• Non ci sono risultati.

Si è già parlato in precedenza della percezione dei confini nell'opera di Tawada, che non si esaurisce tuttavia nel discorso sui confini geografici e culturali, ma tocca l'essere umano molto più da vicino, in quella che è la percezione dei confini del proprio corpo.

Robin Leah Tierney sostiene che il corpo in Tawada non sia né una categoria biologica né sociologica, ma piuttosto un “punto di sovrapposizione tra condizioni fisiche, simboliche e materiali”, e risulti quindi simultaneamente una costruzione culturale e un'entità materiale.53

Il corpo diventa quindi il punto di congiunzione tra iscrizioni culturali e le nostre nature eterogenee e discontinue: due elementi che non dovrebbero essere messi in contrapposizione gli uni agli altri, perché il corpo è costituito da componenti sia fisiche che culturali.

Il confine tra il nostro corpo e ciò sta fuori, all'esterno, è apparentemente ovvio ed evidente: la pelle, questa membrana che avvolge completamente il corpo e permette il contatto fisico dell'io con il mondo esterno:

Si allunga la mano e si sente dove ha fine questo mondo; lì c'è la mia pelle.54

Nonostante questo confine apparentemente chiaro e ben definito, il corpo umano sperimenta numerose metamorfosi nel corso della sua esistenza: dall'infanzia alla pubertà, dall'età adulta alla vecchiaia, sono innumerevoli i momenti nel corso della vita in cui il nostro corpo si trasforma tanto che non si è più in grado di riconoscerlo. Questi cambiamenti ci fanno talvolta percepire il nostro stesso corpo come qualcosa di sconosciuto, rendendo ancora più nebuloso il confine tra sé e altro, tra proprio ed estraneo.

Tawada sostiene che percepire qualcosa come improvvisamente sconosciuto serva inoltre da stimolo poetico: il turbamento dato dall'inaspettato contatto con elementi che non si conoscono o non si riconoscono più porta a un disagio esistenziale che è alla base dell'ispirazione artistica e letteraria.

E questo non ha inizialmente nulla a che vedere con culture straniere o con la migrazione; anche a casa si hanno sufficienti occasioni di percepire qualcosa come estraneo.55

53 TIERNEY, “Japanese literature...”, cit., p. 97 54 TAWADA, Il bagno, cit., p. 84

Quest'inquietudine viene percepita quando avvertiamo qualcosa come estraneo, in movimento, in trasformazione e non più stabile, fisso. Quando inizia una metamorfosi, un cambiamento, la sensazione di sicurezza data dalla conoscenza di quel determinato elemento viene meno.

È ciò che sostiene la voce narrante in “Gottoharuto no tetsudō” 「ゴットハルトの鉄道」 (“La ferrovia del Gottardo”) mentre esamina la cartina dell'Europa:

Anche se ciò che è duro e fisso è sempre una menzogna, solidificare qualcosa procura un senso di sicurezza. Finché abbiamo una mappa, non ci preoccupiamo di perderci. Se non ne abbiamo una, fatichiamo a respirare anche se non ci siamo persi.56

Confini tanto netti e precisi da essere segnati su una mappa, dice pertanto Tawada, sono sempre una bugia che raccontiamo a noi stessi per un bisogno di sicurezza che ci può essere dato soltanto da ciò che è fisso e stabile. Il sentirsi perduti senza una mappa denota una necessità di punti saldi e fermi tipica dell'essere umano, altrimenti intimorito da ciò che si sposta continuamente ed è in perenne evoluzione, fonte di caos e disordine incontrollabili, insopportabili alla percezione umana.

Capitolo Sei

La percezione dell'“altro”

6.1 Esotismo e “occhiali giapponesi”

Sabine Fischer, nel suo saggio “Die fiktive Ethnologie der Yōko Tawada” (“L'etnologia fittizia di Yōko Tawada”) ritiene che spesso, in Germania, ci sia una forte separazione tra scrittori tedeschi e autori immigrati: questi ultimi risponderebbero a un “desiderio d'esotico” (Sehnsucht nach Exotik) dei lettori, e il segreto della loro popolarità risiederebbe spesso nel grado di esotismo più o meno consapevole riscontrabile nelle loro opere.57

Questo porta a una netta separazione tra ciò che è “proprio” e ciò che è estraneo; evidenziare in modo particolare un'origine esotica e attribuire quindi uno sguardo straniero comporta per questi autori/autrici un disprezzo del loro sviluppo personale e letterario complessivo, sostiene Fischer. Il caso di Tawada non sembrerebbe diverso: nelle pubblicazioni europee il Giappone viene esoticizzato da molti secoli, è la terra enigmatica per eccellenza e luogo di proiezione di fantasie e leggende. Non ci si potrebbe immaginare Paese geograficamente e culturalmente più lontano, in perenne e insuperabile contraddizione con l'Europa.

Tuttavia il percorso storico del Giappone ha fatto sì che dalla seconda metà del diciannovesimo secolo si materializzasse un impulso, una tendenza a imitare l'Occidente – in particolare l'Europa – che si sono espressi in una manipolazione costante del proprio “corpo” e dell'immagine che si ha di esso, in quella che Wolfgang Michel definisce “simbiosi di autostereotipi e stereotipi stranieri”. Il Giappone è stato ed è tuttora oggetto di stereotipizzazione da parte della cultura occidentale, ma allo stesso tempo ha assimilato e fatto proprie tali proiezioni, riproponendole in un processo ricorrente di “autoesotismo” che Tawada tratta spesso, come spiega Fischer:

Tawada comprende l'esotismo del Giappone come somma delle fantasie che esistono nella testa degli europei e vengono imitate e ripetute dai giapponesi.58

Lo sguardo dell'autrice sull'Europa si origina dalla posizione di mezzo come immigrata che proviene da una cultura occidentalizzata, non occidentale: non è quindi né completamente straniera

57 Sabine FISCHER, “Durch die japanische Brille gesehen: Die fiktive Ethnologie der Yoko Tawada”,

Gegenwartsliteratur: A German Studies Yearbook, 2, 2003, pp. 59-80 58 Ibid.

né completamente “di casa”. Per poter percepire l'Europa come estranea, deve avvalersi di una prospettiva artificiale, costruita, ben espressa dalla metafora degli occhiali.

Per poter vedere l'Europa devo mettermi degli occhiali giapponesi [japanische Brille]. Dato che non c'era e non c'è qualcosa come una visuale giapponese […] questi occhiali sono forzatamente fittizi e devo crearne continuamente di nuovi. Ma la mia vista giapponese non è in nessun caso autentica, nonostante il fatto che sia nata e cresciuta in Giappone.59

Questi “occhiali giapponesi” di Tawada sono quindi un prodotto europeo: dietro di essi non si cela nessun modo preciso di vedere il mondo. Lo sguardo nascosto dietro gli occhiali è uno sguardo ibrido, che Tawada identifica con la prospettiva dello straniero che è artificiale, costruita. Una prospettiva esterna che serve all'autrice come impulso per la sua creatività letteraria, e che fa aguzzare lo sguardo nei processi di percezione, interpretazione e rappresentazione di ciò che è straniero ed estraneo.

Documenti correlati