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È stato spesso chiesto a Tawada se la sua conoscenza del tedesco influenzi in qualche modo la sua scrittura in giapponese, o se il suo essere madrelingua giapponese influenzi la sua scrittura in tedesco. A tale domanda, l'autrice risponde:

Penso di sì. Dato che non posso smettere di pensare in tedesco in alcune parti del mio cervello, riesco a vedere la lingua giapponese dall'esterno, anche se scrivo

in giapponese. Quindi è giapponese, ma non lo stesso giapponese di qualcuno che vive all'interno di questa lingua.32

Tawada va però oltre questa concezione di traduzione dal giapponese al tedesco e viceversa: sostiene che in realtà la lingua stessa sia una traduzione dei nostri pensieri amorfi e prelinguistici.

Penso che sia un'illusione credere che la lingua madre sia autentica. Anche la lingua madre è una traduzione di pensieri non-verbali o pre-verbali. La lingua non è naturale per noi, ma piuttosto artificiale e magica.33

È un'idea che si riconduce alla concezione di Walter Benjamin, secondo il quale originale e traduzioni altro non sono che frammenti di un insieme più grande, come un vaso infranto che deve essere ricomposto.

In Das Bad (“Il bagno”) la protagonista ricorda quando, alle scuole elementari, le era stato insegnato a utilizzare il pronome watashi 私 per indicare se stessa, al posto del nome proprio che la indicava in terza persona, com'è comune nel linguaggio infantile giapponese. Ricorda quanto sforzo le costasse utilizzare tale parola e indicare se stessa in prima persona, tanto che evitava di parlare con gli altri e, se costretta a utilizzare watashi, iniziava a balbettare.

Quando a un certo punto torna a casa in Giappone, nell'annunciare la sua presenza alla madre si ritrova suo malgrado a usare tale pronome:

“Okaasan, watashi yo! - Sono io, mamma!”

Era da molto che non parlavo giapponese; nella parola okaasan rincontrai quella che ero stata una volta, alla parola watashi ebbi la sensazione di essere la traduttrice simultanea di me stessa.34

Risulta qui evidente come persino un'azione tanto automatica come indicare se stessi sia soggetta a influenze linguistiche e culturali: la protagonista si sente molto più a suo agio nel parlare di sé in terza persona, mentre prova una sensazione di estraneità nell'utilizzare un pronome più diretto come watashi. È un senso di estraneità tale che la fa sentire come se stesse traducendo non solo i suoi

32 Featured Writer: Yoko Tawada, in conversation with Amir Eshel, “Arcade Stanford”, 2009,

http://arcade.stanford.edu/featured-writer-yoko-tawada, 15/09/2013 33 TOTTEN e MITSUTANI, “A conversation...”, cit., pp. 93-100

pensieri in parole, ma le sue stesse parole nei vocaboli di un'ulteriore seconda lingua, come se lei stessa fosse la traduttrice di cui ha bisogno per produrre un discorso comprensibile agli altri. La stessa lingua madre diventa qui una seconda lingua, un secondo livello di comunicazione, con la conseguente messa in discussione della sua cosiddetta autenticità.

Capitolo Tre

Il concetto di identità

3.1 Il tema dell'identità: l'identità dell'autrice

Tawada si può ascrivere al numeroso gruppo di scrittori emigrati e residenti in Paesi diversi da quello d'origine, per necessità o scelta di vita: spesso provenienti da esperienze diverse, è tuttavia possibile ritrovare nelle loro opere un tema comune, quello dell'identità, pur se trattato in diversi modi e sotto diversi aspetti. La perdita dell'identità, la sua costruzione, la mancanza di radici e l'esperienza di annullamento dell'io sono solo alcune delle sfaccettature di questa tematica attuale e complessa, ma non tutte si ritrovano nell'opera di Tawada.

All'autrice viene spesso posta la questione della percezione della propria identità: si sente una scrittrice giapponese o tedesca? Quale delle due lingue sente maggiormente propria? In quale delle due lingue sogna?35

Sono domande a cui l'autrice risponde dicendo che è inutile insistere su un'unica identità, fissa e stabile, che altro non fa se non negare la complessità dell'individuo.

Tawada non può essere considerata solo un'autrice giapponese perché le sue esperienze di vita, le sue tematiche vanno ben al di là dei confini geografici e culturali del Giappone; allo stesso tempo, tuttavia, lei stessa non si definisce nemmeno un'autrice tedesca, europea.

Mi sento una scrittrice berlinese, dato che Berlino è uno spazio dove artisti internazionali vivono delle loro performance; ci sono molti teatri, concerti e letture... e ci vivo, questo è vero.

[…] Sono un'autrice europea? L'Europa ha una lunga storia, e quando si parla di storia la gente non intende quella degli ultimi dieci, venti o trent'anni, ma la lunga storia dell'Europa, che esiste nell'immaginario di chi ci vive.

Non appartengo al passato, ma sono nell'Europa contemporanea. Tuttavia l'Europa non è contemporanea, l'Europa esiste nel passato: è questo il problema per cui non posso essere una scrittrice europea.

È diverso negli Stati Uniti: se scrivessi in inglese e fossi un'immigrata negli Stati Uniti, forse direi: “Sono americana, una scrittrice nippo-americana”.

Ma l'Europa non è un Paese di immigrati... non ho bisogno di un'identità nazionale per la mia scrittura e non ho bisogno di un'identità nazionale per la mia letteratura.

Dico solo: scrivo i miei testi in giapponese e in tedesco, e alcuni di essi vengono tradotti in altre lingue... la mia letteratura esiste in numerose lingue. Nessuna di esse mi appartiene.36

Per Tawada leggere e scrivere significa porre delle domande; se ne deduce che “leggere il mondo” significhi per lei metterlo in discussione senza tuttavia trovare delle risposte definitive.37

A questo si lega anche il tentativo di riformulare il concetto di identità, decostruendo la nozione di identità nazionale e ridefinendo la mappa dei suoi confini.

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