma usare nomi di personaggi che fossero autentici espressione di auspici democratici e progressisti per il popolo italiano. Con il cambio alla guida del PCI triestino dopo gli arresti dell’estate del 1944, l’ostilità dei comunisti italiani a mettere le brigate Garibaldi sotto gli ordini sloveni aumentò. Il comandante e commissario della Garibaldi “Natisone” ricevette pressioni dal partito per mettersi agli ordini del IX Korpus. In una lettera al comando triveneto, il comandante di divisione si allineò alle direttive riconoscendo come legittime le rivendicazioni jugoslave. Attorno al Capodanno del 1945 la Natisone fu trasferita a est dell’Isonzo; fu un trasferimento estremamente faticoso, spesso con massacranti e pericolose marce, lungo sentieri di montagna impervi e gelati. La giustificazione di

7 M.Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 242 M.Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 257 - 281 R.Worsdorfer, Il confine orientale, Il mulino, 2009, pp. 175

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questo trasferimento era che le brigate italiane erano a corto di equipaggiamenti e munizioni. In realtà fu un’ammissione di sconfitta da parte della divisione di fronte agli sloveni. Il rapporto tra i Garibaldini e i partigiani sloveni, anche se intervallato da complicità e nonostante tutti gli sforzi per mantenere il clima e la concordia da “internazionalismo proletario” esaltato da entrambe le parti, non si sviluppò. I quadri sloveni erano sospettosi nei confronti dei partigiani italiani. Nell’aprile del 1945, dopo i massicci rastrellamenti dei tedeschi, la brigata Garibaldi Natisone fu trasferita in direzione di Lubiana. Il commissario politico Padoan, indignato, si rivolse al funzionario del KPS Boris Kraicher accusando i comunisti sloveni di aver impedito ai Garibaldini di partecipare alla liberazione di Trieste.

I primi “Garibaldini” delle Brigate Garibaldi, che avevano avuto già esperienza bellica durante la guerra civile spagnola, ebbero stretti contatti con le compagnie slovene per rifornimenti, aiuto logistico, distribuzione di volantini e giornali. Dall’ottobre del 1943 ci fu la costituzione del primo commando friulano di brigata definita Garibaldi n°1, che rappresentò nelle zone dove operava un fattore di ordine e manteneva collegamenti con le autorità locali (carabinieri, parroci, ecc.). Nei mesi invernali tra freddo, mancanza di rifornimenti e azioni di rastrellamento dei tedeschi la brigata fu quasi annientata e ridotta di organico. Tra maggio e giugno 1944 dal nucleo della vecchia brigata Garibaldi n°1 si costituirono due brigate: la Brigata Garibaldi Friuli con tre battaglioni nella Carnia (Friuli, Carnia, Carnico), tre nelle prealpi carniche (Matteotti, Pisacane e Garibaldi) e due nella val cellina (Bixio e Mazzini 2°); e la Brigata Garibaldi Natisone in stretto contatto con gli sloveni con quattro battaglioni (Mazzini, Mameli, Manin, e Manara). Tutti questi gruppi partigiani si avviarono verso la fusione, e sembrava che fosse possibile uno stesso comando tra la Garibaldi e la Osoppo. La Garibaldi era controllata dai comunisti, invece la Osoppo era mista, con vari partiti antifascisti, e a farla da padrona era la componente Democristiana e quella Azionista (liberal-sociale). Oltre ad esserci all’interno ex ufficiali dell’esercito, militava anche un numero consistente di sacerdoti che nel Friuli avevano una forte tradizione battagliera. Sia gli sloveni sia i Garibaldini, che erano rappresentati da quadri operai comunisti, erano sospettosi verso gli Osovani che erano composti per lo più da ex militari. Nel giugno del 1944 la Brigata Osoppo aveva sette battaglioni: due in Carnia (Carnia e Tagliamento), due nelle prealpi Carniche (Italia e Piave), e tre nelle prealpi Giulie (Julio, Torre,Udine).

Il 27-28 agosto a Forame si costituì il comando unico della divisione Garibaldi-Osoppo con un effettivo di 14.330 uomini. Con il comando unificato si raggiunse un successo sul fronte partigiano poiché tra l’estate e l’autunno 1944 si svilupparono in Carnia e Friuli due Repubbliche partigiane: la Repubblica di Carnia e la Zona Libera del Friuli Orientale. Dimostrando alle forze occupanti che la divisione unificata poteva raggiungere e minacciare le vie di collegamento con l’Austria e Trieste. La Repubblica della Carnia comprendeva 40 comuni e una popolazione totale di 80mila abitanti; fu la più estesa e la più longeva tra le altre repubbliche partigiane sorte nei territori liberati in Italia, resistendo per oltre tre mesi. Nella Zona Libera del Friuli Orientale varie amministrazioni comunali furono elette e presiedute da antifascisti. Le repubbliche costituirono un’esperienza di grande importanza dal punto di vista politico: il governo della Carnia emanò decreti come l’abolizione della pena di morte, l'istituzione di tribunali del popolo, la riapertura delle scuole, la gratuità della giustizia lo sviluppo del patrimonio forestale. Soprattutto abolì ogni tipo di tassa e istituì un’imposta progressiva sul patrimonio; in nessuna altra repubblica partigiana fu presa una decisione cosi radicale e socialmente avanzata. Le azioni di rastrellamento di Odilo Globocnick nel settembre 1944 spazzarono via ogni traccia di democrazia faticosamente realizzata in quei territori. Questo minò i rapporti all’interno del comando unificato, poiché il rastrellamento e la ritirata dimostrarono in numeri che gli Osovani ebbero perdite maggiori (130-150 uomini), rispetto alle perdite Garibaldine. Con la fine della Repubblica della Carnia agli inizi di ottobre e l’arrivo dei cosacchi, le due brigate si ricompattarono. Novembre fu un mese caldo per la resistenza su entrambi i fronti; gli alleati sotto comando supremo del britannico Harold Rupert Alexander chiesero la sospensione di ogni operazione su larga scala, e ci fu una riduzione del sostegno alleato alle azioni partigiane. Il 27 novembre una nuova operazione di

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rastrellamento condotta dai tedeschi contro la resistenza durò tre giorni e i Garibaldini dovettero ritirarsi. Nel frattempo, il conflitto tra Osovani e Garibaldini degenerò nella Carnia in un evento molto violento nei pressi di Porzus.

Il dramma di Porzus è da iscriversi nel conflitto generato dallo scontro interno al mondo partigiano. L’origine è da trovare nel rifiuto della Brigata Osoppo di passare sotto il comando della resistenza slovena, causando la spaccatura con la Brigata Garibaldi Natisone, che invece accolse tale proposta e si mise agli ordini del IX Korpus. Si arrivò a un vuoto di poter a est dell’Isonzo in cui si inserì la propaganda slovena atta a promuovere le idee di annessione alla popolazione. Le relazioni tra comunisti e democristiani-azionisti, si deteriorarono, e osovani e garibaldini si accusarono reciprocamente di tradimento nazionale e della causa antifascista. Nei sospetti dei garibaldini si pensò che gli osovani avessero intrapreso colloqui con membri della Decima Mas in chiave anticomunista antislava. Un fondo di verità c’era, poiché contatti effettivi ci furono: i fascisti locali cercarono di portare la Osoppo verso di loro, ma ciò si risolse in un nulla di fatto. Le voci corsero e il clima divenne incandescente.8

I fatti si svolsero preso le Malghe di Porzus, dove l’unità Osoppo, comandata dall’azionista Francesco De Gregori “ Bolla”, si insediò nel cuore della zona contesa. De Gregari era un fervente patriota e anticomunista e definiva nemici (palesi) nazisti e fascisti, e nemici (occulti) garibaldini e sloveni, creando una reazione di sdegno e di vendetta nei vertici del IX Korpus. Il trasferimento di “Bolla” da parte del comando generale della Osoppo non servì ad alleggerire la tensione, e l’ordine di far sparire il presidio venne fatto eseguire. Il 7 febbraio la 2° Brigata Gap soprannominata “sterminio dei nazifascisti” si diresse a Porzus; era comandata da Mario Toffanin “Giacca”, già comandante di due brigate Gap a est di Udine, una testa calda imbevuto di radicalismo ideologico, insofferente alla disciplina, salvatosi dalla fucilazione per diserzione per intercessione della Federazione del PCI di Udine. “Giacca” si diresse verso il posto della 1°divisione Osoppo, sorprese il comando, arrestò tutti i presenti e dopo una sentenza di morte fece fucilare tutti. Morirono 16 partigiani osovani, tra i primi il comandante De Gregori, il commissario politico Valente “Enea”, Guido Pasolini “Ermes”, fratello del poeta, e anche una giovane ragazza, Elda Turchetti, che si9 era costituita volontariamente alle forze partigiane per proclamarsi innocente dopo che Radio Londra l’aveva accusata di essere una spia. L’eccidio venne giustificato come un atto di giustizia per il tradimento nei confronti degli osovani, che poi si rivelò infondato. Di sicuro gli osovani furono fatti sparire perché si trovarono in un territorio di spettanza ai comandi jugoslavi, ed erano perciò ritenuti scomodi. Tale eccidio è tuttora fonte di acerre polemiche all’interno dell’ambiente della resistenza.

I. 2. Occupazione o liberazione? I 48 giorni della presenza militare jugoslava

8 T. Piffer, Porzus, Il mulino, 2012, pp. 82 - 84 T. Piffer, Porzus, Il mulino, 2012, pp. 197 - 198

9 R. Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 31 - 35 R. Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 71 - 74 T. Piffer, Porzus, Il mulino, 2012, pp. 75 – 77

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In vista della liberazione di Trieste, sul piano internazionale gli attori in campo si prepararono al dopo: gli americani ribadirono l’esigenza di sottoporre tutto il territorio italiano sotto occupazione alleata, mentre gli inglesi erano più favorevoli a un accordo con Tito. Gli jugoslavi non erano disposti a condividere Trieste e la regione giuliana definito Litorale sloveno. Il 7 marzo 1945 il comitato centrale del partito comunista sloveno impartì indicazioni in vista dell’occupazione di Trieste: preparare il personale qualificato, la polizia, mettere su un apparato in 28 ore, prelevare, giudicare e fucilare i reazionari.

Nella primavera del ‘45 l’esercito jugoslavo riuscì ad arrivare in Istria, a Trieste e a Gorizia, nella speranza di porre gli Alleati di fronte al fatto compiuto dell’annessione di città e terre rivendicate come slave data la presenza plurisecolare di comunità slovene e croate. Nelle ultime fasi della guerra, Tito concentrò il suo sforzo militare sulla Venezia Giulia, lasciando Lubiana e Zagabria in mani tedesche pur di raggiungere il Tagliamento, e riuscì a giungere fino a Romans, nella Bassa Friulana. Trieste, Gorizia, Fiume e tutta l’Istria furono così occupate dai partigiani slavi, che disarmarono la brigata Triestina, formata da partigiani locali che avevano combattuto contro il comune nemico nazista, ed intimarono alle brigate Garibaldi del Friuli di non avvicinarsi alle aree occupate dai titini. Il primo maggio 1945 i partigiani di Tito riuscirono dopo un’affannosa marcia forzata ad entrare a Gorizia e a Trieste prima delle truppe alleate. Il “fatto compiuto”, l'insediamento jugoslavo a Trieste, si sviluppava pertanto in una direzione opposta rispetto agli accordi stipulati in precedenza tra Tito ed il generale britannico Alexander. Il 2 marzo 1945 a Belgrado i due rappresentanti governativi avevano accordato la possibilità di un insediamento dell'amministrazione americana nell’«area necessaria a mantenere il controllo delle linee di comunicazione stradali e ferroviarie con l'Austria»10, comprendente Trieste e Pola. Anche in caso di presenza degli alleati, Tito chiedeva che venisse comunque mantenuta la propria amministrazione civile sul territorio. Nonostante gli accordi, dunque, nel maggio dello stesso anno Trieste era in mano alle truppe jugoslave.

Tra marzo ed aprile del 1945 le truppe jugoslave avevano lanciato la loro offensiva finale, supportati in un secondo momento dalle truppe alleate. L’avanzata era stata rapida: Bihac era caduta il 4 aprile e il 10 Senj. I tedeschi arretrarono sempre più a nord, la IV armata partigiana il 20 aprile entrò a Sussak (sobborgo di Fiume), l'ultima difesa tedesca venne organizzata a Fiume, la IV armata aggirò l’ostacolo e attraversò via mare l’Istria. La città in cui gli eventi bellici rendono percepibili anche le prime ostilità tra i liberatori jugoslavi e quelli britannici, preludio ad una prospettiva di subordinazione agli stessi. «Era necessario insorgere non troppo prima dell'arrivo degli alleati occidentali, ma comunque prima che la città venisse occupata dagli jugoslavi»11. A causa di questi contrasti, si impedì una collaborazione unitaria nella battaglia finale. I due gruppi, quello del Cln e quello del Ceals, iniziò l’insurrezione separatamente e contrapposti, rivendicando il merito a fine conflitto a sé della liberazione della città. Naturalmente già il clima teso fu accentuato dalla presenza di collaborazionisti e fascisti con il bracciale tricolore. Il Cln di Trieste respinse sempre e in ogni caso la proposta di Coceani di costituire un fronte unico antislavo (X Mas, Guardia Civica, Cln).

All'alba alle 5.20 del 30 aprile iniziò l'insurrezione generale. Trieste era già stata presa e controllata dalle forze partigiane del Cln e dell’Unità Operaia filo-jugoslava. Le forze del IX Korpus sloveno entrarono in città, precedendo l’esercito jugoslavo della IV armata.. I rappresentanti tedeschi si rifugiano in quattro

10 FONTE?? 11 FONTE??

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roccaforti cittadine, rifiutando la resa se non in presenza di ufficiali inglesi ed americani. Gli scontri si registrarono principalmente nelle zone di Opicina (sull’altipiano carsico), del Porto Vecchio, del castello di San Giusto e dentro il Palazzo di Giustizia, in città. Tutto il resto della città fu liberato. Il comando tedesco si arrese solo il 2 maggio alle avanguardie neozelandesi entrate in città dopo lunghe trattative, che precedettero di un giorno l’arrivo del generale Sir Bernard Gyril Freyberg. Le brigate partigiane jugoslave di Tito erano già giunte a Trieste il 1º maggio e i suoi dirigenti convocarono in breve tempo un’assemblea cittadina composta da cittadini jugoslavi e da due italiani. Questa assemblea proclamò la liberazione di Trieste, presentando i partigiani di Tito come i veri liberatori della città agli occhi degli alleati e spingendo i partigiani non comunisti del CLN a rientrare nella clandestinità.12

Gli jugoslavi esposero sui palazzi la bandiera jugoslava, il Tricolore italiano con la stella rossa al centro e le bandiere rosse con la falce e martello. Le brigate jugoslave, giunte a Trieste a marce forzate per precedere gli anglo-americani nella liberazione della Venezia Giulia, non contenevano nessuna unità partigiana italiana inserita nell’Esercito jugoslavo, mandate invece a operare altrove, benché molti triestini (italiani e sloveni) vi fossero compresi. Gli alleati (nello specifico la Seconda divisione neozelandese, la prima ad arrivare in città), riconobbero che la liberazione era stata compiuta dai partigiani di Tito e in cambio chiesero e ottennero la gestione diretta del porto e delle13 vie di comunicazione con l’Austria (infatti, non essendo ancora a conoscenza del suicidio di Hitler, gli angloamericani stavano preparando il passo ad un’invasione dell’Austria e quindi della Germania). L’esercito jugoslavo assunse i pieni poteri. Nominò un Commissario Politico, Franc Štoka, membro del partito comunista. Il 4 maggio vennero emanati dall’autorità jugoslava a Trieste, il Comando Città di Trieste (Komanda Mesta Trst) gli ordini 1, 2, 3 e 4 che proclamano lo stato di guerra, impongono il coprifuoco (a combattimenti terminati) e uniformano il fuso orario triestino a quello jugoslavo. Limitarono la circolazione dei veicoli e prelevarono dalle proprie case numerosi cittadini, sospettati di nutrire scarse simpatie nei confronti della ideologia che guidava le brigate jugoslave. Fra questi non vi furono solo fascisti o collaborazionisti, ma anche combattenti della Guerra di Liberazione. Un

memorandum statunitense dell’8 maggio recitava:

A Trieste gli Jugoslavi stanno usando tutte le familiari tattiche di terrore. Ogni italiano di una qualche importanza viene arrestato. Gli Jugoslavi hanno assunto un controllo completo e stanno attuando la coscrizione degli italiani per il lavoro forzato, rilevando le banche e altre proprietà di valore e requisendo cereali e altre vettovaglie in grande quantità14.

12 T. Piffer, Porzus, Il mulino, 2012, pp. 87 - 111

R. Worsdorfer, Il confine orientale, Il mulino, 2009, pp. 201 M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 279

13 R. Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 137 – 171 R. Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 228 – 237

M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 257 – 281 M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il mulino, 2007, pp. 283 – 294 14 FONTE???

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L’otto maggio proclamarono Trieste città autonoma in seno alla Repubblica Federativa di Jugoslavia. La città visse momenti difficili, di gran timore, con le persone dibattute tra idee profondamente diverse: l’annessione alla Jugoslavia o il ritorno all’Italia. In questo clima si verificarono confische, requisizioni e arresti sommari. Vi furono anche casi di vendette personali, in una popolazione esasperata dagli eventi bellici e dalle contrapposizioni del periodo fascista. Invano i triestini sollecitarono l’intervento degli Alleati.

Iniziarono così i quaranta giorni di occupazione jugoslava di Trieste, una liberazione dal punto di vista della comunità slovena residente nella città, una terribile oppressione per gli italiani, per i triestini che ancora oggi ricordano con dolore quel capitolo della loro storia. Con l'occupazione jugoslava si verificarono requisizioni, confische, arresti di numerosi cittadini, sospettati di nutrire scarsa simpatia nei confronti dell'ideologia comunista o ritenuti inaffidabili per posizione sociale, censo, origini familiari e, come accennato in precedenza, nazionalità. L’amministrazione titina trovò vasti consensi non solo tra la popolazione slovena, ma anche tra gli operai italiani di orientamento comunista.

Forte disaccordo venne invece manifestato dalla restante parte della popolazione italiana. I poteri popolari. I poteri popolari provvederono alle necessità prime dei cittadini e li coinvolsero nella creazione del nuovo regime, ma a tale politica propositiva si affiancò la repressione. Questa assunse la forma di un’ondata di violenza di grandi proporzioni: nella Venezia Giulia i nuovi poteri adottarono la medesima logica di eliminazione di massa degli avversari politici adottata nei territori jugoslavi appena liberati dai tedeschi. A Trieste si contarono alcune migliaia di arresti, che avvennero sulla base di liste da tempo preparate dalla polizia politica, l’Ozna (Odeljenje za Zaštitu Naroda, ossia Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). Le categorie colpite erano prevalentemente quadri del partito fascista e delle organizzazioni del regime, collaborazionisti dei tedeschi, rappresentanti dello Stato italiano, membri delle forze di polizia, elementi che negli anni precedenti in qualche modo si erano distinti per il loro anti-slavismo, aderenti ad associazioni patriottiche italiane, persone note per i loro sentimenti italiani, ma anche sloveni anticomunisti, soggetti che a diverso titolo avrebbero potuto guidare il dissenso nei confronti delle nuove autorità. All’arresto seguì di rado l’accertamento di responsabilità individuali. Gli arrestati vennero uccisi subito o, nella maggior parte dei casi, inviati nei campi di prigionia, dove condizioni di vita precarie, maltrattamenti e mancanza di alimentazione mietono un alto numero di vittime. Il più noto è il campo di Borovnica, presso Lubiana.

Nei primi giorni di maggio del 1945 le truppe jugoslave occuparono tutto il territorio della Venezia

Giulia, accolsero la resa dei reparti tedeschi e della Repubblica di Salò, procedendo

all’internamento di tutti i militari catturati. Durissimo era il trattamento inflitto ai prigionieri. Molti

morirono di stenti, altri nei campi di concentramento, particolarmente famigerato quello di

Borovnica, altri ancora durante le marce di trasferimento, che si trasformarono sovente in marce

della morte. Durante la quale feriti, deboli e ammalati vennero abbattuti lungo la strada. Giunti nei

campi, la situazione per i prigionieri non migliorò, perché nel corso dell’estate fame, violenze e

malattie mieterono un gran numero di vittime. Non tutti i militari vennero deportati. Specialmente

nella prima decade di maggio numerose, presumibilmente anche centinaia, furono le esecuzioni

sommarie, compiute in genere subito dopo la cattura e decise senza previo accertamento delle

responsabilità individuali. Ciò che contava era la colpa collettiva di appartenere alle forze armate

naziste o della Rsi. Dell’internamento, come pure delle liquidazioni, dei militari italiani si occupava

direttamente la IV armata jugoslava. Protagonista delle retate civili fu l’Ozna, la polizia politica e di

sicurezza, col concorso della Difesa popolare, una milizia paramilitare agli ordini del Consiglio di

liberazione. Sempre nella logica dell’eliminazione delle forze armate nemiche esistenti sul

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territorio, rientrava anche la deportazione delle unità della Guardia di Finanza, che non avevano mai

partecipato ad azioni antipartigiane, e di molti membri della Guardia Civica di Trieste. In entrambi i

casi, si trattava di formazioni che, largamente infiltrate dal CLN giuliano, avevano partecipato sotto

i suoi comandi alla battaglia finale contro i tedeschi: tale circostanza quindi permette di chiarire

come l’obiettivo reale dell’azione repressiva condotta nei loro confronti consistesse nella

liquidazione di qualsiasi forma di potere armato non inquadrato nell’armata jugoslava. A venir

perseguitati furono anche i combattenti del Corpo Volontari della Libertà che avevano lanciato il 30

aprile a Trieste un’insurrezione contro i tedeschi, apertamente concorrenziale rispetto alla

liberazione in arrivo sulla punta delle baionette jugoslave. La volontà di eliminare chiunque potesse

opporsi alle pretese egemoniche dei “poteri popolari” condusse le autorità jugoslave a perseguitare

a Fiume anche gli autonomisti zanelliani, cioè i seguaci di Riccardo Zanella, che fecero la stessa

fine di altri leader dell’autonomismo fiumano Mario Blasich e Giuseppe Sincich uccisi nella loro

abitazione.

La nascita dell’Ozna - l’organo a cui era demandata l’organizzazione della repressione - è da fissare nel giugno del 1944 poco dopo i colloqui di Drvar, più o meno nel periodo in cui Tito spostò il quartier generale sull’isola di Lissa, dopo che paracadutisti tedeschi attaccarono Drvar. Aveva sede sia in Slovenia presso Lubiana a fine guerra e in Croazia a Topuska, dove vi era la IV Korpus. Fondata sul modello sovietico dell’Nkvd, un organico composto da 15.000 persone e un proprio braccio armato il Corpo di difesa popolare della Jugoslavia (Korpus narodne odbrane Jugoslavije, Knoj). Essa fu la prima organizzazione pan jugoslava di intelligence e guerra psicologica sotto comando comunista; aveva una struttura centralizzata con ramificazione territoriale, il suo ruolo la poneva al di sopra degli organi locali amministrativi e di partito. Tutti i suoi membri erano iscritti al partito comunista. In un certo senso era più monolitica della Ceka sovietica, nella quale inizialmente operavano oltre ai bolscevichi anche aderenti ad altri partiti. Essa aveva sezioni di sorveglianza per ogni specifico obiettivo: tedeschi, collaborazionisti, movimenti di liberazione. L’Ozna oltre che la repressione, si occupava anche della prevenzione, nel senso che i vertici si preoccupavano in largo anticipo di individuare i soggetti da diffidare. L’Ozna, in quanto15 parte del movimento partigiano, non era semplicemente una realtà a sé stante ma, coerentemente con le direttive di Tito, fu fin dall’inizio lo strumento di uno Stato in costruzione, mezzo per la creazione della nuova Jugoslavia. Non soltanto creò lo Stato, ma contribuì anche a dar vita al “popolo”, comprese le “minoranze” riconosciute, isolando, imprigionando e in alcuni casi eliminando chi non doveva farne parte.

L’azione dell’Ozna non si può spiegare solo con la crudeltà della politica di occupazione tedesca in Serbia o con la brutalità dell’amministrazione italiana nella Provincia di Lubiana, anche se vanno sempre tenuti presenti. Dietro gli atti di polizia segreta c’era sempre una precisa volontà di potere, poco sensibile alle regole e ai diritti. Come si legge nel documento del Comitato centrale, l’Ozna doveva «difendere i successi e le conquiste della lotta di liberazione dei popoli jugoslavi dai nemici della Jugoslavia democratica, che anche dopo il definitivo annientamento della Germania hitleriana tenteranno di dissolvere la Jugoslavia

15 F. Amodeo, Trieste 30 aprile 1945, LEG, 2007, pp. 84 – 115 F. Amodeo, Trieste 30 aprile 1945, LEG, 2007, pp. 116 – 131 F. Amodeo, Trieste 30 aprile 1945, LEG, 2007, pp. 120 – 121 R. Pupo, Trieste ‘45, Laterza, 2010, pp. 238 – 246

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